DA: “QUADRETTI DI UN TEMPO”

 

Il Gigante del giardino
di Rita Sanna


 

Li ricordo ancora gli alberi di fichi, di melagrane tutte spaccate, il gigantesco albero di noce, il cespuglio di rose che nascondevano la vecchia casetta col tetto di sughero, in un angolo, in fondo al giardino.
Tenendomi sempre lontana, mi ero domandata più volte chi potesse abitarla.
Una tiepida mattina d’inizio primavera, mentre passeggiavo lentamente col nonno, ancora convalescente per una brutta malattia, lungo un viale di peri che conduceva alla misteriosa casetta, gli chiesi: “Chi abita là, nonno?”
Lui rispose che ci abitava Antonio, l’uomo di fatica, quello che stava sempre in giardino a potare le piante, a spaccare la legna, a raccogliere la frutta matura, ad innaffiare gli ortaggi.
Un giorno lo vidi bene in faccia quell’uomo grosso e forzuto che con una pesante zappa tracciava dei solchi nel terreno sotto le finestre della mia stanzetta.
Ne provai un tale spavento da correre come una lepre tra le braccia del nonno. “Quell’uomo mi fa paura. Mi sembra un gigante pericoloso!” gli dissi ansimante. “E’ buono come il pane!” rassicurò lui.
La pioggia insistente aveva riempito quei solchi, spiaccicando le nuove e tenere piantine ma, dopo qualche giorno di sole, le avevo viste dritte sugli esili gambi. Ero contenta che fossero risuscitate, com’era risuscitato, così mi aveva raccontato il nonno, il Gesù,dipinto nel quadro appeso alla parete sopra il mio letto, con un cuore grande e col sangue che sembrava dovesse colarmi sulla testa.
Meravigliata che quelle piantine diventassero di giorno in giorno sempre più alte, una mattina decisi di osservarle da vicino.
All’improvviso mi trovai davanti quell’uomo gigantesco con la barba grigia e con i baffi spinosi. Indietreggiai di alcuni metri puntandogli lo sguardo addosso con diffidenza. In quell’istante mi accorsi che aveva un occhio nero e un occhio bianco.

Allungai il collo verso di lui per vederlo meglio. Aveva proprio un occhio bianco!
“Perché hai quell’occhio così?” gli gridai.
“Eh…perché quando ero piccolo come te, un bambino mi ha infilzato una canna dentro!” rispose serio, poi aggiunse“ …guarda che non devi mai giocare con le canne, hai capito?” e si allontanò per andare a potare le tante piante di rose che il nonno aveva scelto da un catalogo coloratissimo e fatte arrivare da chi sa dove
Confusa e spaventata, andai di corsa sulla terrazza dove il nonno, sprofondato in uno sdraio, godeva dei blandi raggi del sole che spariva ogni tanto dietro le nuvole.
“Nonno, tu non devi farmi più il cavalluccio di canna! Capito?” gli dissi saltandogli sul grembo.
Il nonno mi avvolse con le sue braccia e chiese:
“Che succede, Lisetta? Perchè mi dici questo?”
Gli riferii ciò che mi aveva appena raccontato e raccomandato l’uomo di fatica. Il nonno sorrise bonariamente: “Va bene …stai tranquilla! Non ti farò più il cavalluccio di canna!” poi continuò: “…poveretto Antonio …lo sai che vede da un solo occhio …come Polifemo…!”
”Chi è Polifemo?” gli domandai.
“Lo saprai solo questa sera…prima di dormire!”
Sbuffai più volte, poi attesi rassegnata l’ora d’andare a letto.
La sera, dopo il racconto del nonno, mi addormentai col proposito che avrei chiamato l’uomo di fatica Polifemo, non perché fosse cattivo come quello della leggenda, ma perché aveva solo un occhio.
Oramai non avevo più paura di lui e lo cercavo da ogni parte. Non era difficile trovarlo nel giardino perchè era più alto di molti alberi. Quando non riuscivo a vederlo, perché stava chino a raccogliere le fragole mature,lo chiamavo a gran voce: “Polifemooo, dove seiii?”
Lui rispondeva con una specie di grugnito, forse risentito di non essere chiamato col suo vero nome.
“Lisetta, perché mi chiami Polifemo?” aveva chiesto una volta.
Io, impassibile, gli aveva risposto “Perché me lo ha detto il nonno!”

