La figlia del contrabbandiere
di Francesco Pasella

 

 

 


Era un intersecarsi infinito di strade polverose. Solitarie case rurali si affacciavano disperse e deserte ai margini del mio passaggio. Nessun cartello a indicarmi la direzione. Solo l’insana voglia di andare. Diramazioni scelte a caso, e lo smarrimento di non conoscere i luoghi. E rimuginando, sul perché avessi abbandonato la strada sicura, asfaltata dalla modernità, decisi che non volevo più tornare indietro, che non potevo farlo. E quando la strada prese a salire, arrampicandosi verso il monte, l’indicatore della benzina cominciò a sprazzi a illuminarsi, in un continuo minaccioso ammiccare. La strada si faceva, oramai, sempre più stretta, e senza slarghi era impossibile invertire il senso di marcia e prendere la discesa. Mi domandai chi ero, mentre, lontano dall’umanità che mi ignorava e ignoravo a mia volta, passavo lontano, dai legami di sangue che fanno solo soffrire, che ti proteggono e ti incatenano. Chi era, quell’uomo dentro la macchina, che si portava appresso un bagaglio invisibile di esperienze, e un bagaglio visibile di cellule che invecchiano? Era un uomo che avrebbe potuto benissimo non esistere, per tutta la vita che parallela lo sfiorava, nasceva e moriva, e ignorando il suo passaggio procedeva inesorabile. Era un uomo che non aveva visto i mari del mondo, ma le piazze assolate e buie della vita, troppo giovane per i rimpianti, troppo vecchio per i sogni.
E mentre, a pomeriggio inoltrato, la mente si affollava nitida e confusa di ricordi e la stretta stradina si faceva improvvisamente pianeggiante scorsi un bagliore di vita. Vidi una semplice ed essenziale casa con tetto spiovente e rustiche arcate in pietra, contornata di fiori ed erbe aromatiche e un grosso cane bianco che sonnolento dormicchiava di fronte a una porta in legno. Fermai la macchina, esausta dalla lunga salita e quasi vuota di carburante, e mi avvicinai alla casa. Il cane emise un ringhio sommesso che pian piano diventò un minaccioso abbaiare. Mi allontanai verso la parte laterale dell’abitazione, e incastonata tra due possenti alberi ramificati dentro la roccia vidi una rigogliosa fontana che confluiva il suo prezioso nettare dentro una vasca di pietra, e subito dietro un piccolo orto che si ritagliava un minuscolo spazio ai piedi di una roccia bagnata dal sole.
Una voce di donna alle mie spalle mi fece sussultare. Mi girai ancora visibilmente imbarazzato, e la vidi. Ed era, molto più della bellezza. Era sensualità, pelle abbronzata dal sole della montagna, velluto levigato dall’aria rarefatta, accecante fiorente femminilità sottratta alle leggi del tempo. E quegli occhi troppo scuri, quei capelli corvini lunghi e ricci, quel viso regolare, mi rubarono subito l’anima.
Mi riportarono alla realtà le sue parole, la sua voce apparentemente calma, che nascondeva il timore della mia presenza.
“Lei chi è? Cosa fa, vicino alla mia casa?”
Blaterai a malapena il mio nome. “Mi sono perso… sono quasi a secco di benzina” aggiunsi.
“Ho in casa una tanica di benzina. La può prendere e prima che venga la notte sarà a valle” mi rispose.
Le sue parole non erano certo ospitali. Ma i suoi modi volutamente bruschi, il suo sguardo teneramente minaccioso, tradivano una dolcezza non comune a tutte le donne, un amore nascosto nell’isolamento.
“Va bene…mi dia la benzina. Levo subito il disturbo” dissi in tono risoluto, con l’orgoglio tipico di chi non si sente accettato.
“ Aspetti fuori. Le porto subito la tanica”.
Sussurrò qualcosa nell’orecchio dell’enorme cane bianco che accucciandosi non smise un attimo di fissarmi.
Tornò subito dopo con la tanica che a malapena riusciva a sorreggere, barcollando ad ogni passo e con un ultimo sforzo appoggiò il contenitore a terra.
