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Intervista a Tore Patatu
su “Non potho reposare”, che Luigi Manconi, nel libro “La
musica è leggera”, giudica “una delle più belle
canzoni al mondo”
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Luigi Manconi,
nell’ultimo suo libro “La musica è leggera. Racconto
su mezzo secolo di canzoni”, scritto con Valentina Brinis, prefazione
di Sandro Veronesi (Milano, Il Saggiatore, aprile 2012, pp. 505), scrive:
«Sono almeno tre le “canzoni più belle del mondo”.
La prima è “Non potho reposare”. La seconda è
“Cade l’uliva”. La terza è “Ne me quitte
pas”».
Manconi, nato a Sassari nel febbraio 1948, ha lasciato la città
a 19 anni, nel settembre 1967, dopo aver frequentato il mitico Liceo-Ginnasio
“Domenico Alberto Azuni”, per iscriversi all’Università
Cattolica di Milano. “In continente” (prima a Milano, poi
a Roma) ha percorso, in campo nazionale, un prestigioso cursus honorum
giornalistico e politico, lontano peraltro da qualsiasi impegno nell’ambito
delle iniziative dell’associazionismo dei “nostalgici”
sardi emigrati. Diventa quindi difficile immaginare Manconi in preda a
sentimenti di valorizzazione “regionalistica” di un canto
in limba sarda (che, come lui stesso confessa con sincerità,
comprende ma non parla). Un dato è acquisito: uno dei maggiori
conoscitori della musica popolare italiana, come è indubitabilmente
Manconi, rivolto ad una platea nazionale, pronuncia un giudizio particolarmente
lusinghiero su “Non potho reposare”, senza essere influenzato
da un campanilistico orgoglio etno-linguistico-musicale.
Tore Patatu, tu conosci bene la storia di questa canzone, che Tonino Puddu
in Cantare la Sardegna (Cagliari, Della Torre, 1993, p. 145)
qualifica come «canto di tipo “romantico”, definito
da più parti la “classica serenata sarda”». Vorrei
che ci sintetizzassi questa storia.
«Il
titolo originale di questa canzone, che da sempre io (sardo, sempre residente
in Sardegna) ho giudicato di straordinaria bellezza, è A Diosa.
Il testo è stato scritto nel 1920 da Salvatore Francesco Sini [Badore],
avvocato e poeta di Sarule (nato nel 1873, morto a Nuoro nel 1954) e si
compone di nove sestine, cui ne seguono altre nove col titolo A Diosu.
Nel 1921, Giuseppe Rachel (di famiglia originaria di Parma, nato a Cagliari
nel 1858, morto a Nuoro nel 1937), allora direttore della banda musicale
di Nuoro, lo musicò, con gli esiti di successo che tutti oggi sappiamo.
Si racconta che, non essendo Sini iscritto alla SIAE, per non far perdere
i diritti d’autore a Rachel che aveva musicato il pezzo, il testo
sia stato registrato a nome di Max Leopold Wagner. Non so quanto ci sia
di vero in questo aneddoto curioso: bisognerebbe fare una ricerca presso
gli archivi della SIAE per stabilire definitivamente la verità
storica (se dagli atti di questa società dovesse risultare come
autore il famoso linguista tedesco, si potrebbe comunque essere contenti
che il massimo studioso della lingua sarda abbia percepito, finché
fu in vita, i diritti d’autore derivanti da un testo in limba, diritti
che ora appartengono allo Stato).
Il testo A Diosu inizia coi versi «Si tue non bi podes
riposare…», in risposta al non potho reposare
della precedente canzone, come se nella mente del poeta ci fosse l’intenzione
di comporre un dialogo poetico-musicale. Questo mi ha portato alla mente
un periodo degli anni Sessanta, quando era di moda incidere una canzone
cantata da un uomo e, subito dopo, sulle ali del successo di quella, un’altra
di risposta (a volte era addirittura contenuta nel lato B), cantata da
una donna. Ricordo, per es. Tell Laura I love her, cui seguì Tell
Tommy I miss him, sulla stessa musica. Oppure Please help me
i’m falling in love with you, e la donna rispondeva: I
can’t help you-I’m falling too.
