Amsicora e i
Romani
di Vincenzo Quartu
Introduzione
Vagava per la costa, dove
un tempo
sorgeva la città operosa e illustre
di Cornus, nota in tutta la Sardegna,
famosa per la porpora pregiata
che produceva e ovunque commerciava.
Era una donna dallo sguardo perso,
ed il cui volto, come impressi a fuoco,
portava i segni di una vita lunga,
ma in gran parte vissuta nel dolore.
La sua mente era ferma a quando Roma,
con spietata ferocia, raso al suolo
aveva Cornus ed a fil di spada,
senza pietà, passato i cittadini
perché avevano osato rifiutare
il suo dominio, opporre resistenza
all’avanzare delle sue legioni.
Quanti anni avesse già più non sapeva
ed il suo nome ormai non ricordava:
la sua memoria solo conservava
i ricordi di quegli avvenimenti
che, glorïosi e tragici al contempo,
avevano segnato la sua vita.
Sola vagava per la desolata
costa, cercando neppur lei sapeva
che cosa, ed a se stessa ripeteva…
1
Sorgeva, un tempo, una città
felice
su questa costa ora deserta e brulla.
Alte al ciel s’elevavano le grida
di gioia e d’esultanza dei fanciulli
che giocavan festosi sulla spiaggia,
inseguivano i pesci dentro l’acqua
o veloci correan sulla battigia
in gara con puledri agili e snelli.
Qui le fanciulle, dagli occhi profondi,
dolci sogni cullavano e felici
volgevano il pensiero ai loro amori
ancor segreti, agli altri sconosciuti,
custoditi nel cuor gelosamente.
Alte al ciel s’elevavan pur le grida
dei giovani che all’uso delle armi
si addestravano, a piedi o stando in groppa,
ritti e sicuri, a focosi cavalli,
sotto gli sguardi vigili e severi
di coraggiosi ed abili guerrieri.
E mentre lavoravano la porpora,
cantavano le donne inni agli dei,
a Sardan e alla grande Madre Terra,
perché alla loro prole e ai loro sposi
fosser sempre propizi e mai avversi
ed ognora vegliassero su di esse.
Eran gli uomini esperti cacciatori,
il mar solcavan con robuste navi
incuranti di mostri e di procelle,
governavan con cura mandrie e greggi,
lavoravan la terra spesso avara
fabbricavano arnesi con perizia,
fiocine e lenze usavan con maestria.
2
Sorgeva, un tempo, una città
operosa
su questa costa ormai priva di vita.
La edificarono uomini qui giunti,
in tempi antichi, dal lontano Oriente.
Eran navigatori, eran predoni
che solcavano il mare in lungo e in largo,
portando a volte morte e distruzione
in villaggi, in città e intere nazioni.
Shardàna si chiamava quella gente
e apparteneva ai Popoli del Mare.
Un giorno quella gente approdò qui,
su quest’isola cui diede il suo nome,
sulle cui coste edificò città
che crebbero e divennero industriose.
Karalis, Nora, Solki, Othoca, Tharros,
Turris, Olbia, Nabui, Bithia emersero
e Cornus fu con esse, e non già l’ultima.
Per anni ed anni ed anni quella gente
tenne rapporti e traffici fruttuosi
con i popoli della grande terra:
Egizi, Greci, Italici e Fenici,
Cartaginesi, Iberici ed Etruschi.
Per anni ed anni ed anni le lor navi
sfidarono le insidie del gran mare
e la tuonante collera del cielo,
ovunque trasportando mercanzie,
frutto d’ingegno e di lavoro assiduo.
Per anni ed anni ed anni quella gente
visse serena e prosperò felice,
in pace con le fiere e bellicose
tribù che popolavano l’interno:
Gallilesi, Balari ed Iliesi,
essi pure qui giunti dall’Oriente,
ma molto tempo prima, e sempre in armi.
3
Sorgeva, un tempo, una città
fiorente
su questa costa, ove ora più non resta
alcuna traccia della sua esistenza.
Gelosa della propria libertà,
a lungo si difese con coraggio;
ogni invasor con impeto affrontò
e con fermezza in mar lo ricacciò.
Cartagine non ha scordato ancora
la disfatta subita qui da Malco,
quando tentò d’imporre il suo dominio.
E pianse a lungo la casa dei Barca
Asdrubale, rampollo di Magone,
che combattendo qui perse la vita.
Tutte accorsero allora le città
a difender l’amata libertà.
Non fu così quando dal mare giunse
questo nuovo famelico invasore,
gonfio d’orgoglio, per aver piegato
con una lunga e sanguinosa guerra
la superba potenza di Cartagine.
Giunsero qui e, come un fiume in piena,
le agguerrite legioni dilagarono
in villaggi e città non preparati
a far fronte a una macchina da guerra
che tutto stritolava al suo passaggio.
Caddero, l’una dopo l’altra, molte
città illustri, piegarono la tesa
all’incalzar dei figli della Lupa.
Impose Roma il suo pesante giogo
con spietata ferocia e i suoi pretori
presto si trasformarono in predoni.
Gemevano e fremevano impazienti
di scioglier le catene e riscattarsi
Olbia, Karalis, Nora, Bithia e Solki.
Già traccia più non c’era di Nabui
dai feroci Quiriti rasa al suolo.
4
Sorgeva, un tempo, una città
industriosa
su questa costa che ora è desolata.
Cornus era il suo nome ed ebbe gloria,
per quanto effimera, ed ai Sardi tutti
di libertà fu faro e d’amor patrio.
Tenere testa osò e sbarrare il passo
all’invasore giunto d’oltre mare,
che proseguiva nella sua conquista,
sicuro ormai che nulla lo fermasse.
Amsicora fu l’anima e la mente
di quell’impresa intrepida e gloriosa,
ma non riuscita per avverso Fato.
Contro di lui congiurò anche il mare
per anni ed anni amico ed alleato;
le spalle gli voltò e passò al nemico
più ricco, più potente ed agguerrito.
Violento il sangue pulsa nelle tempie
al ricordo di quegli avvenimenti
che segnaron la fine della nostra
indipendenza e ci resero schiavi
d’una città mai sazia di dominio,
falsa ed astuta, avida e spietata
contro quanti hanno osato e chiunque osi
sbarrarle il passo e non piegar la testa.
Fresco è il ricordo di quei dì fatali…
5
Voci di guerra ci portò,
improvvise,
il caldo vento del Meridïone.
Segni premonitori il ciel mandò:
il sole spesso ci negò la luce
ed il calore dei suoi raggi ardenti;
la luna rifiutò, insieme alle stelle,
di risplendere e rischiarar la notte.
