La banda Passòt
di Francesco Pasella

 

 

I. Il capanno sul mare

Non era ancora inverno. Un autunno mite alimentava desideri che il freddo avrebbe mandato a dormire per lunghi, dolci, interminabili giorni. Herman Calvìs camminava lento nella baia di Indoormar, nel versante nordico delle Ardegnas, pervaso dalla calma placida di un mare senza stagioni. Il suo infedele cane, Segugios, uno splendido meticcio dal manto chiaro, lo anticipava di cento passi, insofferente a ogni catena o richiamo. Herman, percorse come al solito lo stesso tratto di scogliera. Arrivato nella piccola Cala Serrada, si sedette sullo stesso tronco di sempre; il salmastro aveva levigato sapientemente quel legno resistentissimo. Herman Calvìs era lì, seduto sul suo trono a osservare il suo regno. Il suo cane, Segugios, abbaiava in lontananza. Herman provò a richiamarlo a sé, ma il cane non ne voleva sapere di rientrare. Allora Herman si alzò, e con passo pesante attraverso l’intera baita per correre incontro al suo infedele amico. Segugios, si trovava di fonte a un capanno abbandonato. Ringhiava, contro quelli che Herman credeva dei fantasmi e con fare frenetico girava attorno al capanno. La porta era semichiusa. D’un tratto, dalla piccola fessura spuntò un minuscolo cane nero, di una razza imprecisata. Segugios si lanciò all’inseguimento, sotto il sorriso sornione di Herman che osservava il piccolo cane seminare il suo infedele amico. Sapeva anche, che Segugios non gli avrebbe fatto alcun male: gli piaceva affermare la propria supremazia ma non amava le lotte impari. Herman decise di entrare nel capanno, spinto da una curiosità molto insolita, per uno del suo stampo. All’interno della piccola baracca in legno non c’era nessuno. Nell’angolo più lontano, un piccolo tavolo consunto dal tempo faceva da brutta cornice alla desolazione di quell’abbandono. Al centro della stanza, si vedevano i resti di quello che doveva essere stato un piccolo fuocherello. Accanto ai resti del fuoco, una sedia sgangherata faceva brutta di mostra di sé. Herman scrutò quella desolazione per un attimo. Poi decise di uscire. Mentre stava per andarsene, richiamato anche dal lontano guaire di Segugios, scorse dietro la porta del capanno un piccolo libretto, conficcato in un’intercapedine tra le assi di legno della baracca. Esito un po’. Non amava toccare cose che non gli appartenevano. Poi, risoluto, prese il piccolo libretto. Tornò indietro, al centro del capanno, e si sedette sulla sedia sgangherata, che dopo qualche scricchiolio mostrò ancora di poter assolvere alla sua funzione. Herman rigirò tra le sue mani il misterioso oggetto. Sembrava una piccola agenda tascabile. La copertina era nera con delle piccole lettere appuntate, di colore grigiastro: ???. Quelle lettere sconosciute, risuonarono sinistre nella mente di Herman, che finalmente si decise ad aprire il libretto .

II

Contro ogni aspettativa, viste le strane iniziali cifrate che comparivano in copertina, Herman vide la prima pagina del libretto piena di appunti scritti nella sua lingua: l’indomontano delle Ardegnas, un idioma parlato solo nella sua terra di derivazione rocos–gulodorese. In cima alla pagina, appariva uno strano rombo, senza nessun’altra parola. La scrittura in basso, era minuta ma comprensibile. Herman cominciò a leggere quel misterioso ma decifrabile corsivo.

P. era lì, con la sua solita arroganza, capo indiscusso del nostro drappello. Questa volta era facile. Un gioco semplice. Facile…facile. Sapevamo tutto. Nei giorni precedenti avevamo studiato ogni dettaglio. Controllato ogni mossa. Il fine settimana. Non c’era mai nessuno. Volavano. Ogni fine settimana. Arrivammo a notte fonda. G. era con noi. Si era da poco riunito al gruppo. Aveva a sue spese capito che era P., il capo indiscusso. Quel maledetto arrogante di P. aveva riaffermato il suo potere, giorno dopo giorno, su noi due. Però, bisogna ammetterlo, ci sapeva fare. Era un duro che sapeva usare la testa.
Tutto buio intorno. Nessun rumore. G. scavalcò per primo, con la sua solita agilità. Fece un segno con la mano. Entrammo anche noi, nel piccolo giardino. Due isolati più in là vidi delle luci. Mi fermai per un attimo a osservare. Ero solo il bagliore dei fari di qualche auto di passaggio. Rimasi in ascolto, ai bordi del giardino.
P. era già dentro. G., gli aveva aperto la strada con la sua solita punta tagliente. Nessuna rottura.
Si trattennero circa una mezz’ora all’interno. Uscirono trafelati, con due pesanti sacchi. Argento e oro. Niente rame. Roba da poveri, quella. Balzai sul muro e li attesi qualche breve secondo. Mi passarono il primo sacco che feci con cautela scivolare dall’altra parte del muro, sulla strada. Allo stesso modo, feci con il secondo. Eravamo già in strada, agili come tre ombre. Dissolti nella campagna attorno. Raggiungemmo la strada laterale. G. si mise alla guida, dopo aver nascosto nel baule dell’auto i due sacchi. Mise in moto. Il vibrare del motore della potente auto ruppe il silenzio. Viaggiammo per circa mezz’ora, prima di immetterci in una strada provinciale, che correva lungo l’autostrada Infelices, nel ponente di Caralis. Quando vedemmo, dopo poco tempo, l’insegna di un albergo con la scritta lampeggiante “Note de Or”, fummo tentati dal passarci la notte. Troppo rischioso, ci dicemmo. Dandoci il turno alla guida, passammo tutta la notte a viaggiare. La provinciale era deserta, una meravigliosa sinfonia per il nostro colpo. Arrivammo a Caralis all’alba. Alla sella del Diablo, ci aspettava R., un frillo che sapeva, per fortuna, almeno tenere la bocca chiusa. Senza dire una parola, gli passammo i due sacchi. Sapeva cosa fare. P. tolse la tanica dal baule dell’auto. Sembrava, che questa fosse la cosa che più gli piaceva della faccenda. Danzò attorno all’auto, bagnando ogni angolo con una dovizia maniacale. Ci allontanammo. G. prese la solita bottiglia incendiaria. Quando fummo abbastanza distanti la lanciò con precisione sull’auto. Il bagliore fu intenso, così come il boato. Intorno il silenzio. La città sembrava ancora sonnolenta e distante. I due incendiari sapevano, che non amavo quegli atti di distruzione. Questo, mi aveva sempre distinto da loro. Avrei preferito un lavoro di precisione. Sezionare tutto e raggranellare qualcosa con la vendita. Ma questo, era il loro gioco. Questa, era la banda P. Non si poteva sfuggire. Ci dirigemmo verso la marina. Ognuno prese la sua strada. Ci aspettavano tre vite diverse dopo il buio della notte.