Possiamo quindi affermare che noi sardi abbiamo preceduto gli americani
di almeno quarant’anni. Solo che noi eravamo molto più ottimisti,
in quanto Diosu (il Sini) si sposò con Diosa
ed ebbero tre o quattro figli, uno dei quali, Apollo Sini, già
pretore capo del tribunale di Sassari, è morto nel 2009. Aveva
più di ottant’anni.
Nelle due canzoni americane, invece (ce ne furono altre, però),
Tommy muore in una gara automobilistica, lasciando Laura afflitta …
e ricca (potere delle assicurazioni); la donna dell’altra canzone,
invece e purtroppo, era innamorata di un altro e non poteva certamente
aiutare il suo spasimante.
Viene spontaneo
chiederti, rifacendoci alla logica della Hit Parade, ripresa da Manconi
nel suo libro: chi ha dato la più importante esecuzione di “Non
potho reposare”, considerato che non c’è coro sardo
che non abbia questo pezzo nel suo repertorio?
«In origine
il pezzo è stato scritto per tenore e pianoforte. Banneddu Ruju,
direttore del Coro “Barbagia” di Nuoro, nel 1953 l’ha
armonizzato a quattro voci pari maschili e, incidendolo nel disco
Sardegna canta e prega nel 1966, lo ha “consegnato” alla
tradizione. Da allora, altri direttori hanno creato armonizzazioni più
o meno differenti.
Un’interpretazione eccellente ne danno il Coro di Nuoro,
il Coro Barbagia, Su Nugoresu, Sos canarjos, tutti di Nuoro;
direi che queste interpretazioni si equivalgono. Ma anche il Coro di Usini,
che l’ha eseguita – come ben sai – a Pavia nel novembre
2010, ne dà un’ottima interpretazione. L’importanza
e la differenza, nell’esecuzione tradizionale sarda a quattro voci
pari, la fa il solista del coro. Questa, oltre alla presenza della contra,
è la caratteristica che distingue un coro sardo dai cori delle
altre regioni.
Nei nostri cori la voce solista “comanda” l’esecuzione.
Le altre voci servono per abbellire il canto. Se un coro è costretto
ad eseguire un brano in assenza del solista titolare, il suo sostituto
“condizionerà” (non obbligatoriamente in senso negativo)
l’interpretazione di tutto il coro, con esiti sicuramente diversi,
pur mantenendo il tessuto polifonico identico.
Sotto il profilo strettamente polifonico coristico classico, la migliore
esecuzione di “Non potho reposare” è quella del Coro
“Luigi Canepa” di Sassari, che l’ha portata in giro
per il mondo, includendola anche in un CD (che io possiedo) destinato
al mercato giapponese. Si tratta, però, di un’armonizzazione
a sei voci dispari, che non ha niente a che fare con la tradizione sarda.
Ma la fama in Italia e all’estero è stata acquisita dal pezzo
anche grazie ai circoli degli emigrati sardi che invitavano e invitano
i cori a cantare. L’interpretazione, personale e appassionata, di
Maria Carta, ha fatto il resto. Tanto che Andrea Parodi, coi Tazenda,
sulle ali del successo riportato a Sanremo con la canzone Spunta la
luna dal monte, cantata con Pierangelo Bertoli, la inserì
nel suo repertorio e, così, A Diosa divenne un successo internazionale.
Esistono interpretazioni di Anna Oxa, Pierangelo Bertoli, Gianna Nannini
e altri. Io, nel mio peregrinare, l’ho sentita a Grenoble, a Barcellona,
a Tuenno (TN), a Spresiano (TV), a Trento, ad Aosta, in Svizzera, in Belgio
ecc. eseguita sempre da gruppi del luogo.
Non c’è anno in cui qualche direttore di coro della penisola
non mi scriva, chiedendomi lo spartito di questo componimento. Nel 2010,
per esempio, è toccato a un coro toscano di Foiano della Chiana
(AR).