Pure dal mar, che ci fu sempre amico,
via sicura per le nostre navi,
ci giunse spesso un sordo brontolio;
mostri marini, orrendi e ripugnanti,
raccapriccianti strida nelle notti
lanciarono impedendoci il riposo,
facendoci rizzar tutti i capelli
e raggelare il sangue nelle vene.
Scesero a stormi le aquile dai monti
a depredare teneri e indifesi
agnellini, capretti e porcellini,
a insidiare perfino i nostri bimbi.
Abbondante razzia del pollame
fecero arditi falchi, gheppi e nibbi.
Ripresero ardimento anche le volpi
e alle greggi non diedero più tregua,
incuranti perfino dei pastori,
del rabbioso abbaiar dei nostri cani,
di acuminate frecce e giavellotti,
di sibilanti sassi e delle spade.
Corvi e avvoltoi, in pazïente attesa,
volteggiavan nel cielo in cerchio, pronti
a far con le carcasse lauto pasto.
Amsicora a quei segni restò scosso,
chiamò a raccolta le città ancor libere
per fronteggiare insieme l’invasore.
Turris, Othoca e Tharros prontamente
aderirono e accorsero e all’appello
del condottiero intrepido di Cornus.
In questo luogo tennero consiglio
i capi delle quattro città sarde:
Athen, Erailo, Taras ed Amsicora.
Qui stabiliron di comune accordo
di fronteggiare uniti l’invasore.
Vivo è il ricordo di quell’adunanza…
6
« Annibale imperversa
» disse Amsicora,
« e percorre l’Italia a piacimento,
senza trovare ostacoli di sorta.
I Romani più volte ha già battuto
in cruente battaglie e Roma stessa
vedrà schierati intorno alle sue mura
presto i Punici e implorerà mercé.
Quale occasione ci offriran gli dei
più propizia per rigettare in mare
il comune nemico e liberare
le città oppresse dal pesante giogo?
Nessun di noi, da solo, mai potrà
affrontare i Romani con successo,
ma se mettiamo insiem le nostre truppe,
più potente sarà la forza d’urto
che potremo schierare in campo aperto. »
« Siam però troppo pochi e in un baleno
spazzati via verremo » disse Erailo.
« Molto più numerosi e meglio armati
sono i Romani » Taras affermò.
« Non siamo ancora pronti » disse Athen
« e ci conviene attender che in Italia
Cartagine consegua una vittoria
definitiva. Allor ci scaglieremo
come un sol corpo contro l’invasore. »
« Lo so, siam troppo pochi e male armati »
ammise Amsicora « e perciò propongo
di chiedere soccorso agli Iliesi,
ai Balari, se occorre, e ai Gallilesi. »
Riprese Taras la parola e disse:
« Gallilesi, Balari ed Iliesi,
invincibili nelle loro terre,
non danno affidamento in campo aperto,
sono indisciplinati e poco inclini
ad obbedir perfino ai loro capi. »
« Hai detto il vero » accondiscese Amsicora.
« Io propongo, pertanto, che a Cartagine
si chieda di schierarsi al nostro fianco
e presto invii qui fanti e cavalieri. »
« Come potrà Cartagine venire
in nostro aiuto? Le sue forze tutte,
al comando di Annibale, impegnate
sono in Italia » lo interruppe Erailo.
« Cartagine sa ben che una sconfitta
del comune nemico qui in Sardegna
più vulnerabil renderebbe Roma,
ne faciliterebbe la conquista.
Verrà, pertanto, non ne ho dubbio alcuno
e lo farà al più presto » disse Amsicora.
Concordaron con lui gli altri tre capi
e, senza indugio alcuno, il giorno stesso
per l’Africa salpò un’ambasceria,
mentre Amsicora andò dagli Iliesi,
lui di persona, a chiederne il soccorso.
Così fu fatto e in tutte le città
presto fervettero i preparativi
alla futura e glorïosa impresa:
spade furon forgiate dalle falci,
in lance e giavellotti trasformati
furon pungoli e fiocine. Alle reti
sostituiron scudi i pescatori
divenuti guerrieri, come i fabbri,
i pastori, i mandriani e i contadini,
i commercianti e pure gli artigiani.
Ancor vivo è il ricordo di quei giorni…
7
Era pretore Quinto Muzio
in Karalis,
da poco giunto a sostituire Mammula,
ma una febbre malefica ben presto
s’impossessò di lui e gli impedì
d’assumere il comando degli armati.
Tito Manlio Torquato il posto prese
di Quinto Muzio e rapido marciò,
con due legioni, verso il settentrione,
soffocando nel sangue ogni rivolta,
lasciando dietro a sé terra bruciata.
A Cornus giunse l’eco del suo arrivo,
la colse impreparata, di sorpresa,
e la fece piombare nell’angoscia.
Chi l’avrebbe difesa dal potente
esercito romano in quel frangente?
Era Amsicora ancor tra gli Iliesi
e le città alleate erano assenti,
alla sprovvista colte dal fulmineo
e imprevisto avanzar di Tito Manlio.
Dei Cartaginesi non un segno
s’intravedeva nell’immenso mare.
Apparsa era, una sera, all’orizzonte
lontano la superba flotta punica.
Gioì ogni cuore a Cornus nel vederla
e tutta la città attese con ansia
l’approdo dei guerrieri. Il loro capo
era Asdrubale il Calvo e con sé aveva
due illustri cittadini di Cartagine:
uno era Annone e aveva stimolato
i suoi concittadini a quell’impresa;
era Magone l’altro del potente
casato del supremo duce Annibale.
La s’intravide appena e poi scomparve,
inghiottita dal buio della notte.
Infuriò, quella notte, la burrasca …
8
Ancora mi rintrona nella
testa
il fragore assordante dei boati
che fecero tremar tutta la terra.
Ancora sono i miei occhi abbagliati
dal chiarore dei lampi che squarciò
il velo della notte e rischiarò
la terra tutta come fosse giorno.
Si gonfiò il mare, quella notte, e il cielo
fu scosso dal rabbioso suo ruggito.
Alte montagne emersero improvvise
dall’abisso e lambirono le nubi,
ne squarciarono alcune ed impetuosa
l’acqua si riversò su terra e mare,
violenta si abbatté sul nostro porto
e le ormeggiate navi, al par di foglie,
l’una sull’altra a infrangersi scagliò.
Cornus tutta fu scossa da paura.
Notte tremenda e di terror fu, quella!
Da bramosia distruttrice unite,
si scatenaron le potenze occulte
di cielo e mar, compatte si scagliarono
contro la terra attonita e impaurita,
con violenza inaudita la percossero
spogliarono, squarciarono e travolsero.
Notte tremenda e di terror fu, quella!
L’angoscia e la paura penetrarono
nei nostri cuori e nelle nostre menti
aprirono la strada alla pazzia.
La città intera echeggiò di pianti
e di urla che si unirono al lamento
della terra ferita e martoriata.