III


Herman si riprese dal brutto sogno del racconto appena letto. Mille figure immaginarie gli ronzavano nella mente. Sentì Segugios entrare nel capanno. Si avvicinò a lui, mordendogli l’orlo dei pantaloni. Faceva così, quando voleva rientrare a casa o voleva mangiare. Herman si alzò. Mise il libretto nella tasca del giaccone e uscì dal capanno. Segugios era avanti a lui di cento passi, come al solito. Quel cane era una saetta. Un’anarchica saetta, indomabile e testarda. Herman accelerò il passo. Dopo una mezz’ora era già in casa. Diede a Segugios i soliti bocconcini di carne, che il cane divorò in pochi secondi, con una voracità da consumato orso. Herman Calvìs, si riscaldò una pizza nel forno a gas. Quella sera, non aveva voglia di cucinare. Appena smise la frugale cena entrò nel piccolo studio, attiguo alla sala, vicino alla camera di letto. Con fare lento, appoggiò il libretto trovato nel capanno sul pesante tavolo in noce, chiedendosi continuamente se quello che aveva letto potesse essere vero.

G. l’aveva incontrata la sera precedente. L’incontro era apparso casuale. Lui, del sud. Al centro dell’isola. Aveva sfoggiato il suo solito repertorio. Parole e moine. Chissà come ci riusciva. Ottimo attore. Giocava con una vigliaccheria disarmante coi sentimenti delle donne. Lei, era impegnata. G. le aveva offerto un drink, iniziando un serrato ma gentile approccio. Lei resisteva…resisteva… Alla fine della serata avevano fatto una lunga passeggiata, lungo il viale alberato di Aramaz. Si erano lasciati con un leggero bacio. G. aveva fatto il romantico. L’indomani, si sarebbero dovuti incontrare nello stesso bar. La buona riuscita, dipendeva tutta da quella promessa. Ci incontrammo, tutti e tre, nel caravan prestatoci da J.L., un immigrato francese che amava viaggiare, e racimolare qualche soldo affittando la sua casa viaggiante. La notte era lunga. Dormimmo a turno. Giocavamo anche a carte, nei turni di veglia, sempre con un occhio all’abitazione.
L’indomani, ci svegliammo di buona lena. G. si lustrò da cima a fondo. Si rasò con cura la barba. Forse, mi dissi, aveva sbagliato mestiere. Spiegò l’abito di taglio sartoriale, che gli sarebbe dovuto servire per la sera. Poi uscì dal caravan, rimanendo a fissare i lembi della foresta, concentrato su non so cosa, senza dire una parola sino all’ora del pranzo. P. e io rimanemmo dentro il caravan. Sempre meglio non dare nell’occhio.
Mangiammo una deliziosa pasta alla carbonara, la mia specialità. Innaffiammo il tutto con un vino pastoso, della vigna del nonno di P. P diceva sempre, che finita la carriera si sarebbe ritirato a coltivare quella vigna, vivendo con la sua compagna, la splendida messicana che aveva incontrato qualche tempo prima, nella casa a ridosso della terrazza sul mare. Quella vigna, infatti, sorgeva su un terrazzamento a ridosso della costa sud orientale delle Ardegnas, su un mare spesso battuto dal vento. Dal piccolo terrazzamento, con molta cautela, si poteva arrivare attraverso la lancinante scogliera a un minuscolo lembo di spiaggia. Un paradiso sottratto al progresso. Dopo aver pranzato bevemmo un caffè. Il tempo sembrava immobile.
Verso le sedici, vedemmo rientrare la donna nell’appartamento. Certo... era un gran bella donna. Giuste curve. Giuste proporzioni. Dopo poco tempo, vedemmo un uomo entrare da lei. Il piano era sfumato, ci dicemmo. Aspettammo ancora un’ora. Niente. Lui era sempre dentro. Ancora poco e saremmo andati via. A sorpresa, l’uomo uscì poco dopo. Sembrava amareggiato. Lei lo aveva salutato con freddezza sulla soglia della porta, staccandosi con indifferenza dal suo abbraccio. G. ci guardò compiaciuto. Era profondamente detestabile in quei momenti, così sicuro di sé. L’ora dell’appuntamento si avvicinava. Le prime ombre della sera invernale, pure.
G. cominciò a vestirsi, con una cura maniacale spiegò ogni lembo dell’ambito. Era quasi pronto. Dopo una mezz’ora vedemmo la donna uscire da casa: sotto un cappotto alla moda si intravedeva un abito succinto e calze autoreggenti. Personalmente, invidiavo G. mortalmente. P., invece, sembrava indifferente a tutto: forse, pensava solo alla sua messicana. Dopo un quarto d’ora dall’uscita della donna G. si decise ad andare all'appuntamento, salutandoci con un leggero e malizioso sorriso.
Arrivò mezzanotte. P. e io, uscimmo dal caravan. Intorno solo buio, e silenzio. Bene. Arrivammo difronte all’abitazione. Come al solito, rimasi di guardia. Passo una macchina. Mi girai con fare indifferente e presi a camminare. Tutto a posto. Era filata via. Vidi P. armeggiare: meno di cinque minuti ed era dentro. Mezz’ora d’attesa. P. uscì. Con una calma inaudita e il volto impassibile. Mi raggiunse con un sacco stracolmo. Raggiungemmo il caravan , nascondendo il sacco in un vano della cucina. Un’ora era passata. Ci muovemmo. Arrivammo nell’albergo “ Noirnoir”, dove G. era in buona compagnia. Quel maledetto. La parte migliore, più importante e delicata del lavoro, spettava sempre a lui. Nelle sue mani… Attendemmo lì. Fuori.. sino alle prime luci dell’alba. Finalmente uscì. Rilassato e felice. Quel maledetto. Salutò la donna con un bacio appassionato e attese che lei entrasse in auto. Subito dopo, con passo veloce ci raggiunse. Filammo via veloci, verso il sud. Nel pomeriggio, dovevamo ridare il caravan a J.l, l’immigrato francese, che avrebbe riverniciato la sua casa ambulante e intascato un po’ del bottino. Anche quella volta, era andata.


IV

Herman cominciava a sentirsi combattuto. Avrebbe dovuto portare quel libretto alla polizia? Si interrogò per ore, pensando alla cosa giusta di fare. Se fossero state storie inventate? Alla fine, si disse che prima avrebbe dovuto leggere per intero il libretto. Poi, avrebbe deciso sul da farsi. Cercò di fare memoria di qualche colpo letto sui giornali locali. Qualcuno coincideva coi suoi ricordi? Proprio non ricordava. Se avesse portato quel libretto in commissariato avrebbe avuto molti fastidi. Molte domande. Perdite di tempo. Spedirlo anonimamente? Troppo da vigliacco. Tutto o niente. Era questo, il suo motto.

