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Un famoso padre cappuccino
della Sardegna (Tommaso da Calangianus) trucidato a Damasco nel 1840,
il confratello Francesco da Ploaghe e il volume “Aceldama”
(1896)
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Dall’ Enciclopedia Treccani:
«ACELDAMA, “CAMPO DEL SANGUE”, che secondo gli Atti
degli Apostoli (1, 18-19) il Sinedrio di Gerusalemme acquistò da
un vasaio con le 30 monete d’argento prezzo del tradimento di Giuda,
che questi prima di impiccarsi gettò nel Tempio. La tradizione
colloca l’Aceldama sulle pendici settentrionali o occidentali del
monte Sion».
Questa spiegazione ci fa capire perché questa parola ricorra in
primo piano nel titolo della seguente pubblicazione: «ACELDAMA /
ossia / processo celebre / istruito contro gli ebrei di Damasco / nell’anno
1840 / in seguito al doppio assassinio rituale da loro consumato / nella
persona del / padre TOMMASO DALLA SARDEGNA / missionario cappuccino /
ed in quella del suo garzoncello cristiano / EBRAHIM AMARAH / all’
unico scopo di avere il loro sangue. / Con documenti relativi ed appendice
storica / Cagliari-Sassari / Premiato Stab. Tipografico G. Dessì
/ 1896» (edito anonimo dal padre Atanasio da Quartu).
Vediamo chi è stato questo padre Tommaso dalla Sardegna, sulla
base delle informazioni biografiche contenute nel Breve compendio della
sua vita scritte dal confratello padre Francesco da Ploaghe e pubblicato
proprio in “Aceldama, ossia processo ecc. ”.
Padre Tommaso da Calangianus, al secolo Francesco Antonio Mossa, nacque
a Calangianus il 2 aprile 1777 da Tommaso e da Maria Carlotto. Rivelò
particolare attitudine allo studio nel settore della farmacia, che lo
appassionò dai dodici ai diciotto anni, età in cui indossò
il saio cappuccino presso il convento di noviziato a Ploaghe. Desideroso
di fare il missionario, studiò al Collegio delle missioni estere
a Roma e quindi venne inviato in Siria.
Imbarcatosi il 26 marzo 1807 a Livorno, insieme con padre Francesco da
Ploaghe e padre Bonaventura da Sassari, dopo un viaggio di 25 giorni giunse
a Sidone; da lì i tre missionari partirono verso Damasco, dove
giunsero il 14 aprile, e dove si stabilirono nella residenza dei cappuccini.
Padre Tommaso divenne ben presto famoso perché, esperto di medicina,
vaccinò migliaia di bambini senza distinzione di appartenenza religiosa
(questo risultato nel campo della sanità pubblica non era propriamente
“pacifico” che potesse raggiungerlo un testimone rigoroso
della fede cristiana in una città caratterizzata da profonde divisioni
tra cristiani ed ebrei). Per questi suoi meriti Tommaso era personaggio
pubblico amato e rispettato, che poteva circolare liberamente in tutta
la città e che addirittura frequentava il palazzo del sultano.
La sua assistenza materiale era apprezzata anche dalla comunità
ebraica, ma il 5 febbraio 1840 le sue tracce si persero proprio nel quartiere
ebraico e alcune settimane dopo si scoprì che lì era stato
terribilmente trucidato insieme al suo servitore locale Ibrahim Amara.
La comunità cristiana di Damasco qualificò l’assassinio
di padre Tommaso come un omicidio rituale da parte degli ebrei, irritati
perché Tommaso aveva avuto l’ardire di affiggere proprio
fuori della sinagoga un avviso relativo a una vendita di beneficenza.
L’epigrafe mortuaria dettata da padre Francesco di Ploaghe sulla
tomba dell’ucciso recita: «D.O.M. Qui riposano le ossa del
padre Tommaso da Sardegna, missionario apostolico cappuccino, assassinato
dagli ebrei il giorno 5 di febbraio dell’anno 1840».
Il 28 febbraio vennero trovati resti umani in una tubatura; si dichiarò
che appartenevano a padre Tommaso e si celebrò un solenne funerale
il 2 marzo.
Le notizie della morte tragica di padre Tommaso e dell’inizio della
lunga istruttoria del processo, che durò parecchi mesi (con undici
ebrei successivamente incarcerati – uno morirà a causa delle
torture –), oltre all’interesse della stampa di tutto il mondo
(con centinaia, poi migliaia di articoli) suscitarono viva emozione presso
le organizzazioni cristiane e presso gli organismi istituzionali non solo
in Italia (il ministro degli esteri del regno di Sardegna, Solaro della
Margherita, commentò la vicenda con parole di fuoco), ma in tutta
l’Europa, facendo però venire alla luce – dicono gli
storici – «oltre al legittimo sconcerto, un radicato atteggiamento
antisemita nel nostro Paese».