Poi fu il silenzio: il cielo ammutolì,
tacque il mare e il lamento della terra
pure si spense, insieme a pianti ed urla.
Da dietro le montagne sorse l’alba
e, ignara degli eventi della notte,
allegra e sorridente rischiarò
un cielo aperto e terso; poi rivolse
il suo sguardo alla terra martoriata.
Rabbrividì, scorgendo ricoperta
di pesci e di mostri marini morti,
o in agonia, tutta la nostra costa;
e sussultò, vedendola cosparsa
di relitti e cadaveri rigonfi,
vomitati dal mare nella notte.
Rabbrividimmo tutti, la mattina,
a quella orrenda vista! Eran soldati
cartaginesi tutti quei cadaveri,
eran di loro navi quei relitti.
“Certo l’intera flotta di Cartagine”
pensammo tutti “ha inghiottito il mare”.
Affiorano i ricordi alla mia mente…
9
Tremava Cornus tutta e trepidava
sulla sua sorte al rapido avanzare
dell’imponente esercito di Roma.
Invocava i suoi dei, chiedeva aiuto
dal cielo, dalla terra e pur dal mare.
Già vedeva il nemico dilagare
e a ferro e a fuoco mettere ogni cosa;
già si sentiva ai polsi e alle caviglie
stringere le catene e sulla nuca
gravare il giogo della schiavitù.
Cornus tremava tutta… Solo Iosto,
al quale il padre Amsicora affidò
il comando durante la sua assenza,
mantenne il sangue freddo ed a raccolta
chiamò la gioventù e chiunque avesse
la forza di tenere un’arma in pugno.
« Nessun dica che Cornus » esordì
il giovane guerriero « abbia chinato
la testa senza opporre resistenza,
piegato abbia il ginocchio e prosternata
umilmente si sia all’invasore.
È ancor robusto il nostro braccio, indomito
è il nostro cuore e il ferro che impugniamo
non è meno tagliente del romano.
Orsù, marciam compatti e, pur se in pochi,
affrontiamo il nemico con coraggio.
Di carne, ossa, sangue e pelle è fatto
lui pure, come noi, ed è mortale.
Orsù, senza più indugio né paura,
a sbarrargli il cammin corriamo uniti,
con le armi in pugno ed il ginocchio saldo!
Sardan ci guiderà, la Madre Terra
sarà con noi e ci proteggerà. »
Sentì infiammarsi il cuore ogni guerriero
e, l’arma verso il cielo sollevando,
emise un grido che tuonò potente:
« Sardan ci guiderà, la Madre Terra
sarà con noi e ci proteggerà! »
Era un piccolo esercito ed Iosto
un comandante imberbe ed inesperto,
però focoso e pieno d’ardimento;
non mancava d’ingegno né d’astuzia,
alla quale ricorse in quel frangente,
prendendo alla sprovvista il consumato,
abile condottier Manlio Torquato.
Si affollano i ricordi nella mente…
10
Avanzavano i militi di Roma
baldanzosi e sicuri di travolgere,
come un’onda impetuosa, ogni ostacolo,
ed ogni impedimento superare.
Esercito potente ed agguerrito,
che terrore incuteva al sol guardarlo,
conduceva con sé il duce romano.
Brillavano elmi, scudi ed armature
sotto i raggi del sol, mentre possenti,
trasportati dal vento, al ciel salivano
canti di guerra e rullar di tamburi.
Baldanzosi avanzavano ed alteri
i loricati militi di Roma.
Orgogliosi marciavano e sicuri,
dietro alle insegne, i figli della Lupa.
Un nugolo di frecce, all’improvviso,
si abbatté su di loro e una gragnola
di sibilanti sassi li investì.
Fu lo scompiglio: le serrate file
si aprirono ed al cielo s’elevarono
alte grida di rabbia e di dolore.
Caddero molti fanti e cavalieri,
l’un sopra l’altro, e morsero la terra
che poco prima calpestavan fieri.
Provennero dal folto d’una selva
le frecce e i sassi, ma il roman non vide
neppure l’ombra di chi li lanciò.
Si lanciarono alcuni cavalieri
al galoppo e raggiunsero la selva,
vi si inoltraron, ma nessun di loro
fece ritorno tra le schiere amiche.
Nuovamente serrarono le file
e la marcia ripresero guardinghe
le legioni al comando di Torquato.
Ma ecco, all’improvviso, non distante,
comparve come emerso dalla terra
un folto gruppo di uomini a cavallo,
sostò in atto di sfida, lance in pugno,
pochi minuti e poi sparì di nuovo.
Ordinò Tito Manlio ai cavalieri
d’inseguirlo e di farne orrenda strage,
diede il comando al resto delle truppe
d’accelerare il passo ed avanzare
rapide contro i barbari impudenti
che avevano colpito a tradimento,
tenendosi nascosti nella selva.
Galopparon veloci i cavalieri,
affrettarono il passo i legionari,
spinti dall’odio e lividi di rabbia,
finché furon costretti ad arrestarsi:
davanti e ai lati un putrido acquitrino,
costellato di arbusti e di sterpaglie,
emanava miasmi insani e fetidi.
Fu sorpreso Torquato e immantinente
l’ordine diede d’invertir la marcia.
Giunse però tardivo quel comando
e risparmiare non poté ai Romani
d’esser colpiti da frecce e da sassi,
da giavellotti e lance dagli arbusti,
d’improvviso animatisi, scagliati.
Poco durò quell’insolita pioggia,
ma procurò un effetto devastante.
S’imporporò la terra e il ciel si empì
nuovamente di grida e di lamenti
che rapì il vento e a Roma trasportò.
Udirono le madri e i loro cuori
si sentirono stringer da una morsa
di dolore che presto s’irradiò
fino al cervello e l’animo stordì.
Divoratrice dei tuoi stessi figli,
te maledì ogni madre, Roma; a te
la morte prematura dello sposo
ogni sposa imputò, stringendo al seno
l’ignaro figlioletto orbo del padre.
Su te invocata fu l’ira divina
per le giovani vite qui spezzate,
sacrificate alla tua cupidigia,
alla mai sazia fame di potere.
Giorno di lutto fu, quello, e di strazio,
abbondante fluì, quel giorno, il sangue
e ricca fu la messe degli Inferi.
Restò disseminato tutto il campo
di cavalieri e legionari morti
non per difender patria e libertà,
ma per altri ridurre in schiavitù.
Caddero in una terra ignota e ostile
lontano dalla casa e dai parenti
che visti non li avrebbero tornare
gonfi d’orgoglio e carichi di gloria.
Scosso e turbato fu Manlio Torquato
a quella vista e, ripreso il controllo
delle legioni, ripiegò su Karalis,
mentre avrebbe potuto agevolmente
raggiunger Cornus, cingerla d’assedio,
conquistarla e distruggerla col fuoco,
cospargerne di sale le rovine.