Il borgo di Castèlo de Ardegnas era abbarbicato su un pendio di tufo. Il salmastro sgretolava sapientemente quel materiale estremamente friabile, donando alle abitazione del borgo un aspetto romantico e decadente. L’abitazione di R.P, potente uomo d’affari, capitano di una flotta di pescherecci e valente pittore del luogo si stagliava in uno splendido palazzo medioevale, dall’aspetto nobile e sobrio. P. , che aveva un amico che lavorava all’ufficio catastale provinciale, era riuscito a recuperare la mappa del palazzo gentilizio. Nella cantina dell’abitazione, a ridosso del mare, vi era un accesso. Da quest’accesso, si poteva, attraverso una ripida scala interna entrare nella dimora. Facemmo tutto in grande stile. Arrivammo in una calda sera di settembre. Direttamente dal mare. Partimmo dal porticciolo di cala Arrainas, dopo aver trasportato il nostro cinque metri con un potente fuoristrada (un gippone della seconda guerra mondiale con un motore d’incanto), nella cala deserta. Non eravamo esperti marinai ma la fortuna era dalla nostra. G. aveva studiato scrupolosamente le carte nautiche, con dovizia da montanaro. Millantava abilità marinare, perché circa una decina d’anni prima del colpo, aveva seguito due o tre lezioni per conseguire la patente nautica, ritirandosi appena aveva visto che c’erano numerosi calcoli da fare e un istruttore invece d’un istruttrice.
Arrivammo nelle acque di Castèlo delle Ardegnas a notte inoltrata, facendoci luce con una piccola torcia elettrica ed evitando miracolosamente gli spuntoni di scoglio affioranti. A pochi metri dalla scogliera gettammo l’ancora. Come al solito, rimasi a bordo. In attesa. Avevo un richiamo per anatre, che sarebbe servito ad avvisare P. e G. se avessi visto movimenti sospetti ( a parte i nostri, naturalmente).
Vidi P. e G scalare velocemente la scogliera. G. ebbe solo un attimo di esitazione, in cui perse leggermente l’equilibrio. Subito dopo, ripresosi, seguiva come una lepre P. Li avevo ormai persi dalla mia vista. Presi il cannocchiale a raggi infrarossi, che avevo acquistato per corrispondenza qualche mese prima e li osservai nell’ultima parte del tragitto. Erano già difronte alla parte della cantina quando vidi un’ombra salire verso la porta dell’abitazione, nel versante laterale del palazzo. Presi immediatamente il richiamo per anatre e fischiai una, due volte. P. e G. si bloccarono immediatamente. Rimasero immobili. Le luci del palazzo accesero. Rimasi in osservazione per alcuni minuti. Poi le luci si spensero. Vidi la stessa ombra uscire dal palazzo e incamminarsi verso la piazza sulla scogliera. Era andato via. Ripresi il richiamo per anatre e fischiai tre volte, come d’accordo. Vidi P. e G. armeggiare nel portoncino della cantina. Due minuti ed erano dentro. Attesi, scrutando col binocolo ogni movimento sospetto. Tutto tranquillo. Dopo circa un’ora di paziente attesa, in cui osservavo ogni piccolo dettaglio intorno al palazzo li vidi uscire dallo stesso portoncino della cantina. G. era davanti. Scese per primo la scogliera con un sacco a tracolla, questa volta senza tentennamenti. P. lo seguiva, con passo sicuro, anche lui con un sacco a tracolla. Arrivarono in breve tempo al motoscafo. Accesi il motore, che sibilava fastidiosamente nella notte. Per fortuna, la musica di un locale poco distante copriva il rumore del fuoribordo. Gli aiutai a caricare i sacchi. La notte era serena. Il mare calmo e placido. Uscimmo dalla rada di Castèlo de Ardegnas in poco tempo, e orientandoci con la torcia e le luci dei paesi costieri ci allontanammo di qualche miglio dalla costa. Se ci avessero visto, ci avrebbero scambiato sicuramente per dei pescatori. Per non destare troppi sospetti, in caso di qualche controllo della “Guardia del Mar”, ci eravamo muniti di qualche lenza e totanara. Filammo lisci, senza scossoni, sino a Cala Arrainas. Sbarcammo senza problemi, nella solitudine della spiaggia settembrina. Caricammo , con non poco sforzo, lo scafo sul carrello. Mettemmo in moto il fuoristrada e ci avviammo verso la casa di un amico, che distava pochi Chilometri. Dormimmo da lui quella notte, lasciandogli in custodia l’imbarcazione per qualche tempo. L’indomani facemmo colazione in un bar dell’ Ile Ras. Era domenica. Con fare da turisti, visitammo le spiagge di quella zona. Pranzammo in un ristorante di Lus Bagnos. Nel pomeriggio, arrivammo ad Arassis. Da lì, pagammo pedaggio di buche nell’autostrada Infelices e ci dirigemmo verso Caralis. Dopo qualche ora e una sosta al Monastero di Orres, finalmente arrivammo in città. Anche quella volta, era andata.

V.


Era ormai notte fonda. Herman Calvìs accese il computer, con la speranza di trovare utili informazioni sulla presunta banda del libretto. Andò nei portali dei maggiori quotidiani locali, ma sembro non trovare niente di simile, niente che potesse accostarsi ai colpi descritti nel libretto. Stava per mettersi il cuore in pace, quando, prima di disconnettersi, digitò sul motore di ricerca le parole: la banda P… Parola…Passanti…Paride Belli musicista…Passò…Passòt gli inafferrabili. La banda Passòt gli inafferrabili: forse, era questa la chiave di ricerca. Lesse la prima voce selezionata dal nuovo motore di ricerca Ardos. Si narrava la vicenda di una banda del sud delle Ardegnas, il cui unico componente individuato era il presunto capo Passòt, di origine Orsac. Si pensava che gli altri due membri del gruppo fossero di origine ardas e che ci fosse anche una donna nel piccolo drappello di ladri. Forse, Herman aveva trovato il tassello giusto; anche se una sigla su un libretto non provava ancora nulla di sicuro. Dopo aver dormito per qualche ora, si alzò, si sbarbò, diede da mangiare a Segugios e dato che per lui era una giornata feriale decise di continuare a leggere il libretto. La sua fidanzata, Laisa Dosnantos, di origine sudamericana, provò a convincerlo a uscire ma lui gli disse che stava malissimo e non poteva. L’avrebbe chiamata in serata. Lei insistette per andarlo a trovare ma Herman fu irremovibile. Si doveva riprendere da solo, le disse, dal fasullo malanno. Herman Calvìs era così. Prendere o lasciare. Difatti, per lunghi periodi, era o lo facevano ridiventare “solo”.