Una colorata e tiepida mattina di quell’indimenticabile primavera, mentre giocavo insieme con i miei due fratellini a fare le ciambelle e le torte con la terra umida, fui investita da uno strano e intenso profumo che proveniva dalle vicine piantine di fave completamente ricoperte da piccoli fiori, candidi come fiocchi di neve.
“Che belli!”esclamai.
Li annusai più volte e, nonostante il profumo mi risultasse amaro e sgradevole, cominciai a raccoglierli sino a riempirne le tasche del mio grembiulino e quelle dei fratellini.
Dopo aver “vendemmiato” i fiori, tutti e tre decidemmo di rientrare a casa per mostrare il “raccolto” alla mamma.
Prima ancora di raggiungere le scale, ci accorgemmo d’essere inseguiti da Antonio, che, inferocito, indirizzava contro di noi urla incomprensibili, facendo accorrere fuori il serafico nonno che, sentendo il forte odore, non tardò a capire la malefatta.
Io, allora, non potevo capire che da quei fiori sarebbero venute fuori le tenere favette che il nonno intingeva nel mucchietto di sale sul bordo del piatto!
Davanti a noi tre,dritti come soldatini, il nonno, simulando di levarsi la cinta dai pantaloni, aveva assunto un sguardo torvo e severo.
Fu allora che il gigante, abbandonando l’aria minacciosa, intervenne strizzando il solo occhio: “Li lasci stare…li perdoni…Sono stati i più piccoli…”
Avevo capito subito perché il gigante aveva fatto l’occhiolino al nonno, così chinai la testa incassandola tra le spalle.
Il nonno non fece uso della cinghia, non l’aveva mai fatto, comunque ci punì vietandoci di scendere nel giardino per due giorni!
“Io però …prima …devo andare a ringraziare Polifemo!” azzardai.
“Non esce nessuno!” sentenziò il nonno, poi chiese: “Perchè devi ringraziare Antonio?”
“Non posso dirlo. E’ un segreto!” gli risposi imbronciata.
Furono noiosi e lunghi quei due giorni, chiusa in casa, in quella vastissima casa!
Trascorrevo ore intere, passando da una stanza all’altra, a guardare da dietro i vetri, con la speranza di salutare almeno da lontano il gigante buono, ma lui non sollevava mai lo sguardo verso le finestre.
Per due volte, all’imbrunire, l’avevo visto, curvo e stanco, dirigersi verso la sua casetta.
“Chi gli fa da mangiare a Polifemo ? E se si ammala,chi lo guarda?” avevo chiesto al nonno prima di addormentarmi.
“E’ abituato ad arrangiarsi da solo!Dormi,dormi tranquilla!”
La mattina seguente mi svegliai quando i fratellini avevano già divorato la scodella del latte gonfia di biscotti. Io, invece, bevetti solo il latte.
“Perché non fai la zuppetta?” mi chiese la mamma.
“Non ho fame.” risposi indifferente, mentre lei, incuriosita, mi chiedeva perché stessi avvolgendo i biscotti col tovagliolo.
“Li mangio più tardi!”
Era giunto finalmente il giorno e il momento di andare a giocare in giardino, ma tra la colazione, la doccia e le treccine, quotidiana tortura, si era fatto tardi.
Saltellante di gioia, andai immediatamente a cercare il gigante, ma per quanto girassi per il giardino e lo chiamassi a gran voce, non riuscii a trovarlo da nessuna parte.
Mi rattristai al pensiero che fosse offeso e che non mi volesse più vedere. Incapace di valutare l’orario e ancora meno l’usanza degli uomini di fatica, non potevo sapere che Antonio era solito ritirarsi per il pranzo al rintocco delle campane che annunciavano le dodici.
Col fagottino di biscotti tra le mani, rimasi seduta su una larga pietra a guardare da lontano la sua casetta.
“Forse sarà dentro! Ma… come farà ad entrarci?” pensai e, spinta dalla curiosità, decisi d’andare a vedere. Dopo aver percorso il lungo filare di peri, raggiunsi l’ingresso.
L’intensa luce del sole rendeva ancora più buio l’interno di quella che un tempo era stata la casa del forno, ma a me sembrò l’antro di una vera caverna.
Strizzai forte gli occhi per vedere chi e che cosa ci fosse dentro. Dalla sommità di un vecchio barile arrugginito, il bagliore della brace illuminava la grande bocca di Antonio, mentre ingollava con un solo boccone un uovo dopo l’altro.
“Polifemo?Ci sei?” chiesi un poco impaurita, pensando ai poveri compagni di Ulisse.
“Che cosa vuoi, Lisetta?” domandò pulendosi la bocca col dorso della mano.
“Tieni! Questi sono i miei biscotti. Te li regalo perché hai detto le bugie al nonno.”
L’uomo non capì o forse fece finta di non capire.
Pronunciò un roco “hum”, come a dire grazie, e le divorò in un amen, tracannando il torbido vino da un rozzo boccale di terracotta.
Intanto giravo lo sguardo da una parte all’altra dell’oscuro e profondo ambiente. Tutto mi appariva strano: non c’era un vero letto ma, collocato su una tavola sostenuta da quattro pali, un grosso materasso da cui uscivano ispidi ciuffi di crine e, al posto del cuscino, una vecchia coperta arrotolata. Sotto il letto s’intravedevano una brocca di ferrosmalto sbocconcellata e un catino con dentro un grosso pezzo di sapone dal colore strano, grigio con venature verdi.
I tegami e le casseruole, incrostati di nerofumo, erano appesi al muro. Non esisteva neanche il guardaroba perché dai robusti chiodi pendevano giacche e logori pantaloni. Dopo aver osservato tutto con attenzione,chiesi: “Ma…non ce l’hai il gabinetto?”