Condottiero prudente era il Romano
e preferì tornare sui suoi passi
per curar le ferite e ridonare
animo e vigoria ai legionari.
A Roma fu inviata la notizia
d’una grande vittoria, di tremila
Sardi uccisi e ottocento catturati.
Nella mia mente incalzano i ricordi…
11
Fece ritorno Amsicora in
città
e, appena fu informato dello scontro,
convocò Iosto e con parole dure
inveì contro lui. « Sciagurato! »
lo rimbrottò. « Preciso era il comando:
controllare i Romani e le lor mosse,
ma evitare lo scontro in mia assenza,
evitare persin di molestarli;
difender la città e, se necessario,
abbandonarla e andare a settentrione… »
« Ghiotta si è presentata l’occasione
per non coglierla al volo e non sfruttarla »
osò interrompere Iosto il genitore.
« Taci, impudente! Con la tua impresa
i Romani hai tu messo sull’avviso;
più cauti diverranno e più spietati
saranno per lavar l’onta subita.
Or sanno che di fronte non avranno
imbelli e sprovveduti guerrïeri,
ma valorosi e ben determinati
a vender cara vita e libertà »
Amsicora incalzò impietoso e Iosto,
col viso in fiamme e l’animo in tumulto
per l’orgoglio ferito, ribadì:
« Un successo per noi ed uno smacco
per i Romani è stato, che percossi,
umiliati e derisi han ripiegato
su Karalis, lasciando sul terreno
morti e feriti in grande quantità,
mentre le nostre perdite di poche
decine sono state e il nostro esercito
più agguerrito si è fatto e baldanzoso.
Gli dei hanno voluto e preparato
lo scontro che i Romani ha umiliato. »
« Ah, gioventù incosciente e presuntuosa,
priva di senno e a corto di prudenza! »
il figlio redarguì severo Amsicora.
« Tu hai voluto lo scontro e non gli dei,
per dimostrare d’esser condottiero
abile e astuto, ardito e valoroso,
ma, come una zanzara, sol fastidio
hai procurato, una puntura lieve,
al gigante romano, ora furente.
Consideri un successo la tua impresa
e uno smacco per Roma, e non capisci
ch’è stata invece inutile e avventata
e come effetto ha avuto solamente
d’inferocire ancor di più il nemico.
Distruggerlo dovevi e non lasciare
che rimettesse in sesto le sue file,
riacquistasse vigore ed ardimento
dall’odio e dalla rabbia alimentati.
Che sono mille morti e anche tremila
per l’imponente esercito di Roma?
Sono un’inezia, un piccolo incidente
che sminuir non può la sua potenza,
sulla sua forza d’urto non incide.
Indispensabile è, invece, per noi
ogni vita e perfino un sol caduto
c’indebolisce, toglie vigoria
all’esercito e può vanificare
i nostri sforzi, rendere inattuabile
l’impresa dal cui esito dipende
la nostra sorte, cui sono affidate
la nostra libertà e l’indipendenza. »
« Avrei dovuto, dunque, consentire
che la città assalissero ed al suolo
la radessero, senza nulla osare? »
al padre gridò Iosto e proseguì:
« Tu pure avresti agito come me,
al volo l’occasione avresti colto… »
« Taci, impudente! » Amsicora tuonò.
« Una città distrutta si riedifica,
ma un guerriero caduto più non può
ritornare su un campo di battaglia.
Sparisci, Iosto! Via dalla mia vista,
prima che su di te s’abbatta il ferro
che stringo in pugno. Via, finché sei in tempo! »
Trattenne a stento Iosto la sua rabbia
per la rampogna ritenuta ingiusta;
strinse i denti, le labbra pur si morse
e, andando via, non camminò ma corse.
Mi par che sia avvenuto appena ieri…
12
Giunsero a Cornus le truppe
alleate;
giunse la flotta dei Cartaginesi,
con evidenti ancora le ferite
aperte dal terribil fortunale
che la investì impietoso, quella notte.
Non contenne le navi il porto angusto
tutte quante; gettaron molte al largo
le ancore, nascondendo l’orizzonte.
Né la città contenne, entro le mura,
tutte le truppe; molti accampamenti
sorser nella campagna circostante.
Mai vide Cornus tanta gioventù
traboccante di vita e di ardimento;
né mai udì parlare nel contempo
tante lingue diverse e sconosciute.
Mai si vide in città tanto fermento,
né mai una così grande agitazione.
Dalla campagna intorno, alla città
un calpestio frenetico giungeva
di focosi cavalli, i cui nitriti
rapiva il vento e ovunque disperdeva.
Esercito potente accolse Cornus,
pronto a marciare contro l’invasore.
Si radunaron nel tempio di Sardan
i capi sardi e tennero consiglio
insieme al duce dei Cartaginesi
ed agli illustri suoi concittadini.
Amsicora parlò per primo e disse:
« Fraterni amici, il cuore mio gioisce,
l’animo esulta e si rinvigorisce,
vedendovi riuniti qui, al mio fianco,
per dar battaglia, uniti, all’invasore.
Non bramosia di gloria o di bottino
ci spinge a questa impresa ardua e cruenta,
bensì l’amore per la libertà,
per la Sardegna e la sua indipendenza.
Roma da tempo, ormai, calpesta il suolo
sacro dei nostri padri e già forgiato
ha per noi le catene; ha fabbricato
il giogo della nostra schiavitù.
Insieme, e con l’aiuto di Cartagine,
fallir possiamo fare il suo progetto,
in mare rigettar le sue legioni,
distruggerne le navi e far rimpiangere
ai suoi guerrieri la lontana patria. »
Poi, rivolto ad Asdrubale, soggiunse:
« Da tempo attendevamo il vostro arrivo,
per cogliere i Romani di sorpresa,
garantendo il successo dell’impresa. »
« Gli dei del mar ci furono nemici »
disse Asdrubale il Calvo e proseguì:
« Contro noi si scagliaron con potenza
e inaudita violenza. Una bufera
si abbatté sulla flotta e la disperse,
quando già in vista della tua città
eravamo e già pronti per lo sbarco.
Alcune navi furono abbattute
da gigantesche onde ed inghiottite
dal mar ruggente e da mostri marini.
Il resto della flotta fu sbattuto
a fracassarsi sulle Baleari.
Ingente il danno fu, molti guerrieri
furon travolti e persero la vita;
lungo fu il tempo occorso a riparare
i danni e a risanare le ferite.
Or siamo qui ridotti, è ver, di numero,
cui supplirà la rabbia contro Roma.
Potente il nostro braccio calerà,
insieme al vostro, sul comun nemico;
come immensa montagna piomberà
sulle legioni e le stritolerà,
come torrente in piena e devastante
Tito Manlio travolgerà all’istante. »
« Come immensa montagna piomberà
sulle legioni e le stritolerà! »
fu il grido che, potente, si elevò.