Le sorelle Dovizia viveno sole, in un piccolo paese montano del nord delle Ardegnas. Nessuna delle tre sorelle era sposata. Si diceva, che avessero accumulato in casa una piccola fortuna. Un gancio del paese, Juanne los Rocos, ci aveva informato la sera prima. Tutte le sere, a metà pomeriggio, uscivano per andare a recitare il rosario. Era quello, l’unico momento in cui la casa era disponibile. La fidanzata di Juanne, Marchesa dos Colpos, faceva la domestica in casa delle sorelle Dovizia, e aveva notato che le tre donne tenevano sempre chiusa a chiave la porta di una dispensa, senza farvi mai entrare nessuno, o entrarci in presenza di Marchesa. Giungemmo in paese a tarda notte, a bordo di un’anonima utilitaria prestataci dal fratello di P. Guidai io, per tutto il tragitto. G. non stava troppo bene: aveva un forte dolore allo stomaco e conati ripetuti di vomito. Gli proponemmo di rimandare il colpo aspettando la sua ripresa, o facendo il tutto da soli ma non ne volle sapere: a tutti i costi, volle venire. In nome, della testardaggine delle Ardegnas, disse, e alla faccia delle sorelle Dovizia. Impertinente, avrebbero sicuramente detto le donne, se solo lo avessero sentito. Pernottammo in un agriturismo del cugino di Juanne, semideserto, a poca distanza dal paese. Il cugino del gancio era un tipo tarchiato, barbuto, dai modi rudi ma allo stesso tempo gentile. Dopo pochi convenevoli ci ritirammo nelle nostre stanze. Dormii sodo, tutta la notte. Il silenzio della campagna attorno, quello stato di dolce quiete, mi avevano terribilmente rilassato. P. e G. , di buon mattino, bussarono alla porta della mia stanza con molta energia. Appena mi destai rispondendo al loro frastuono, mi dissero che scendevano a fare colazione, e che mi avrebbero aspettato di sotto. Gli dissi che andava bene e dormii ancora un po’. Mi alzai di malavoglia. Mi feci una doccia veloce e mi vestii lentamente. Appena scesi al piano di sotto, nel salone deserto dell’agriturismo vidi il cugino di Juanne, che mi salutò divertito. La colazione arriva subito, i tuoi amici ti stanno aspettando da un pezzo, mi disse. Chissà, poi, cosa c’era di tanto divertente. Mi ero sbagliato sul suo conto: era un perfetto cretino. Raggiunsi il tavolo, che dava sulla montagna Orrasci, e ammirai lo splendore di quel mattino rupestre, in cui sfumature tenui di blu tendevano la mano a un viola indescrivibile. Provenivo da un borgo di montagna, e il richiamo delle origini fu forte in quell’istante. P. aveva già (giustamente) iniziato a mangiare miele amaro locale con pane appena sfornato del luogo: aveva una passione per quel miele rupestre. G., pareva essersi ripreso dal malore del giorno precedente, e beveva, assorto nei suoi dubbi, un caffè nero bollente. Anch’io mi versai del caffè nella tazzina e continuai a osservare la montagna. P. ruppe il silenzio, dicendo che saremmo andati in paese a fare una perlustrazione. Dopo un quarto d’ora eravamo in paese. Un paese ben curato, di pietra austera. Passammo lungo le vie centrali del luogo osservando ogni volto. Dopo un po’ arrivarono anche dei “secondini in libertà”, ma non ci dissero niente, ed entrarono tranquilli in un bar poco più avanti. Proseguimmo sino alla casa delle sorelle Dovizia. Il portone era in legno. Nessuna blindatura. Non sembrava un gioco difficile. A sinistra della casa, vedemmo la strada sterrata indicataci da Juanne, che portava fuori dal paese. Ci trattenemmo ancora un po’ difronte alla casa. Delle sorelle Dovizia neppure l’ombra. Solo una finestra dell’abitazione era aperta. Per il resto, niente. Ce ne andammo. Riprendemmo l’auto che avevamo lasciato all’ingresso del paese, risalimmo fino alla casa delle sorelle con l’idea di percorrere lo sterrato d’uscita, quella che sarebbe dovuta essere la via di fuga. In quel momento, proprio in quel maledetto momento, si incanalò nello sterrato un trattore. Desistemmo. Avremmo percorso quella polverosa strada improvvisando il percorso. L’audacia del colpo, era la musica soffusa, della nostra passione criminale. Dopo aver vagato per un po’ in macchina, e aver fatto rifornimento in un distributore a qualche chilometro dal paese facemmo rientro in agriturismo. Era quasi l’ora di pranzo. Trovammo ad aspettarci Juanne, insieme al cugino idiota e sorridente, proprietario dell'agriturismo. Juanne, che non vedevamo da qualche anno, non era affatto cambiato. Ci salutò con fare cortese chiedendoci, con fare criptato, se tutto stava filando nel verso giusto. Lo invitammo a pranzare con noi ma disse che stava aspettando la fidanzata, Marchesa dos colpos (di famiglia nobile decaduta), che si era ridotta a fare la domestica dalle sorella Dovizia, e che dovevano andare a pranzo da alcuni amici di Riastanis. P., il capo della banda P. gli disse che c’era un regalo per lui e che lo avremmo lasciato, al momento di pagare il conto dell’agriturismo, al cugino, che nel frattempo ci aveva imbandito la tavola. Nel frattempo arrivò Marchesa dos colpos, la fidanzata di Juanne, una bella ragazza mora e formosa. A G. brillarono gli occhi. Juanne, forse memore delle numerose conquiste amorose di G. ce la presentò con modi affrettati salutandoci subito dopo. Ci sedemmo a tavola a gustare le pietanze di terre preparateci dal cugino di Juanne, di cui non conoscevamo neanche il nome. Cercammo, per quanto possibile, di mantenerci leggeri, gustando le pietanze di carne a dosi consentite, dall’agilità che sarebbe servita al colpo. Dopo il pranzo, G. e P. si concessero un digestivo alcolico alle erbe della montagna e io un forte caffè bollente. Subito dopo, uscimmo a fare due passi di fronte all’agriturismo. La temperatura era mite. Nel terreno confinante con l’agriturismo, una mandria di bovini bianchi e pezzati pascolavano serenamente, coi loro campanacci alpestri appesi al collo placido e taurino. Sarebbe stato bello, rimanere per qualche settimana lì, a riposarsi in quell’angolo di pace della montagna passeggiando nei numerosi sentieri che si intravedevano come tanti rigoli ai piedi della catena, solo in cima leggermente innevata. Alcuni cartelli in legno, maldisposti e buttati giù dalle intemperie del vento, indicavano un villaggio antico, dal nome Iscalis. Erano ormai le sedici. Tra una mezz’ora saremmo arrivati in paese e dovevo assolutamente smetterla con tutte queste romantiche fantasticherie. P. rientrò in agriturismo, con noi al seguito. Il cugino di Juanne era seduto su un piccolo divano attiguo alla cassa, difronte al caminetto acceso e stava sonnecchiando. Appena ci vide si alzò. P. si avvicinò alla cassa e gli disse che voleva saldare il conto. Il cugino di Juanne gli disse la cifra. P. pagò la cifra richiesta, dandogli da parte una busta per il cugino, raccomandandosi di dargliela personalmente, e con freddezza gli disse che eravamo stati bene. Il cugino di Juanne, ci fece gli auguri per il convegno sulle lingue romanze che dovevamo tenere a Aristanis: evidentemente, Juanne gli aveva detto che eravamo degli intellettuali in trasferta. Lo ringraziammo, trattenendo a stento le lacrime dal ridere. Uscimmo subito dopo. Mi misi subito alla guida dell’utilitaria e in poco tempo fummo in paese. Erano quasi le diciassette. Mentre risalivamo il paese vedemmo le sorelle dovizia scendere lungo strada, con ampie gonne, dirette a recitare il rosario. Sembrava filare tutto liscio. Arrivammo difronte alla casa. Nessuno in giro, nei paraggi. Posizionai la macchina, quasi ai bordi dello sterrato. G. e P. scesero subito dall’auto e con una disinvoltura sorprendente si diressero verso l’abitazione delle sorelle. In circa dieci minuti forzarono la porta. Entrarono con calma chiudendosi la porta alle spalle. Vidi una vecchina, dopo dieci minuti avvicinarsi all’abitazione e chiamare a gran voce “Amelia…Amelia…Amelia…”. Dopo cinque minuti, senza aver ottenuto naturalmente risposta, se ne andò con passo lento. Non si girò neppure a guardarmi per un attimo nell’auto. Dopo pochi minuti P. e G. uscirono, con aria delusa. Accesi il motore, pronto a correre lungo lo sterrato. P. mi disse di fare con calma e di percorrere lentamente la strada del paese. Non dissero nulla per mezz’ora. Non provai a chiedergli nulla, ma vi confesso di esser stato al momento molto preoccupato. G. sbottò all’improvvisò, dicendo che avevano rovistato la dispensa da cima a fondo e che non c’era nessun denaro e che nessun oggetto della casa era di valore. All’improvviso, disse che l’unico valore erano i prosciutti e i salami della dispensa. P. tolse dalla giacca un salame, dicendoci di averlo preso come ricompensa per il mancato colpo. Questa volta erano state le astute sorelle Dovizia, a gabbare noi. Succede.