“ Ora può tornare tranquillamente indietro… prima di partire..se vuole.. si rinfreschi nella fontana….ho da fare in casa e non posso aiutarla oltre…faccia buon viaggio”.
“Mi dica quanto le devo per la benzina. Non voglio debiti”.
“ Non si preoccupi… prenda la benzina che le serve e lasci quella che le avanza sotto il porticato”.
Ringraziai silenziosamente con un cenno della mano e subito mi avviai verso l’auto. Presi dal portabagagli l’imbuto e lentamente versai il liquido nel serbatoio. Mi avviai con la tanica verso il porticato. Di fronte alla casa, sotto un pergolato che sicuramente regalava ombra e ristoro nelle giornate più afose c’era un tavolo, con sopra alcuni libri e vecchie riviste d’arte e letteratura. Mentre riponevo la tanica sotto un angolo del porticato vidi la donna guardare furtivamente dalla finestra e subito nascondersi. Decisi di non indugiare oltre, per non impaurirla ancora, e risoluto andai verso la macchina. Nel cielo nitido osservai un falchetto ondeggiare libero nell’aria, immagine forte e meravigliosa della forza della natura. Entrai nell’abitacolo dell’auto, e misi in moto. Dallo specchietto vidi la donna avvicinarsi all’auto. Aspettai. Lei indugiava. Finalmente si avvicino al finestrino e parlò: “ Mi scusi.. per i miei modi bruschi.. ma ho avuto paura. Sa… qua di rado arriva qualcuno. Viene, solo, una volta al mese una mia amica a portarmi le provviste”.
“ Capisco… le paure di una donna sola… sperduta… tra i boschi. Solo… spero di ritrovare la via per tornare al villaggio. Per fortuna.. nessuno mi aspetta e nessuno si dovrà preoccupare per il ritardo”
“ Senta…forse.. se aspetta a domani.. potrei accompagnarla io…sono a corto di provviste e potremmo andare insieme al villaggio. Poi… risalirei con la mia amica” disse titubante.
“ Scenda dall’auto, che le offro qualcosa da bere” aggiunse.
Spento il motore scesi dall’auto. La seguii. Era scalza, con un vestito nero che metteva in risalto le sue forme. Mi fece sedere nel tavolo sotto il pergolato. Tornò con una fumante tazza di caffè nero appena uscita dal bricco. Lo bevvi con gusto a piccoli sorsi.
“ Non mi ha detto neppure come si chiama” dissi.
“ Mi chiamo Elisa” rispose. E, smaniosa di parlare, continuò: “ Sono fuggita sulla montagna perché non sopportavo più i rumori della città. Ora, posso pensare, dipingere..leggere.. anche se ho.. dopo due anni di quasi isolamento… ho quasi nostalgia della città, delle comodità della civiltà” disse, in una risata che era quasi un inno alla vita.
“ Certo la sua è una scelta insolita, ma coraggiosa. Io ho sempre progettato di rifugiarmi in un posto splendido e isolato come questo, nella mia prima vita, quando volevo fare lo scrittore”.
“ Ma mi dica il suo nome, altrimenti comincerò a credere che sia un fantasma della mia mente” disse.
“ Mi chiamo Andrea. Diamoci del tu. Basta con queste formalità.”
“ Va bene. Raccontami qualcosa di te, cosa ci facevi in giro per i boschi. Dimmi cosa è accaduto nel mondo, negli ultimi tempi. È da una vita, che non leggo un giornale” chiese, con un incalzare di domande da consumata eremita.
Dopo averle sommariamente elencato i principali avvenimenti della settimana, insistette per sapere qualcosa della mia vita. E mentre mi guardava, ansiosa di sapere qualcosa su di me, sentivo il profumo della sua pelle inebriare i miei sensi, con un caldo vento di umanità. E sentivo anche, che le mie parole sarebbero state ascoltate, che non si sarebbero perse, come milioni di volte, nelle orecchie di chi voleva solo parlare, solo far rumore, nell’ennesima finzione di sentire e capire le tue parole.