Infastidito dall'eccessiva curiosità:
“E’ fuori!” rispose con un tono tanto brusco da costringere due galline, rintanate in un angolo del gigantesco forno, a scappar via spargendo polvere e piume dappertutto. D’istinto mi coprii il volto con le mani, poi, lentamente, allargai le dita e vidi nell’angolo abbandonato due grossa uova.“Polifemo, perché le metti là le uova?
“Non le ho messe io. Le hanno appena fatte le galline!” precisò con tono ruvido.
Prese le due uova e le avvolse con carta straccia.
“Tieni! Sono ancora calde… vai e portatele a casa…e non romperle!”
Felice di quel regalo, lo ringraziai e andai subito via, lasciandolo sulla soglia di quel misero ambiente.
“Torno anche domani…” gli gridai da lontano.
“Polifemo è davvero un gigante buono. Ma perchè vive là, in quella stanza tutta buia e senza neanche il gabinetto?” chiesi subito al nonno che, dopo avermi cercato in lungo e in largo per il giardino, mi era venuto incontro certo che fossi andata a disturbare il laborioso Antonio proprio nell’ora del suo riposo.“Si, è davvero un uomo buono, senza genitori, senza parenti. E’ un poveretto che non sa neanche dove sia nato. Tanti anni fa, scalzo e affamato, ha bussato alla nostra porta per chiedere un tozzo di pane. Da quel giorno vive là nella casa dove un tempo si faceva il pane, si riponevano gli attrezzi da lavoro e si conservavano per l’inverno, appesi alle travi del soffitto, le pere, i meloni, i pomodori e i grappoli d’uva. Si occupa dell’orto, del giardino e si accontenta di quel poco che hai visto, ma è felice di non dover più girare per le strade dei paesi a chiedere l’elemosina”.
Rimasi per un poco a bocca aperta e, incredula, pensai che il nonno si fosse inventato quel racconto. Da quel giorno mi recai spesso a trovare il gigante, portandogli sempre qualcosa che potesse essergli utile.
Il misero rifugio di Antonio in poco tempo si era arricchito di un piccolo specchio da appendere al muro, di una scodella di ferrosmaltato con la figura di un gattino, di due piattini da frutta scompagnati, di un porta-uovo di legno, di un cucchiaio e tre cucchiaini di ottone, ultimi rimasti di un vecchio servizio,di quattro tovaglioli anch’essi scompagnati e di un pezzo di saponetta profumata.
Lui accoglieva tutte le cianfrusaglie senza ringraziare, ma contraccambiava sempre con le uova fresche delle sue galline.
Durarono quasi due stagioni le mie visite al gigante nell’ora del suo ritiro dal lavoro. Quasi tutti i giorni riuscivo a prendere di nascosto dalla credenza della cucina un po’ di riso, di zucchero, di ceci, di lenticchie, ne facevo dei pacchetti con la carta di giornale e glieli portavo. Una volta sola il gigante mi aveva sorriso e quel giorno mi accorsi che, come a me, anche a lui mancavano i denti davanti!
L’inverno arrivò prematuramente e fu tanto rigido da seppellire per qualche mese tutto il giardino di una compatta neve. Con le mani ripulivo i vetri appannati per poter vedere almeno da lontano la casetta di Polifemo.
Col tetto tutto imbiancato non mi sembrava più la casa dell’orco, ma la capanna di Gesù Bambino, quella che tutti gli anni il nonno, quando preparava il Presepe, ricopriva di abbondante farina.
Quell’inverno nessuno aveva portato giù dalla soffitta la grande scatola che conteneva le pecorelle, i pastori, il bue, l’asinello, la Madonna, san Giuseppe e la capanna.
Il nonno si era aggravato e tutti erano silenziosi e tristi.
Anche io lo ero e la sera pregavo inginocchiata di fronte al quadro col Cuore di Gesù perché facesse guarire il nonno, come mi aveva raccomandato la mamma, e pregavo anche perché il gigante non morisse pure lui, di freddo.
Ogni sera mi addormentavo senza più le favole, senza più i racconti che il nonno s’inventava quando, seduto accanto al mio letto, finiva per addormentarsi lui prima di me.
“Il nonno non c’è più!” mi avevano detto una tarda mattina mentre giocavo con i fratellini su un gigantesco mucchio di mandorle in un angolo di una stanza appositamente adibita a dispensa.
Non piansi.
Non era facile per me, allora, capire che la morte separa irrimediabilmente i vivi da chi non c’è più!
Per tutto il giorno con una strana sensazione, forse di vuoto, mai provata prima, continuai a separare i miei mucchietti di mandorle chiedendomi il motivo per cui non mi facessero entrare in quella stanza dove entrava tanta gente.
La sera, prima di andare a letto, chiesi alla mamma la sciarpa a righe bianche e grigie del nonno. L’arrotolai intorno al collo e mi addormentai subito, stordita dal profumo del nonno che per me sapeva un po’ di fiori di fave.
La mattina successiva fui sorpresa di vedere Polifemo dentro casa.
Stava immobile e dritto, come un grosso palo, accanto alla porta della camera dove ai piccoli avevano impedito di entrare.
Gli andai subito incontro e lui, istintivamente, per la prima volta, mi sollevò da terra.
“Il nonno non c’è più!” gli dissi, accoccolandomi tra le sue braccia.
Lui non rispose, ma io avevo visto le sue grosse mani incallite
attraversare le rugose e incavate guance per asciugarsi le lacrime
di un pianto silenzioso.