VI

Il pomeriggio incombeva calmo nell’appartamento di Herman. L’uomo, disteso sul divano, trangugiava tramezzini comprati qualche tempo fa al supermercato e ogni tanto beveva un sorso di una strana birra irlandese. Il televisore, mandava in onda una delle solite trasmissioni sulle “vite altrui” da spettacolarizzare come merce interessantissima. Sul tavolino, Herman Calvìs scorse il solito piccolo libretto: per evitare di alzarsi dalla comoda posizione, si sporse per prenderlo e nel tentativo cadde goffamente a terra. Rialzatosi, ancora lievemente dolorante, rise di sé e tra sé sino a non riuscire più a contenersi. Subito dopo, ripresosi dalla parentesi acrobatica ridicola e fortunatamente indolore, incominciò la lettura di un’altra avventura della banda Passòt.

Ferragosto inoltrato. Notte umida e afosa quel sabato. Città deserta. Il palazzo era centrale, ma niente sembrava turbare quella calma inquieta. L. Gabbon ci aveva segnalato bene, nella sua poderosa bozza artistica, da buon “pittore” qual era, posizione e ponteggi. P. e G. vollero fare due giri di perlustrazione intorno allo stabile. Io li attendevo in auto: avevo messo su un paio di chili in quei mesi, e il gioco richiedeva agilità. Spensi in fari della polo verde e aspettai. P., quella sera era stranamente loquace, spese addirittura una lunga frase nel viaggio verso Zierrò, tranquilla cittadina montana della piana di Chivanì. Li vidi attraversare rapidi, il piccolo spiazzo antistante il palazzo. P. era completamente vestito di nero, con un cappellino calato sulla visiera, a coprire i tratti del volto. G. invece, quel pazzo donnaiolo impenitente, era vestito di lino bianco, manco dovesse andare a una serata mondana nella costa delle Ardegnas. Un pazzo fantasma d’agosto, con un zainetto nero a contorno della sua luce. Sentii un leggero rumore metallico. Sicuramente avevano recuperato la scala. Poi, sentii un leggero peso percorrere la notte, ad altitudini che ancora non vedevo. Attesi ancora quindici minuti. Poi vidi le sagome. Erano già arrivati al sesto piano. Si imbucarono nel terrazzino e sparirono. Tirai un sospiro di sollievo. Per poco. Un paio di minuti dopo passò una macchina della polizia dirigendosi verso di me. Il cuore mi balzò in gola. Si fermarono e raggiunsero la mia auto. Il più giovane, un tipo massiccio dall’aria tosta e sicura, mi invitò a uscire dall’auto. Ero in trappola, pensai. Scesi dalla polo verde, con la maggior calma possibile. Dietro, il poliziotto più anziano attendeva, con aria sopita ma attenta, l’evolversi della situazione, con il mitra spianato verso l’oscurità della notte. Ebbi un fremito di comprensibile soffusa paura, e di inevitabile resa alle coincidenze. Mentre il giovane mi chiedeva i documenti con piglio sicuro ed ero già rientrato in macchina a recuperali, il vecchio poliziotto mi venne in soccorso. Mi aveva scambiato per il nipote di un certo Zia Libèsti, proprietario terriero della zona, ricordandosi che passavo la vacanze estive nella piana di Chivanì, nella greviera de or. Ebbi un attimo di smarrimento. Poi, decisi di rischiare. Sì… risposi. Ora anch’io la riconosco. Come sta? Pensi, che non ho ancora avuto il tempo di andare a far visita a mio zio. È molto malato, disse il poliziotto, pensi che è dieci anni che non lo vedo più in città. Per fortuna, è ancora vivo, pensai tra me e me, ed esce poco per incontrare il poliziotto. Mentre stavo per porgere i documenti al giovane agente, questi mi disse di lasciar stare, che non vi era bisogno di mostrarglieli. Tirai un sospiro di sollievo e ringraziai. Il vecchio poliziotto mi disse di salutargli tanto mio zio appena lo vedevo e di chiamarsi Lorèsto Pagnotti. Per fortuna, non chiese il mio nome. Così, non dovetti neppure perdere tempo a inventarne uno falso. Dopo pochi minuti se ne andarono. Subito dopo, P. e G. si diressero verso l’auto in cui nel frattempo ero rientrato. Prima però, posero gli zaini nel sottovuoto del cofano. Appena seduti in auto risero di gusto ma sommessamente. Non sapevano, infatti, che avevo parenti notabili a Zierrò. Francamente, sino a quella sera, neanch’io sapevo di avere legami di sangue nella piana di Chivanì. Quegli improbabili parenti, e quella probabile somiglianza con quel nipote, mi avevano fortunatamente salvato. Sia benedetta la famiglia allargata, pensai. Accesi il silenzioso motore della polo e partii, mentre il sudore freddo della fronte scompariva nella bellezza dello scampato pericolo. Finalmente, ci inoltrammo sulla via del ritorno. La via della provvisoria salvezza. Almeno per quella notte. Occorreva battere il ferro finché la mente era calda: con l’afa di quell’estate, non sarebbe stato difficile approfittarne, anche in altre occasioni.