“ Sono solo. Alcune rendite mi permettono di vivere agiatamente. Sempre in fuga da qualcosa. Sempre fermo nel mio lembo di terra. Ho provato a scrivere. Ma un po’ per mancanza di talento, un po’ perché non so scendere a compromessi, sono oramai anni che non scrivo più una riga, e fuggo al pensiero della morte e allo stesso tempo la desidero”.
Elisa mi guardò con tenerezza, come poche donne sapevano fare. E mi vide, in tutta la debolezza che avevo sempre nascosto. Non riuscivo a sfuggire il suo sguardo, perché poteva vedere le mie lacrime soffocate nel buio virile della notte, coperte dalla barba ormai folta, trasandata e inquieta della mia esistenza. E guardarla mi regalava coraggio, e brevi sprazzi di serenità che avevo perduto.
I nostri sguardi timidamente si incrociavano e subito si rifuggivano.
Mi disse che avrebbe preparato la cena, e avremmo mangiato sotto il pergolato, e che, se volevo, potevo guardare i suoi quadri nello studio attiguo alla cucina; di non aver paura di Cucciolo, l’enorme cane bianco che mi aveva ringhiato contro, e ora, improvvisamente, ai comandi della sua padrona si accucciava ai miei piedi. Entrai in casa. L’abitazione si componeva di quattro stanze con spesse pareti, l’ambiente rustico e il pavimento di tavolato conferivano un sapore di antico al rifugio. Entrai nello studio. Subito, mi colpirono un vecchio violino appoggiato su una poltrona e una radio antica simile a quella di mio nonno. Sul cavalletto, al centro della stanza, una tela bianca. Appoggiati ai muri della camera dei quadri dai colori intensi. Uomini soli che scrutano panorami splendidi e solitari. Torrenti e maree, vecchi pescatori sulle banchine degli splendidi porticcioli del mare nordico, boschi e laghetti montani, treni che lambiscono in silenzio la natura.
L’uomo, marginale, rappresentato in maniera oscura sulla tela. E, vicino alla finestra, lambita dalla luce che filtrava dalla tenda, l’essenza della sua creazione artistica: un sentiero che dalla montagna calava a picco sul mare, cedendo il passo alla sabbia bianchissima, che fondendosi in un mare smeraldino si disperdeva nel blu degli abissi. Contrasto tra la potenza della montagna e l’infinità del mare ridotto a misera immagine. Uscii dallo studio e mi avvicinai alla cucina. Elisa stava cucinando. Sopra il grande camino della cucina, una vecchia foto in bianco e nero appesa al muro mi incuriosì. Vi era ritratto un uomo con un fucile, con berretto e barba bianca, simile ad un bandito fiero e triste della sua latitanza. Guardai Elisa che si era voltata verso di me e mi dimenticai della foto.
“ Hai fame? –Disse-. “Tra un attimo è pronto”. “ Comincia a sederti a tavola. Tra un istante arrivo” aggiunse.
Uscii fuori dal rifugio. La tavola era gia imbandita, con una tovaglia bianca sulla quale erano disposti dei piatti di coccio e dei boccali. Elisa portò del pesce. Arrivò subito dopo con un boccale d’acqua preso alla fonte e una bottiglia di vino bianco che aveva conservato dentro la vasca della fonte per tenerla in fresco, e non aveva voluto bere da sola. Le prime luci della notte ormai stavano calando sulla montagna. Elisa accese le canne di bambù appese al porticato, e pose a terra alcune bugie in ferro battuto. Subito l’ambiente e la silente estasi della montagna furono schiariti dal bagliore delle luci. Appena si sedette a tavola, mi disse orgogliosa, di aver preso quel pesce nel torrente non molto lontano dalla casa dopo vari tentativi andati a vuoto. Credo che fosse quel deserto umano nel quale viveva ad avermi riservato questo trattamento, ma ne fui lo stesso felice.
Quando, alla fine della cena, vuotammo la bottiglia, il tono delle nostre voci divenne più disteso e più alterato, e la discussione si animò, e si fece più confidenziale. Dopo avermi istruito sul modo più veloce e rapido per spaccare la legna mi parlò del suo passato.