« È l’ora, dunque! Orsù, senz’altro
indugio,
marciam compatti incontro all’invasore »
disse Amsicora ad alleati e amici.
« Rimbombi il cielo di grida e di canti,
il suon dei corni giunga alle città
ed ai villaggi sottomessi a Roma,
li induca alla rivolta e a unirsi a noi;
giunga terrificante ai legionari
e faccia lor tremar polsi e ginocchia,
desiderare la casa lontana.
Orsù, imbracciamo le armi e sul nemico
piombiam, come se fossimo un sol corpo.
Ora solenne è questa, ora fatale;
è l’ora in cui si compie il nostro fato,
in cui si vince insieme o si perisce,
si salvan libertà ed indipendenza
o si è ridotti tutti in schiavitù! »
« Uniti, come fossimo un sol corpo,
contro i Romani, orsù, marciam compatti,
per la Sardegna e per la libertà! »
gridarono, levando le armi al cielo,
i capi sardi ed i cartaginesi.
13
Udì quel grido tutta
la città
e grande fu la gioia e l’esultanza.
« Sardi e Cartaginesi » si gridò
« facile gioco avranno dei Romani
che il solo Iosto, con piccolo esercito,
ha percosso, umiliato e a vergognosa
fuga precipitosa ha poi costretto. »
Io sol, non ascoltata, sull’avviso
tentai di porre il popolo esultante.
« Non gioisca anzitempo il vostro cuore,
si attenda a dare sfogo all’esultanza
che sia maturo il frutto ancora acerbo »
gridai, ma la mia voce dalle urla
di gioia e d’allegria fu sommersa.
« Maturo è il frutto, è già dolce al
palato,
limpido è il cielo e ci sorride il sole.
Giorno di festa e d’allegria è questo,
foriero di vittoria! » urlavan tutti.
« Giorno di ansia e di trepida attesa,
e vigilia di eventi imprevedibili
è questo » io gridai, ma la mia voce
non ebbe effetto. « Chiari sono i segni »
mi si rispose « inviatici dal cielo.
Cartagine è con noi, come riemersa
dall’abisso del mare, e la vittoria
con i guerrieri punici è sicura. »
« Troppo spavaldi » osai io replicare
« sono i Cartaginesi ed arroganti,
guardan con bramosie le nostre figlie
ed hanno già adocchiato i nostri beni.
Son mercenari e in cerca di bottino,
ma pronti sempre a buttar via le armi
e a passare al nemico, per salvare
la loro vita e agli Inferi sfuggire.
Questo, forse, faranno pure qui,
perciò li temo al pari dei Romani. »
« Ci sono amici, come puoi temerli? »
udii una voce dietro alle mie spalle.
« Cartagine ci è amica » io risposi,
« ma non ci sono amici i mercenari
che vanno dietro a chi li paga meglio,
a chi promette più abbondante preda. »
Nessuno diede ascolto alla mia voce
e Cornus visse giorni nel tripudio.
14
Un sogno feci che ferì
il mio cuore
ed ancora rizzare sulla testa
mi fa i capelli e raggelare il sangue.
Limpido e azzurro era tutto il cielo;
non una nuvoletta ostacolava
ai caldi raggi del sole il cammino;
taceva il vento, ovunque era silenzio.
In una verdeggiante e sconfinata
pianura mi trovavo e gli occhi intorno
volgevo a me, stupita ed ammaliata
da sgargianti colori e da profumi
delicati stordita. In mezzo all’erba
ridente stavo, baciata dal sole;
estasiata danzavo e sorridevo;
ridevo, anzi, sospinta dalla gioia.
In mezzo all’erba ridevo e danzavo…
Un’ombra minacciosa, all’improvviso,
calò sopra di me e mi avvolse tutta,
oscurando del sole i caldi raggi,
gettando nel terror l’animo mio.
Sospeso in aria, enormi ali distese,
un mostro orrendo lunghi e acuminati
artigli dai villosi piedi estrasse
e su di me piombò pronto a ghermirmi
Il gelo scese in me e caddi bocconi,
con un urlo straziante. Mi rispose
l’orripilante mostro con un ghigno
beffardo e si tuffò su me bramoso.
Già disperavo, ormai, per la mia vita,
quando, superba, un’aquila nel cielo,
apparve in compagnia di uno sparviero.
Vide l’orrenda bestia i due e il volo
contro loro diresse senza indugio.
Fu subito ingaggiata un’aspra lotta:
strida agghiaccianti infransero il silenzio,
echeggiarono intorno ed una pioggia
si riversò di sangue sulla terra
che gemé inorridita al suo contatto.
Lungo tempo durò l’impari lotta,
con fasi alterne e dall’esito incerto:
aveva ora il mostro il sopravvento
sugli intrepidi uccelli ed ora questi
rintuzzavan gli assalti veementi
dell’orrenda creatura. All’improvviso
lontano volò via lo sparviero
dalla battaglia e si portò al sicuro.
Sola rimase l’aquila a far fronte,
con ardimento, al repellente mostro
e cadde, infine, senza vita al suolo,
straziata dagli artigli acuminati.
Di nuovo si tuffò sopra di me
l’orripilante bestia, con un ghigno
che secco rimbombò nel mio cervello.
Sentii penetrar dentro la carne
i suoi gelidi artigli e un urlo emisi.
Di soprassalto mi svegliai: tremavo
tutta, come una foglia, e avevo gli occhi
sbarrati dal terror, la testa in fiamme,
secca la gola da improvvisa arsura,
madido il corpo di sudore freddo.
Ancora tremo e sudo freddo ancora,
al ricordo di quel sogno angoscioso,
triste presagio all’imminente scontro.
« O Padre Sardan, grande Madre Terra »
implorai al risveglio, « menzognero
fate che si riveli il sogno mio.
A piè fermo sostenga lo sparviero
di Cartagine l’impeto di Roma,
non ceda le armi e non fugga lontano!
Sia questo un giorno d’allegria e di festa,
non già vigilia di funesto evento! »
Prepotente il ricordo si presenta…
15
Da poco era spuntata all’orizzonte
l’alba novella e, non del tutto sveglia,
lanciò alla terra il suo sguardo distratto.
Inorridì: due eserciti potenti
si preparavano a darsi battaglia.
Vide Manlio Torquato, i suoi assistenti
e Quinto Muzio parlottar tra loro.
« È questo il posto, è quello che cercavo
per lo scontro finale a viso aperto.
Non vi è ostacolo alcuno ad impedire
alla cavalleria di manovrare
con efficacia e a proprio piacimento;
qui non vi sono arbusti dove i Sardi
possan celarsi e agire impunemente.