Col blando sole di primavera tutto ricominciò prepotentemente a rifiorire in quel bellissimo giardino. Ricordo che in uno di quei giorni un grosso camion sostava da ore di fronte alla nostra palazzina.
Il camionista, aiutato da Polifemo, aveva finito di legare saldamente con robuste funi le reti metalliche, i materassi, un’antica credenza dell’ottocento, un salottino di velluto rosso, le sedie, gli specchi coperti da trapunte ed i grossi bauli contenenti tutta la biancheria, le pentole e i piatti.
Sapevo che stavamo traslocando per andare a vivere in città e ne soffrivo in silenzio.
Salii per ultima sulla stretta cabina del camion dove già sedevano, addossati l’uno all’altro, la mamma e i fratellini.
“Lisetta, perché sei ancora giù? Sali immediatamente!”
sentii urlare dalla mamma mentre seguivo da una fessura del muro di recinzione il passo pesante del gigante che, dopo aver salutato tutti sollevando il suo robusto braccio, a testa bassa si dirigeva verso la casa del forno.
“Perché non è venuto anche Polifemo con noi?”
“Non ci sarebbe stato!” rispose sbrigativamente la mamma.
“... e allora perché non è partito col babbo in treno?” domandai.
“Lisa, sei sempre quella che t’impicci nelle cose che non ti riguardano!” fu la risposta.
Da allora imparai a fare meno domande.
Non vidi e non chiesi più del gigante buono, ma il tempo non riuscì a cancellare la sua immagine che associavo sempre a quella del nonno che mi aveva sempre coccolata e protetta, che aveva permesso solo a me di scompigliargli i radi capelli e di fargli le treccine, come alle bambole.
Un giorno, ormai adulta, per la ricorrenza della festa dei morti accompagnai mia madre al cimitero del paese per deporre i fiori sulla tomba dei nonni.
Con un vecchio secchio mi recai a prendere l’acqua alla fontanella per riempire le fioriere. Distrattamente inciampai su un mucchietto di terra su cui giaceva una modesta croce di legno.
Notai subito che da uno dei bracci pendeva una sottile lamina di alluminio sulla quale erano incisi rozzamente, forse con un chiodo, un nome e una semplice lettera: Antonio B.
Assalita da una improvvisa intuizione,raggiunsi di corsa mia madre e le chiesi: “Mamma, ricordi il cognome dell’uomo di fatica del nonno?”
“Figlia mia, sono passati tanti anni…Non so…forse…Bellinzas?”
Io ne ero certa. Lo sentivo.
Sollevai delicatamente la rozza croce e la infilzai nella nuda terra, poi presi tre garofani rossi dalla tomba dei nonni e li offrii,commossa,al “gigante del mio giardino”.

 

COSTANTINO LONGU FRANCESCHINO SATTA POESIAS SARDAS CONTOS POESIE IN LINGUA ITALIANA