Ovviamente queste ultime esecuzioni citate sono quasi esclusivamente commerciali,
per cui penso siano prive di autorevolezza. Se si valuta il brano un pezzo
di musica leggera, io metterei al primo posto l’interpretazione
accorata di Andrea Parodi.
Tore, facciamo
un po’ di amarcord.
Io sono stato compagno di classe di Luigi Manconi per i cinque anni di
ginnasio e liceo nell’ “Azuni” di Sassari. Quando facemmo,
nel settembre 1967, il viaggio in nave Porto Torres-Genova rievocato nel
libro, insieme a Manconi (che era accompagnato dal padre) c’eravamo,
io, Bruno Paba, Giampiero Uneddu e Federico Francioni. Fermatosi Luigi
col padre a Genova “per l’acquisto di un misterioso indumento
chiamato K2” (per sopportare il freddo di Milano, dove Luigi si
era iscritto all’Università Cattolica), proseguimmo in treno
per Milano io e Bruno (Università Statale), Giampiero (Politecnico);
Federico fu con noi solo fino a Pavia (era iscritto a quella Università).
Anche a Milano ovviamente ci furono momenti di incontro negli anni delle
manifestazioni studentesche del Sessantotto e oltre, ma ovviamente non
più frequentazione assidua (Luigi abitava in città, seguiva
i corsi di Sociologia in “Cattolica” ed era esponente di rilievo
di “Lotta continua”; io, in Collegio a Sesto San Giovanni
con Bruno, seguivo i corsi di Lettere Moderne in “Statale”,
ed ero semplice militante “di base” del Movimento Studentesco).
Naturalmente mi erano note, in maniera diretta o indiretta (tramite Bruno
Paba), le vicende del Manconi milanese che oggi lui racconta nel libro.
Tu, originario di Chiaramonti ma dal 1972 residente a Sassari, quando
hai conosciuto per la prima volta il tuo “concittadino” Luigi
Manconi?
«Ho conosciuto
Luigi Manconi in occasione di una sua visita, da sottosegretario di Stato
alla Giustizia, al carcere sassarese di San Sebastiano, dove la direzione
aveva organizzato uno spettacolo, che io ho presentato. C’erano
tutte le personalità del luogo, dal sindaco alla presidente della
Provincia, all’arcivescovo, ai militari, ecc. Credo che Manconi
non si ricordi di me, non presentava certo Pippo Baudo… ».
Per finire l’amarcord
e questa intervista, io ho visto di persona la compagna di Luigi, Bianca
Berlinguer (nel libro è citata solo per nome), in Sardegna, nel
febbraio 1993, quando feci parte di una delegazione di emigrati dei Circoli
sardi della Lombardia che portò la propria solidarietà ai
lavoratori delle fabbriche sarde in lotta per la difesa del posto di lavoro.
Lei venne a fare un servizio per il TG3 a Sant’Antioco, e, presso
la fabbrica Sardamag, come rappresentante della delegazione, intervistò
Giuseppe Lai, del Circolo di Cesano Boscone.
Tu invece – so – hai ricordi ben più significativi,
non solo di Bianca…
«Quando fui
guardia del corpo del padre Enrico – estate del 1972 e del 1973
– Bianca era alle scuole medie e Marco, suo fratello (doveva avere
allora otto o nove anni), mi chiamava Patatù-Tex Willer, perché
avevo portato un paio di volte lui e i suoi amici a “rubare”
fichi in una vigna abbandonata da chissà quanto tempo, facendogli
credere che il padrone era in agguato e noi “coraggiosi” eravamo
riusciti, con un piano ben congegnato, ad eludere la sua sorveglianza.
Ricordo che il prozio Aldo Berlinguer, al quale Marco e un suo compagnetto
avevano imprudentemente offerto il frutto del maltolto, si arrabbiò
molto con me che avevo “istigato” i bambini all’illegalità
(era un integerrimo uomo di legge). Ma il giorno dopo m’incontrò
e scoppiò a ridere, in quanto il figlio Franco, nel frattempo,
gli aveva raccontato “la veridicità dei fatti”. Enrico
non lo seppe mai».
(04-05-2012) |