Qui vincerà il valore, l’ardimento
avrà la meglio e ci assicurerà
la vittoria agognata » disse Manlio
ed ordinò, rivolto ai suoi ufficiali:
« Predisponete i ranghi, sì che pronti
sïano sempre a sostenere gli urti,
respingerli e passare al contrattacco.
Nessuno scordi l’onta che ha subito,
ma la riscatti col sangue nemico
versato a fiotti sul terreno amico.
Vendetta pur si faccia dell’oltraggio
che subiron Malleolo ed Emilio,
allorché depredati del bottino,
qui razziato ed all’Urbe destinato,
furon da questi barbari predoni,
non già guerrieri ma vili ladroni.
Qui si dovrà combatter la battaglia
che porrà fine alla speranza vana,
che questa gente nutre, di sottrarsi
al Fato che la vuol schiava di Roma.
E affinché la vittoria sia completa
voglio Amsicora vivo o la sua testa.
Ora ciascuno corra al proprio posto,
animo infonda e ardire ai suoi guerrieri. »
« Amsicora avrai vivo o la sua testa
ti porteremo infissa su una lancia »
promiser gli ufficiali a Tito Manlio
e ciascun corse al posto a lui assegnato.
« Sarà uno scontro duro e sanguinoso
e la vittoria, che ci arriderà,
sarà da noi pagata a caro prezzo »
Torquato confidò al pretore Muzio
che, di rimando, disse: « Una masnada
sembrano di sbandati e non guerrieri,
in procinto di dar battaglia, i Sardi.
Se non ci fossero i Cartaginesi
a dar loro man forte, in un baleno
verrebbero annientati e senza sforzo. »
« Non li conosci. Sono imprevedibili
e sanno che oggi, qui, il loro destino
si compirà » Torquato ribatté.
« Saran, pertanto, più che risoluti
e come belve ci contrasteranno,
senza nulla concederci, a piè fermo. »
È ancor fresco il ricordo nella mente…
16
Udì l’alba
novella le parole
del valoroso duce e volse gli occhi,
tristi e pensosi, all’altro schieramento.
Vide Amsicora e gli altri capi sardi,
con Asdrubale e suoi concittadini.
« Eccoli » disse Amsicora « i nemici
che si preparano a venirci addosso.
Son numerosi e sono bene armati,
sono agguerriti e, gonfi i cuor di rabbia,
opporranno una fiera resistenza,
non cederanno con facilità. »
« Le nostre forze unite avranno presto
ragione di un nemico ancor confuso,
che ancor non ha sanato le ferite
infertegli dal valoroso Iosto.
Su questo campo piegherà i ginocchi
ed umiliato implorerà mercé.
Ne son sicuro » Asdrubale affermò.
« È questo campo » Amsicora si espresse
« che non mi piace perché senza ostacoli
per la cavalleria che avrà buon gioco. »
« È gradito anche a noi » disse Magone.
« Saranno a loro agio i cavalieri
che con rapidità e sicurezza
manovrare potranno ed efficacia. »
« Pure la fanteria » intervenne Annone
« combatterà con impeto maggiore
e men pesante troverà lo scontro.
È il tipo di terreno adatto a noi,
che meglio si confà al nostro operare »
Asdrubale riprese. « Perché mai,
queste perplessità? Vien forse meno
il tuo coraggio, Amsicora, o l’impresa,
alla qual ci hai chiamati, or ti spaventa? »
Amsicora rispose: « Non vacilla
la volontà che sempre mi ha sorretto
e immutato è il coraggio. La prudenza
consiglia a non concedere al nemico
vantaggi e ad affrontarlo in condizioni
favorevoli a noi. Questo terreno
favorevole è a lui che se l’è scelto. »
« Va bene pure a noi » disse Magone.
« È per noi l’ideale » Anone aggiunse.
« Comunque sia, ormai più non possiamo
rifiutar la battaglia » disse Asdrubale.
« Sono impazienti cavalieri e fanti
d’impegnare il nemico corpo a corpo,
fremono baldanzosi e irrequieti
e rinviar lo scontro li indurrebbe
a pensare d’avere comandanti
paurosi e inetti o addirittura vili.
Tempo d’azione è questo, non d’indugi.
O più fiducia in noi non hai, Amsicora? »
« Il vostro aiuto mai avrei richiesto,
se così fosse, Asdrubale, ma il dubbio
che andar si possa incontro ad un disastro
per imprudenza o smania di combattere,
troppa spavalderia o leggerezza,
l’animo mio opprime e una migliore
condizione m’induce a ricercare »
rispose Amsicora al Cartaginese.
« Tempo di agire è questo, non di dubbi
ed ogni indugio può esserci fatale,
togliere può animosità agli armati. »
Così parlò Iosto al genitore,
al quale si rivolse Athen, dicendo:
« Son noti il tuo valore e il tuo coraggio,
riconosciuta è la tua abilità
di condottiero, al par della prudenza.
Quale sarebbe, dunque, il tuo pensiero?
quale consiglio, Amsicora, proponi? »
« Non dar battaglia su questo terreno… »
« È l’ideale! » Asdrubale interruppe
il condottiero sardo che riprese:
« …ma andare ad orïente, costringendo
le legioni romane ad inseguirci… »
« Vorresti tu condurci ad orïente,
verso le alte colline e le montagne? »
di nuovo Asdrubale interruppe Amsicora,
che riprese ad esporre il suo pensiero.
« …dove più aspro è il terreno, rigogliosa
è la vegetazione ed il nemico
manovrar non potrebbe a piacimento.
Facile preda diverrebbe allora
degli Iliesi, su quei territori
a loro pieno agio e mai battuti.
Persino i nostri armati alla leggera
facile gioco avrebbero e abbondanti
cadrebbero i Romani ai loro piedi. »
« E noi dovremmo far da spettatori?
Non abbiamo affrontato una difficile
e disastrosa traversata » disse
Annone « per restare qui inattivi. »
« Scelto il terreno, voi aggirereste
il nemico e, prendendolo alle spalle,
gli tagliereste ogni via di fuga »
Amsicora spiegò al Cartaginese.
« Siamo venuti qui per fronteggiare »
Asdrubale intervenne « a viso aperto
i Romani e non già come predoni.
Questo luogo per noi è l’ideale
e lo scontro, pertanto, qui avverrà
o scontro alcun per noi mai ci sarà. »
Disse Taras: « Amsicora, il tuo piano
non è realizzabile. I Romani,
già scottati una volta, capirebbero
ch’è una trappola e non abboccherebbero. »
« Non lo sapremo, se non tenteremo »
replicò il fiero condottier di Cornus.
« Abile e astuto è Manlio Torquato
e capirebbe subito il tuo piano.
In questo luogo, dunque, la battaglia
decisiva avverrà » sostenne Erailo.
« Or, su questo terreno! » disse Asdrubale.