 

VII.


Era notte. Notte fonda. Herman Calvìs decise di uscire a fare una passeggiata. Segugios lo seguiva.
Stranamente, il suo infedele cane, quella notte non lo precedeva ma gli scodinzolava tra le gambe. Herman aveva l’aria stanca e afflitta. Teneva stretto, in pugno, il libretto trovato nel capanno, e girovagava, nel vuoto della sua coscienza. Dopo una mezz’ora si ritrovò di fronte al commissariato locale di polizia. Si fermò un paio di secondi sull’ingresso. Scrutò la luce al neon della sala d’attesa e vide un piantone di spalle che riordinava delle carte. Poi, un brusio di voci lo riportò sulla terra. D’istinto andò subito via. In lontananza, vide un nugolo di poliziotti entrare di corsa in un’auto parcheggiata poco distante. Staranno andando a sgominare la banda Passòt, pensò tra sé e sé, ridendo. Poi, proseguì verso il parco degli “abeti in fiore”, un tipo particolare di albero ad alto fusto che cresceva solo nelle zone indomontane delle Ardegnas e si sedette su una panchina, ancora calda dal solleone della giornata appena trascorsa. Aprì il libretto sulla banda Passòt deciso a immergersi nel buio delle gesta dell’inafferrabile banda di ladri. Segugios, invece, si addormentò beato ai suoi piedi.

Pomeriggio inoltrato. L’ingresso della villa era deserto. Un grosso bulldog sonnecchiava sotto un grande cedro. G., era stranamente, nervoso. Ci spiegò, che quand’era bambino un grosso cane meticcio l’aveva azzannato, e da quel giorno aveva fobia dei cani. Ci pregò, per quella volta, di farlo rimanere in auto. P. acconsentì alla richiesta. Stavo per seguirlo al posto di G., quando il capo P. mi fermò, dicendomi che se la sarebbe cavata da solo. Era, come al solito, freddo e sicuro di sé. La domestica della villa, una messicana amica della splendida fidanzata di P., prima di finire il turno alla villa, aveva lasciato una porta secondaria socchiusa fornendoci uno schizzo della casa, con la descrizione dei punti importanti… P., avrebbe comunque fatto finta di forzare la porta, per inscenare una forzatura. Il sistema d’allarme e le telecamere erano da un paio di giorni fuori uso, a causa di un malfunzionamento elettronico che ancora non era stato riparato. Rientrai in macchina e mi sedetti accanto a G. , che, chiuso in un insolito mutismo, non chiese spiegazioni.
Vedemmo P. saltare il muro. Subito dopo, costeggiò il grosso cedro dove il cane dormiva. Improvvisamente, vedemmo il Bulldog svegliarsi e inseguirlo. P. corse rapidissimo e svoltò nel retro della villa. Sperammo, che fosse riuscito a sfuggire al quadrupede. Decisi di uscire dall’auto. Seguii il muro perimetrale della villa sino al retro dell’abitazione. Vidi una piccola porticina chiusa e il bulldog fisso su quel minuscolo ingresso. Per P. sarebbe stato difficile uscire da dov’era entrato, e usare altre uscite l’avrebbe esposto ad altri rischi. Decisi, di attirare su di me l’attenzione del cane. Cominciai a lanciargli delle piccole pietre e a battere le mani. Niente da fare. Irremovibile, non si scosse di una zampata. Per ben dieci minuti, provai ogni genere di rumore per attirare su di me l’attenzione, ma non ci fu niente da fare. Dopo circa venti minuti, vidi P. affacciarsi alla vetrata, col solito zaino nero a tracolla. Eravamo nei guai. Niente ci avrebbe potuto salvare. Sentii, dall’altra parte della villa, il rombo di un’auto e il cigolio del cancello automatico aprirsi. La situazione precipitava. Sempre più giù. Negli inferi delle patrie galere, dove per fortuna non eravamo mai stati. Subito dopo, mentre P. era ancora affacciato alla vetrata scrutando il cane senza essersi accorto dell’arrivo dell’auto, un grosso gatto nero passò dietro al bulldog. Il cane, nonostante la mole pesante, si alzò di scatto e iniziò a seguirlo. Forse, eravamo salvi. P. Uscì di scatto. Per fortuna mi vide. Gli feci cenno di raggiungermi e scavalcare dove mi trovavo. In poco tempo mi raggiunse e scavalcò il muro con agilità da acrobata. Per non dare nell’occhio, ci incamminammo d’altra parte della strada. G., che nel frattempo aveva visto arrivare i proprietari, ci aveva seguito a vista. Ci raccolse subito dopo nell’auto e a forte velocità di diresse verso la statale Montanas direttissima. Lì, salimmo su un auto di scambio lasciando la nostra auto a un fidato collaboratore locale. Nascondemmo lo zaino in un vano interno dell’auto, creato per l’occasione e procedemmo nelle zone interne delle Ardegnas, nei pressi di Deluos, verso una tenuta in cui avremmo passato qualche giorno, come buoni amici dei proprietari. Lasciammo il bottino nell’auto e per un paio di giorni ci concedemmo una necessaria pausa lavorativa. Il terzo giorno partimmo alla volta di Caralis. Appena arrivammo incontrammo un amico commerciante, a cui consegnammo i preziosi in cambio di sonanti banconote. Dividemmo il tutto in parti uguali e tornammo ai nostri umori e malumori cittadini. Sino al prossimo…colpo di teatro.

VIII.

Herman Calvìs dormì profondamente, quella notte. D’un tratto, a mattino inoltrato, sentì la porta della sua camera da letto aprirsi. Rimase, per un interminabile attimo, sospeso e sfuocato tra la sua miopia e una terribile paura. Subito dopo, invece, si materializzò difronte a lui la fidanzata Laisa, di cui si era scordato per più di una settimana, da quando aveva trovato quel libretto in quel maledetto capanno. Laisa, era stranamente calma, e non traspariva in lei nessuna amarezza per essere stata tanto trascurata da Herman. Si avvicinò al letto, col suo passo latino e sensuale, e baciò il suo uomo con tenerezza e passione. Forse, Laisa era abituata a quell’essere stralunato che aveva scelto: sapeva anche, però, che Herman era una persona vera, e che mai e poi mai l’avrebbe presa in giro o tradita. Senza dire una parola, unirono i loro corpi animaleschi quel mattino, riconciliandosi in un tripudio di sensi. Laisa, fuggì poco dopo: lavorava, come cameriera, in un albergo sulla costa nord delle Ardegnas e non voleva far tardi a lavoro. Disse solo a Herman, che quella sera l’avrebbe dovuta portare fuori a cena, e che non avrebbe accettato nessuna scusa. Herman sorrise, e confermò con un cenno di consenso. Si alzò stranamente felice, fece una doccia.
Subito dopo, si fece un caffè lungo. Vide, gettato sul divano l’arcano memoriale ritrovato nel capanno, e spinto dalla solita forza incontenibile si sedette per continuare a leggerlo, rapito, dalla quiete di quel mattino.