“ Mia madre era una violinista” disse “ si esercitava…e aspettava per lunghi giorni…e si esercitava..”
“ Chi, o cosa aspettava?” chiesi.
“ Aspettava mio padre… l’uomo della foto in cucina… che viveva nel suo capanno, preso dai suoi traffici”
“ Non posso negare che quella foto mi abbia colpito” dissi “ tuo padre…ha un’aria…da…” e m’interruppi.
Elisa mi tolse dall’imbarazzo.
“ Ha un’aria da bandito. E, in un certo senso, lo era. Viveva ai margini della legalità. Utilizzava questo capanno per depositare la merce che arrivava dal mare, attraverso i sentieri che percorrono la montagna e giungono a picco sulle cale deserte” disse.
“ Sì…Sono figlia di un contrabbandiere..latitante senza colpa dell’eredità di mio padre. Questo era il suo rifugio. Ho cercato di ritrovare la mia storia… nel luogo dove lui ha lasciato l’impronta più forte del suo passaggio”
“ Elisa. La figlia del contrabbandiere. Sembra il titolo di un romanzo” aggiunsi divertito. Ma subito mi feci serio. Perché quella, non era finzione. Erano sentimenti mescolati ai sogni. Estasi figurativa intrisa di luoghi del passato. Ricerca della felicità nascosta nella consapevolezza che si è, anche quello che gli altri sono stati.
Ed Elisa rise serena al mio vagare poetico. Perché non era figlia di assassino. Non era, figlia di uomini che ti rubano l’anima per poi rivenderla al miglior offerente. Era, latitante senza colpe, del passato di un uomo che non aveva conosciuto. Figlia di un uomo, che aveva scelto di percorrere le strade ai margini della civiltà, che avrebbe potuto essere benissimo un buon contadino o un buon allevatore, e che invece, percorreva a piedi le mulattiere della montagna per eludere un divieto, che a lui, appariva assurdo. E forse, lo era.
Era ormai notte inoltrata quando ci ritirammo nelle nostre stanze. Avrei voluto vivere li per sempre.
Non eravamo due adulti nascosti all’umanità che cercavano il mare sottratto ai navigatori del nostro secolo; eravamo la voce generica, offuscata alla vista, vitale e morente, dei nostri giorni. Questo eravamo.
Purtroppo, l’indomani sarei dovuto partire. Verso i lidi della mediocrità. Da cui si può solo fuggire, se hai alle spalle una storia sbagliata, come aveva fatto Elisa.
Cosa avrei fatto?
Certe donne si possono appigliare all’amore, ai vestiti; ma agli uomini cosa rimane? Un ventre gonfio di birra, un lavoro mediocre, pochi capelli ingrigiti, una passione schifosa e ossessiva per il sesso. E in pochi casi, la voglia sincera e disinteressata di rifarsi una nuova vita. Un’altra possibilità.
Rimuginando su questi pensieri mi addormentai profondamente.
Era mattino inoltrato quando mi svegliai: affacciandomi alla finestra vidi fasci di sole riscaldare lembi di terra vergine.
Chiamai Elisa ma non mi rispose. Uscii in terrazza. Costeggiai la casa spinto da una forza invisibile. Camminai con passo svelto e sicuro oltre una piccola foresta di sughere. La vidi. Era dentro un piccolo laghetto ai piedi di una cascata. Volevo avvicinarmi. Chiamarla. Possedere la sua bellezza. Mi sentivo sporco nell’osservarla a tradimento e decisi di andarmene. Fu lei a spezzare il mio incantesimo pronunciando il mio nome.
L’acqua era gelata. I nostri giovani corpi si scambiarono promesse d’amore suggellate da verità ancestrali. Intrecciati dimenticammo il nostro passato.
Scalammo le vette più alte per ammirare il mare più intenso. Eravamo entrambi purificati da colpe mai commesse.

COSTANTINO LONGU FRANCESCHINO SATTA POESIAS SARDAS CONTOS POESIE IN LINGUA ITALIANA