« Vi vedo tutti dello stesso avviso »
si arrese infine, amareggiato, Amsicora.
« Così sia, dunque: su questo terreno,
delle nostre città e dei nostri popoli
si costruirà il futuro e, forse, qui
della stessa Cartagine il destino
gli dei decreteranno in questo giorno. »
« Così sarà, se lo vorran gli dei! »
disse Asdrubale ed il suo piano espose
per la battaglia: « Noi staremo al centro,
voi Sardi alle ali e la cavalleria… »
« Staremo noi al centro » lo interruppe
Amsicora, deciso. « Spetta a noi
far fronte agli agguerriti veterani
di Roma, a noi spezzar le loro linee.
Nostro il maggiore sforzo esser dovrà
perché nostra è la terra da difendere,
nostra la libertà da mantenere.
Alla carica primi i cavalieri
si lanceranno e porteran scompiglio,
scagliando giavellotti sui nemici
e ritirandosi immediatamente.
Starete voi alle ali ed i Romani,
con veemenza, presserete ai fianchi,
li aggirerete e, insiem, li chiuderemo
in un mortale abbraccio, senza scampo. »
« Sarà come tu vuoi. Andiamo, dunque,
le truppe a predisporre » disse il Calvo.
Seguiron gli altri capi il duce punico,
lasciando solo Amsicora che al cielo
alzò lo sguardo e si rivolse supplice.
17
« Il mio animo è
oppresso dall’angoscia;
sensazione di morte sul mio cuore
grava e aggirarsi sento, tutto intorno,
presenze ostili, spiriti malefici,
che gli amici e alleati miei confondono,
ne offuscano le menti, ne rapiscono
il senno e la battaglia ad ogni costo
li spingono a volere; giusto fanno
loro veder ciò che sbagliato è invece,
diritto ciò ch’è storto e bianco il nero;
li inducono a trovare vantaggioso
ciò che invece, al contrario, è sfavorevole.
Triste presagio è questo per lo scontro
ormai imminente. O Padre Sardan, tu
che dal lontano Oriente i nostri antichi
conducesti a quest’isola ospitale,
affrontando su fragili navigli
i perigliosi flutti del gran mare,
disperdi, tu, ogni spirito malefico,
sorreggi il nostro cuore e il nostro animo,
da’ prontezza e vigore al nostro braccio,
così che la tua terra, in mezzo al mare,
di libertà sia sempre faro e simbolo
per ogni gente che il suo capo a Roma
piegare mai vorrà. O Padre Sardan,
la tua gioventù guida in battaglia,
fa’ che i nemici il grido suo atterrisca,
li costringa alla fuga e li disperda!
Apriti tu, o grande Madre Terra,
al passaggio dei militi di Roma,
l’un dopo l’altro inghiottili e di loro
traccia non resti sul tuo sacro suolo! »
Mi rintrona la testa a quel ricordo…
18
Infuriò la battaglia
a tutto campo,
echeggiò il cielo di frastuoni e grida.
Sprigionando scintille, tutto il giorno
l’un contro l’altro i ferri s’incrociarono
e sibilanti giavellotti e dardi,
portatori di morte e di rovina,
l’aria fenderono oscurando il sole.
L’acre odore del sangue e del sudore,
versati a fiotti sull’arida terra,
diffuse il vento, quel fatale giorno.
Incrudelì ben presto la battaglia
e la mischia divenne furibonda:
da una parte e dall’altra si attaccò
con veemenza, con impeto ed ardore.
Gioventù contro gioventù lottò,
con ferocia e ardimento senza sosta;
vita si oppose a vita e richiamò
morte altra morte in rapida sequenza.
Odio e Amore si diedero battaglia
e spronò l’uno e l’altro i contendenti,
vigor diede alle membra, ardore ai petti.
Le porte tenne spalancate Ade,
per far fluire le anime smarrite
che si addensavano a nutrite frotte.
Gran festa fecero gli dei degli Inferi
per sì copiosa messe in un sol giorno!
Fremé la terra e il cielo si angustiò,
di fronte a tanta strage; di sgomento
entrambi colmi piansero le vite,
anzitempo spezzate e tolte ai cari,
di giovani nel fior dei loro anni.
Piansero a Cornus, piansero ad Othoca,
a Turris ed a Tharros; abbondanti
fluirono le lacrime e ai lamenti
s’abbandonaron madri, spose e bimbi,
mentre vagavan, cupi, per le vuote,
città gli anziani senza darsi pace.
Piansero a Roma per i legionari
che partirono allegri e baldanzosi,
sicuri d’una rapida conquista
e di tornare carichi di gloria
di bottino e di schiavi in abbondanza.
Pianser nelle città alleate di Roma,
lacrime si versarono a Cartagine...
Cartagine cedé il campo al nemico,
mentre infuriava ancora la battaglia
ed il suo esito appariva incerto:
deposero le armi i mercenari
ed in blocco passarono ai Romani,
consegnando perfino i loro capi.
Caddero nelle mani dei nemici
i cittadini punici Magone
e Annone col supremo duce Asdrubale.
Tito Manlio Torquato fu l’artefice
della svolta improvvisa dello scontro.
Freme ancora il mio cuore a quel ricordo…
19
Volgeva il giorno, ormai,
verso la fine:
il sole era già basso ad occidente
e le ombre si facevano più lunghe,
ma la battaglia infurïava ancora,
ancor si fronteggiavano i guerrieri,
seppure appesantiti e men scattanti.
Per ore ed ore, sotto il sol cocente,
l’un contro l’altro i due potenti eserciti,
a più riprese, si erano scagliati,
senza darsi riposo, senza tregua
concedersi e conceder, ma nessuno
era riuscito a far soccomber l’altro,
a frantumarne le serrate schiere.
Or l’uno or l’altro indietreggiava un poco,
per poi passar di nuovo al contrattacco
e costringere indietro l’avversario.
Per ore ed ore i condottieri sardi
– Erailo, Taras, Athen ed Amsicora –
premuto al centro avevan con ardore,
trascinando gli armati in un cruento
corpo a corpo coi truci veterani
di Roma, che incutevano paura
al sol guardarli; erano pur riusciti
alla fine ad aprirsi più d’un varco,
facendo il vuoto intorno e lo scompiglio
portando fra gli increduli Romani,
molti dei quali, colti da terrore,
si diedero alla fuga, travolgendo
perfin gli stessi lor commilitoni.
Vide Manlio Torquato ed ordinò
di disporre alle spalle delle schiere
arcieri pronti ad infilzar chiunque
si fosse allontanato dalla mischia.
« Muoia da traditore » disse Manlio
« chi al nemico la schiena volge e fugge »
e ai legionari chiese più ardimento,
più determinazione e più ferocia.