Il capo P., in quell’occasione, aveva chiamato un esperto. Serviva. Nei nostri colpi, chiamavano raramente degli esterni, ma quella volta serviva. Loon kaar, era d’origine asiatica, e aveva lavorato, sino a qualche anno fa nella maggiore azienda europea di allarmi, la “Bibiblock”, ad Amburgo. Ora, si godeva la sua pensione sulla costa di Caralis, e arrotondava il suo mensile con lavoretti extra.
La villa del magnate russo, Putin Astanoviac, si trovava a Puerto del Cervos, nella costa nord orientale delle Ardegnas. Per non dare nell’occhio, decidemmo di arrivare nella rinomata località costiera per mezzo di un taxi. Il tassita, tale Alvaro Doso, era un tipo di poche parole, un vecchio conoscente di P. Arrivammo a Palos, con un treno verde turistico, vestiti da perfetti viaggiatori, e scendemmo dal treno verso le 18.00. Puntuale, meglio di un orologio svizzero, Alvaro ci aspettava col suo taxi tirato a lucido, coi vetri oscurati. P., si sedette davanti. Loon era calmissimo: forse, praticava qualche strana disciplina orientale, e in più sapeva che se anche ci avessero pizzicato, la sua età avanzata sarebbe stata incompatibile con lo stato di vacanza forzata nei penitenziari isolani. G. tirato a lucido, sembrava a suo agio, nei panni di un ricco vacanziere vestito di lino, con berretto e occhiali da sole d’ordinanza. Io, ero stranamente calmo. Sapevamo, che i Russi, proprietari della villa, sarebbero arrivati l’indomani per le vacanze estive. Un paio di settimane prime, il custode della villa, che era sposato con una donna di Caralis, in un bar cittadino si era sbronzato pesantemente, raccontando ogni dettagli sulla coppia e il giorno d’arrivo alla villa. Sarebbe stato più prudente tentare il colpo qualche giorno primo dell’arrivo, ma l’organizzazione del piano non l’aveva consentito. Sapevamo anche, che dalla 19 alle 20, il custode andava nel vicino bar per il suo solito aperitivo lasciando la villa incustodita. Sarebbe stato quello, il momento di agire, sperando di non incappare nella vigilanza del borgo, formata da un paio di scagnozzi sudamericani che facevano paura con la sola ombra. Alle 18.30, arrivammo al Puerto del Cervos. Il nostro tassista, con calma serafica, salutava tutti i suoi conoscenti del borgo. Ci inoltrammo, in una delle tante vie laterali dell’abitato, in direzione della villa dei Russi. Alle 18.45, Alvaro parcheggiò in una piccola piazzola, da cui si intravedeva il cancello di una villa. Loon, iniziò a togliere dal minuscolo borsello dei micro-marchingegni e una bomboletta spray. Alvaro, porse a me, P. e G., gli zaini che avevamo riposto nel bagagliaio insieme a un paio di false valigie turistiche, che ci sarebbero servite in caso di controllo. Ora dovevamo solo attendere, che il custode uscisse per il suo solito aperitivo serale, e colpire, con grande precisione e tempismo. Di lato al cancello, vedemmo una telecamera mobile, che arrivava quasi a lambire il cono di visione della nostra auto. Arrivarono le 19.00. Il custode della villa non accennava a uscire. La tensione saliva, nel piccolo abitato della nostra auto. Alle 19.15 vedemmo la piccola utilitaria del custode uscire. Tirammo un sospiro di sollievo. Il custode apri elettronicamente il cancello della villa e uscì lentamente con la sua auto, indirizzandosi nella direzione opposta alla nostra. Il tassista Alvaro rise sommessamente. Avrebbe seguito il tassista sino al bar, limitandosi a farci uno squillo, nel caso il custode fosse tornato prima del previsto alla villa. Indossammo bandane e panama turistici, e larghi occhialoni alla moda. Era ora di entrare in azione. Loon, l’esperto informatico, uscì per primo dell’auto. Attese che la telecamera compisse il giro nella direzione opposta al suo cono di visuale, estrasse un piccolo marchingegno elettronico che pose nel retro dell’apparecchio di controllo; poi, spruzzò qualcosa nell’obbiettivo della telecamera e ci fece segno di uscire. P. e G, uscirono di scatto dall’auto; io, li seguii a ruota. Loon, nel frattempo si incammino verso il cancello della villa mentre Alvaro sfilò in auto per raggiungere il custode. Il minuscolo asiatico Loon, estrasse un altro piccolo marchingegno che miracolosamente aprì il cancello: non chiedetemi il funzionamento di quelle diavolerie… posso dirvi solo che funzionavano. Loon entrò nella villa e attese il nostro ingresso. Appena fummo entrati richiuse il cancello dall’interno. Eravamo dentro. P., G e io, ci incamminammo verso l’ingresso della villa. Oltre il basso muro di cinta vedemmo una macchina della sicurezza passare difronte all’abitato. Ci nascondemmo dietro un grosso abete. La macchina si fermò un attimo. Un tipo grosso, in giacca e cravatta scese dall’auto; diede uno sguardo nel giardino, e spinse il pulsante di una trasmittente che aveva in mano. Poi risalì in auto. Dopo un paio di interminabili minuti ripartì. Forse, sarebbe stato meglio fuggire. P. invece, con calma serafica si incammino lungo la vetrata della villa; estrasse la solita punta di diamante e incise un cerchio perfetto nella vetrata, attaccò la ventosa ed estrasse il cristallo. Certo, quei Russi così magnificenti si fidavano troppo della tecnologia: tanta tecnologia ma nessun vetro antisfondamento. Un piccolo asiatico e Il rum, avevano già scardinato il loro fortino elettronico con custode avvinazzato. Entrammo. Il sistema di sorveglianza era sapientemente interrotto, come vedemmo nelle telecamere di sicurezza. Non c’era purtroppo tempo per cercare la cassaforte. Salimmo ai piani alti facendo razzia di gioielli e piccoli oggetti di grande valore. Mi colpì molto, in una delle camera da letto, l’esposizione in una litografia religiosa con un’incisione ai piedi di un solo comandamento: non uccidere. Non ci badai più di tanto. Dopo un quarto d’ora uscimmo dalla villa. Il tassista Alvaro ancora non era arrivato. Mancavano infatti ancora dieci minuti all’ora prefissata. Raggiungemmo con molta calma Loon. Cinque minuti prima del previsto il tassista Alvaro passò difronte alla villa andando a posteggiare nella stessa piazzola di sosta dell’andata. Loon riaprì il cancello: uscimmo velocemente e ci incamminammo lungo la strada. Loon ci seguiva a breve distanza. Una Maserati coi vetri oscurati passò velocemente lungo la strada. Il cancello alle nostre spalle si era quasi rinchiuso il quel momento. Cercammo di abbassare la testa o guardare altrove. Nessun problema, almeno in apparenza. Entrammo di fretta nel taxi ancora in moto, lasciando lo sportello aperto per Loon. L’asiatico, estrasse il piccolo marchingegno dal vetro della telecamera che andava nella direzione opposta al nostro cono d’ombra e con calma olimpionica entrò nell’auto. Il custode, per fortuna, ancora non si vedeva. Partimmo a una velocitò discreta. Dopo un paio di km, svoltammo verso uno sterrato che ci portò direttamente verso una piccola aeroporto per ultraleggeri. Sulla pista, ci attendeva un aereo già caldo e pronto a partire. Pagammo ad Alvaro il giusto compenso salutandolo con forti abbracci e ci incamminammo sulla pista. Sedemmo sul piccolo velivolo a motore dove un silenzioso pilota decollò dopo pochi minuti. Lo splendido panorama e la riuscita del colpo ci inondarono di una strana felicità: una strana felicità eccitata e convulsa.