Ecco cosa scrive a tal proposito Carlo Pillai nel saggio “Le vicende
degli ebrei in Sardegna attraverso la documentazione d’archivio
(età moderna e contemporanea)” pubblicato nel volume “Ebraismo
e rapporti con le culture del Mediterraneo nei secoli XVIII-XX”
a cura di Martino Contu, Nicola Melis, Giovannino Pinna (Firenze, Giuntina,
2003), che raccoglie gli atti del convegno omonimo tenutosi a Villacidro
il 12 e 13 aprile 2002: «I clericali sardi non vollero essere da
meno [della rivista “Civiltà cattolica”] e nel 1896
pubblicarono “Aceldama”, ossia gli atti del processo di Damasco,
corredati però da una orripilante “Appendice storica”
infarcita di omicidi rituali (vero campionario dell’orrore), sistemati
in ordine cronologico dal secolo I al XIX, “in cui lo sgorgo del
sangue umano non è più localizzato, non più spiccia
a spruzzi e zampilli, ma innonda ed allaga tutte le nazioni”. Lascia
sgomenti la sicurezza con la quale nel libro si afferma l’utilizzo
da parte degli ebrei “del sangue cristiano come farmaco infallibile
nelle sinistre vicende della vita” come pure lasciano interdetti
certe affermazioni lapidarie, del tipo: “ormai verun dubbio può
sorgere intorno al traffico del sangue cristiano secretamente esercitato
dagli ebrei di ogni nazione”».
Giustamente Pillai ricorda che in Sardegna questi atteggiamenti sono da
considerarsi minoritari anche nell’Ottocento (un intellettuale come
il canonico ploaghese Giovanni Spano, 1803-1878, autore di una “Storia
degli ebrei in Sardegna”, sosteneva che «gli ebrei fecero
del bene alla Sardegna») mentre, per il secolo XX, documentano una
ripresa di posizioni filoebraiche «Luigi Falchi e la sua teorizzazione
della dominazione ebraica in Sardegna e anche Emilio Lussu e la sua teoria
del semitismo dei sardi e la difesa degli ebrei che egli fece in terra
d’esilio».
In un bell’articolo dal titolo “Il caso di Damasco: cattolici,
antisemitismo e politica negli anni 1840”, Massimo Introvigne (cfr.
“Cristianità” n. 279-280/1998, e il link http://www.alleanzacattolica.org/indici/articoli/introvignem279_280.htm)
recensisce il volume, non tradotto in italiano, di cui è autore
Jonathan Frankel, professore di storia ebraica presso la Hebrew University
di Gerusalemme, “The Damascus Affair. ‘Ritual Murder’,
Politics, and the Jews in 1840” (Cambridge University Press, Cambridge-New
York-Melbourne 1997), e in chiusura scrive: «Il mondo che ruota
intorno al caso di Damasco – un giallo senza soluzione, anche se
Frankel, come probabili assassini di padre Tommaso e del suo servitore,
punta il dito su commercianti musulmani con cui aveva avuto un diverbio
– sembra così talora un mondo alla rovescia, dove i “reazionari”
aiutano gli ebrei e i “progressisti” – dal liberale
Thiers a Marx – credono alle accuse di omicidio rituale o le utilizzano
per i propri fini. Frankel non difende certo, nel suo volume, la Chiesa
cattolica in quanto tale: lamenta, per esempio, l’assenza di reazioni
romane contro un documento colpevolista del patriarca greco-cattolico
di Damasco, Maximos, e il fatto che una lapide che definisce padre Tommaso
“assassinato dagli ebrei” non sarebbe stata ancor oggi rimossa.
Causa celebre per eccellenza nella storia dell’antiebraismo –
Adolf Hitler voleva trarne un film, e ancora nel 1992 il delegato siriano
a una conferenza dell’ONU sui diritti umani la citava come esempio
evidente di perfidia ebraica –, la vicenda di Damasco mostra però,
nell’analisi di Frankel, come parlare semplicemente de “i
cattolici” quando si esaminano i colpevoli e le responsabilità
nella transizione dall’antigiudaismo all’antisemitismo rischi
di essere semplicistico e fuorviante. Di fronte a un momento di crisi
come quello di Damasco la religione s’intreccia con la politica
internazionale, e il mondo cattolico non appare come un monolito, ma piuttosto
come un campo complesso in cui si confrontano posizioni diverse».
Sui missionari apostolici cappuccini, definiti “Araldi del gran
Re: padri Bonaventura da Nuoro, Francesco da Monteleone Rocca Doria, Tommaso
da Calangianus e Francesco da Ploaghe”, ha pubblicato un volumetto
padre Raffaele da Santa Giusta, presso Tip. S. P. S., Cagliari, 1955.
La vicenda del 1840 fu riassunta anche nelle ultime pagine del racconto
storico “Abd-el-Kader: ossia stragi del Libano e di Damasco nel
1860” del padre Perpetuo Dionigi Damonte M. O. (ex missionario apostolico
in Terra Santa e parroco di Piazzano Monferrato), Torino, Collegio degli
Artigianelli, Tip., Lit. e Lib. San Giuseppe, 1884.
Come si capisce da quest’ultimo titolo i cristiani d’Oriente,
negli anni successivi al 1840, continuarono a pagare un prezzo altissimo,
soprattutto a Damasco: si calcola che, in due mesi di furiose distruzioni,
nella seconda metà dell’anno 1860, nella regione di Damasco
e in Libano, morirono almeno 25 mila cristiani.
Due note finali.
1. Un ampio articolo di Gennaro Landriscina “Padre Tomaso e l’affaire
Damasco” è pubblicato alle pagine 359-366 dell’ “Almanacco
Gallurese” n. 19/ 2011-2012 diretto da Giovanni Gelsomino.
2. Nel sito www.anadolukatolikkilisesi.org/it/storia.asp
si ricorda che P. Francesco da Ploaghe è stato prefetto della Custodia
di Siria dei cappuccini italiani negli anni 1829-1934 e ancora Prefetto
dopo il trasferimento (avvenuto nel 1841) della sede centrale ad Aleppo
negli anni 1844-1853: peccato che per questo incarico P. Francesco invece
che da Ploaghe diventi da Bloaghe!
(30-06-2012)
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