Fu in quel frangente che il duce romano,
fece ricorso ad uno stratagemma
per render vulnerabile il nemico:
la voce fece spargere alle ali
che la paga pattuita i mercenari
non avrebbero avuto da Cartagine
e che dai Sardi, in caso di vittoria,
senza pietà verrebber trucidati.
Bottino in abbondanza, invece, avuto
avrebbero se, abbandonate le armi,
si fosser ritirati dalla mischia.
Diedero credito alle false voci
i mercenari e, senza indugio alcuno,
si arresero ai Romani che, travolte
le ridotte residue truppe puniche,
chiusero i Sardi in una ferrea morsa.
Tardi si avvide Amsicora e, furente,
ai suoi guerrieri e agli alleati chiese
di spezzare la morsa e ripiegare
verso le alte colline e le montagne,
dove poter riorganizzar le file
e opporre resistenza all’invasore.
Tardivo giunse quel consiglio e Manlio,
pur con affanno, infine trionfò,
ma fu pesante il prezzo che pagò.
Dura fu la sconfitta per i Sardi
che in quello scontro persero i migliori,
tra i quali l’irruente e ardito Iosto.
Della sua morte si vantò un tal Ennio,
un oscuro ausilïario di Roma,
ma un gran poeta avvezzo a maneggiare,
più delle armi, stilo e tavolette.
Ahimè, triste è il ricordo di quel fatto
e il cuor mi spezza ancora della madre
il lamento, allorché seppe del figlio.
20
« Iosto, Iosto, figlio
mio diletto,
pupilla dei miei occhi, dolce frutto
della mia gioventù, gioia degli anni
della maturità e della vecchiaia
speranza, ahimè, per sempre ora perduta!
Vanto ed onor della città di Cornus!
Iosto, Iosto, un ben triste destino
ti ha rapito la vita, ti ha strappato
anzitempo all’affetto dei tuoi cari.
Giunge ancora al mio orecchio trepidante
il tuo primo vagito, sussultare
fanno ancora il mio cuor le tue risate
allegre di fanciullo spensierato.
Al par di un dio, nella tua armatura,
fiero mi appari ancora ed imponente.
Al par di un dio, tra la gioventù
della nostra città, tu primeggiavi;
dolci sogni cullavan le fanciulle
e di luce si empivan gli occhi loro,
batteva forte il cuor solo al vederti.
Iosto, Iosto, figlio mio diletto,
sogno spazzato via da un’improvvisa
bufera, non udrò più la tua voce,
soave musica alle mie orecchie.
Spento è per sempre il tuo grido di guerra!
Iosto, Iosto, il tuo riso schietto
più non riscalderà il petto mio.
Chi mai la vita mia riempirà?
Su chi potrà contare ormai la nostra
città smarrita; chi farà sognare
le fanciulle e brillare i loro occhi?
Sorgenti inesauribili di lacrime
sono i miei occhi ormai ed il mio cuore
trasuda sangue, oppresso dal dolore
per questo sventurato figlio, ahimè,
troppo presto strappato alle mie braccia
e alla città su cui triste futuro
incombe già... ed a suo padre Amsicora... »
21
Sfuggì alla ferrea
morsa dei Romani
Amsicora con pochi suoi guerrieri.
Si diresse di corsa verso Cornus,
per predisporla alla difesa estrema,
della morte del figlio ancora ignaro.
Aveva gonfio il cuore ed il cervello
si sentiva scoppiare dalla rabbia,
pensando a tanta gioventù invano
sacrificata a un ideale infranto.
« O Padre Sardan, grande Madre Terra »
urlava, dando sfogo al suo dolore,
« dov’erano posati i vostri sguardi
quando i prodi e infelici nostri giovani
incrociavano le armi coi feroci
invasori venuti d’oltre mare?
Dov’era il vostro cuor, dove la mente?
Avete abbandonato i vostri figli,
devoti e pii, ad un destin crudele;
lasciato avete che dei loro corpi
venisse perpetrato orrendo scempio.
Dov’eravate? O forse preferito
chinare il capo avete e sottostare
agli dei di Roma, anziché il braccio
sostenere, e il coraggio ed il vigore
moltiplicar di chi per voi impugnava
le armi e con ardore combatteva?
Questa è, dunque, la vostra ricompensa
a chi ripone in voi la sua fiducia? »
Amsicora correva verso Cornus,
accompagnato dai pochi guerrieri,
con l’animo in tumulto e il cuore a pezzi.
« Pianti ed urla di strazio e di dolore
si eleveranno al cielo alla funesta
notizia, in tutta la città » pensava.
« Madri, spose e bambini invocheranno
gli dei contro di me che li ho traditi,
ho condannato a morte i loro figli,
gli sposi e i padri in questo infausto giorno
ed ho schiavi di Roma reso loro.
Non riderà, però, neppure Roma
quando conoscerà il prezzo pagato
per imporre il suo giogo a questa terra,
né esulterà, finché nelle mie vene
scorrerà il sangue ed il mio braccio avrà
la vigoria per impugnare un’arma.
Non gioirà, fintanto che con me
avrò giovani arditi come Iosto. »
Era Amsicora ancora sulla via
per la sua amata Cornus, quando apprese
che il sole al figlio più non sorrideva.
Restò muto ed attonito e una fitta
sentì al cervello, al cuore ed ai polmoni.
Il cavallo arrestò e si volse intorno:
vide poco distante ergersi un picco,
vi si diresse e vi si arrampicò.
Ritto si pose sulla cima e al cielo,
alzando il braccio con la spada in pugno,
urlò: « Da questa terra un giorno, Roma,
parta un’orda di barbari feroci,
che le tue case metta a ferro e a fuoco! »
Nel cielo rimbombò terrificante
l’urlo sinistro, mentre egli il suo braccio
diresse contro sé ed il ferro immerse
nel proprio ventre, quindi cadde esangue.
22
Gioì Manlio Torquato
per la morte
del suo nemico e l’una dopo l’altra
le città, che gli opposer resistenza,
cinse d’assedio e in breve conquistò.
Cadde anche Cornus e fu rasa al suolo,
le sue rovine furono cosparse
di sale affinché più non risorgesse.
Roma credé d’imporre il suo dominio
sulla Sardegna tutta in breve tempo.
Non fu così. Le sue legioni sempre
Iliesi, Balari e Gallilesi
trovarono a sbarrare il lor cammino
verso l’interno, con le armi in pugno.
E per tenere a bada quelle genti,
chiamate barbare, un potente esercito
Roma costretta fu a tener sull’isola.
Un ben misero affare, Tito Manlio,
hai concluso quel giorno. La vittoria,
costata un caro prezzo, non pagò
le tante vite perse in questa terra
che molto più potuto dare a Roma
avrebbe come amica ed alleata,
anziché resa schiava e depredata.
Sorgeva un tempo una città felice…