IX

Herman, quella sera, portò Laisa alla taverna dell’Ors, un ristorantino mai stato alla moda in cui però cucinavano tradizionali piatti di terra dal sapore indimenticabile. Laisa si era vestita in modo elegante e aveva addosso uno strano buon umore, forse dovuto al fatto che a giorni sarebbe tornata in sud America per qualche mese. Aveva pregato Herman di accompagnarla, ma lui aveva accampato scuse…su scuse… inventando storie impronunciabili e irriferibili a ogni acuto osservatore. A cena, tra una pietanza e l’altra, Herman parlò meno del solito con la testa rivolta allo stramaledetto libretto ritrovato.
In un tavolo poco lontano da quello di Herman e Laisa tre individui mangiavano voracemente la loro cena. Uno dei tre, quello seduto al centro, aveva un'aria fredda e distante, e lo sguardo perso in una lontana dimensione. Gli altri due, entrambi sulla trentina parlavano tra loro animatamente ma sembravano detestarsi. Herman continuò a fissarli ancora un per un po', finché i tre si alzarono bruscamente, pagarono il conto e uscirono dalla taverna dell'Ors. Per un po' si dimenticò di loro... Laisa riprese a parlare, o forse non aveva mai interrotto il suo monologo quando ormai la cena si prestava alla conclusione. Herman pagò il conto e a notte ormai inoltrata uscirono dal locale. Da buona sudamericana Laisa propose a Herman una delle cose che lui detestava di più nella vita: dimenarsi al suono di ritmi animaleschi e tribali in una calca di folle inebetita. Ma Laisa quella notte fu molto convincente, e così Herman penso che quella corvè avrebbe avuto la giusta ricompensa. Dopo una mezz'ora di cammino arrivarono al Ritmo-mocambo-tribal, un locale non più alla moda, dove si riunivano attempati e stempiati rimorchiatori, rimorchi e rimorchiati, del giovedì sera. Laisa si dimenava sulla pista e una folla di signori panzuti le sbavavano letteralmente dietro. Herman ballò con lei per circa un'ora e a intervalli più o meno irregolari pensava allo stramaledetto libretto che aveva lasciato sul suo divano. Per un attimo pensò di piantare lì Laisa e tornare da solo a casa. Ma sarebbe stato troppo anche per la pazienza della ragazza. Alle tre la pista da ballo si svuotò ma a Laisa questo non sembrava interessare: continuò a dimenarsi per un'altra mezzora mentre un corpulento e brutto individuo le ronzava attorno come un famelico idiota da ballo. Dopo circa mezz'ora la sudamericana decise di avvicinarsi al divanetto su cui Herman era pesantemente seduto, mentre quel grosso idiota da ballo la seguiva. Sarebbe stata rissa ed Herman non era il tipo... era un mago delle parole, ma in quanto a fare a pugni...lasciamo perdere. Desiderò di essere un feroce Boxeur -o un saggio Boxer- , per intimidire quel tipo, il tanto che basta, da buon professionista, fuori da qualsiasi canile o ring. Mentre ormai Laisa era quasi arrivata, l'idiota da ballo la cinse a sé, e la sudamericana, senza pensarci troppo, gli sferrò una violenta gomitata nello stomaco. Herman si alzò per andarle incontro mentre un grosso buttafuori, vista la scena, stava per intervenire: Laisa lo prese per un braccio, afferrò i cappotti dai divanetti e sospinse Herman verso una porta secondaria del locale, che fortunatamente risultò essere aperta. Fuggirono nella notte carichi di forza e passione, ridendo e sudando freddo nello stesso tempo. Senza dire una parola si trovarono nell'appartamento che Laisa divideva con altre due inquiline, una di origine balcanica e l'altra, invece, una messicana arrivata in città da qualche settimana, e che proprio l'indomani, a sentire Laisa, sarebbe dovuta rientrare per qualche giorno nel sud delle Ardegnas. Senza svegliare le altre inquiline entrarono nella stanza di Laisa, travolti dalla passione dei sensi. A Mattino inoltrato si svegliarono. Laisa era già uscita per andare a lavorare. Nella stanza Herman trovò un biglietto in cui Laisa diceva di amarlo e tante altre paroline esageratamente sdolcinate. Si vestì in fretta e uscì. Nelle scale, incontrò una splendida ragazza mora che gli disse di essere la nuova coinquilina e se poteva indicarle la stazione ferroviaria. Era in partenza per Caralis. Herman decise di allungare un po' il percorso per rientrare a casa e accompagnarla così alla stazione. Le offrì la colazione in un bar sulla via della stazione prima di mostrarle dove poteva comprare il biglietto ferroviario. Herman provò a farle qualche domanda sul suo lavoro e sul suo soggiorno in città ma la messicana sviò gentilmente ogni risposta. La salutò ammaliato da tanta bellezza e rientrò a casa. Entrò nell'appartamento e come un automa si diresse verso il divano. Voleva finire di leggere quel maledetto libretto. Non trovandolo pensò di averlo lasciato in qualche altro angolo dell'appartamento. Con fare concitato rovistò dappertutto. Rivoltò casa e abiti. Nulla. Sparito nel nulla. Pensò a Segugios. Dov'era il suo cane? Sentì abbaiare. Uscì in terrazzo. Segugios era lì. Intirizzito. In bocca aveva un foglio di carta straccia, con quelle strane lettere appuntate sulla pagina: ???.

COSTANTINO LONGU FRANCESCHINO SATTA POESIAS SARDAS CONTOS POESIE IN LINGUA ITALIANA