////////////////////////////
Significato storico
e valore culturale per gli emigrati
de “Sa Die de sa Sardigna”, festa del popolo sardo
//////////////////////////////
Si possono
seguire diversi approcci per celebrare “Sa Die de sa Sardigna”,
“la festa del popolo sardo” fissata per il 28 aprile dalla
legge n. 44 della Regione Autonoma della Sardegna del 14 settembre 1993,
in ricordo del 28 aprile 1794, data della storica cacciata pacifica (il
cosiddetto “scommiato”) dei piemontesi dalla Sardegna nell’ambito
dei moti antifeudali del triennio rivoluzionario sardo (1793-1796).
La data del 28 aprile 1794 riveste un profondo significato storico nell’itinerario
che segna le tappe dell’anelito alla libertà civile e all’autonomia
politica da parte del popolo sardo; ma ha anche una grande valenza simbolica
e culturale perché costituisce per i sardi il momento fondante
(trasfigurato giustamente anche in mito) di un’unità interna
contro l’oppressore “esterno”, “estraneo”,
quindi “straniero”.
Quel giorno, conosciuto come quello dell’“emozione popolare”,
i cagliaritani in rivolta accompagnarono pacificamente ma con fermezza
sulle navi i piemontesi (compreso il viceré) che avevano preso
possesso dell’isola dando così realizzazione concreta al
potere dei diversi viceré inviati dai duchi di Savoia, principi
di Piemonte, a cui la Sardegna era stata ceduta dall’Austria in
virtù del trattato di Londra del 1718 e del successivo trattato
dell’Aia del 1720.
Si può fare riferimento ad alcuni aneddoti, che spesso fanno comprendere
il quadro di una situazione meglio di una serie di informazioni ben strutturate.
I piemontesi non erano granché rispettosi della dignità
dei sardi, a tal punto che li definivano, senza tortuosi giri di parole,
“molenti” (asini). Gli storici riportano una poco poetica
quartina in voga presso i funzionari che circondavano il viceré:
«Tirilì, tirilì, crepino i sardi/ noi piemontesi
restiamo qui/ tirilà, tirilà, crepino i sardi/ noi piemontesi
restiamo qua».
I popolani di Cagliari non operarono alcuna rapina sui cospicui vettovagliamenti
che i piemontesi caricarono nelle stive (gli storici riferiscono che il
macellaio Francesco Leccis convinse la folla in agitazione a non saccheggiare
i bauli dei piemontesi con queste parole: «Lasciateli andare, che
i sardi benché poveri non han bisogno della M… dei Piemontesi!»).
Tutti sanno del metodo usato dai cagliaritani per distinguere i piemontesi:
in caso di dubbio li si interrogava e risultavano naturalmente quelli
non in grado di pronunciare correttamente la parola cìxiri (ceci).
Questa tecnica era già stata adottata in Sicilia secoli prima,
al tempo dei Vespri siciliani (30 marzo 1282), per riconoscere i francesi.
Riferisce Leonardo Vigo (in Cenno sui canti popolari storico-politici
della Sicilia, 1874) riprendendo quanto scrive Michele Amari in La
Guerra del Vespro siciliano: «Narra la tradizione che il suon
d’una voce fu la dura prova onde scerneansi in quel macello i francesi
(…); e che se avveniasi nel popolo un sospetto o mal noto, sforzavanlo
col ferro in gola a profferir ciciri, e al sibilo dell’accento straniero
spacciavanlo».
Detto in poesia: «Cui n’arrispunni chichiri sfacemu/ Cchiù
megghiu morti ca fami e tormenti».
Con la variante: «Cui non sa diri ciciri strudemu/ E li picchiali
di ssa mala genti/ Salati ’n Francia cci li manniremu».
Ma torniamo alla Sardegna. La protesta dei cagliaritani, a nome di tutti
sardi, come si sa, aveva per bersaglio il trattamento offensivo che era
stato riservato ai miliziani sardi che pure qualche anno prima avevano
difeso sia Cagliari sia La Maddalena (tra gli assedianti di quest’ultima
c’era anche il giovane Napoleone Bonaparte) dagli attacchi dei francesi,
peraltro animati dal sacro desiderio di esportare le liberatrici idee
della rivoluzione cominciata il 14 luglio 1789 (altra data che ha dato
origine a una festa nazionale!) con l’assalto della Bastiglia.
Senza quella spontanea difesa, dettata però dal vincolo di fedeltà
che era stato giurato a casa Savoia, il feudalesimo in Sardegna sarebbe
stato abbattuto 50 anni prima di quanto poi storicamente avvenne. Ma quella
prova di unità servì comunque al popolo sardo appena prese
coscienza che la necessità di lottare contro i feudatari diventava
più urgente proprio alla luce delle umiliazioni subìte in
cambio beffardo dello spontaneo comportamento leale.
Ha scritto Girolamo Sotgiu: «Seguendo le indicazioni del viceré
Balbiano, le onorificenze militari furono accordate, con evidente ingiustizia,
alle truppe regolari, che avevano dato così misera prova di sé.
[…] Alla Sardegna, che aveva conservato alla dinastia il regno,
venne concessa ben povera cosa: 24 doti da 60 scudi da distribuire ogni
anno per sorteggio tra le zitelle povere e l’istituzione di quattro
posti gratuiti nel Collegio dei nobili di Cagliari; e altre simili miserie».
Per non parlare dei modi offensivi con cui era stata elusa la risposta
alle famose cinque richieste fondamentali rivolte dagli Stamenti sardi
al re Vittorio Amedeo III: 1) convocazione delle Corti Generali per trattare
gli oggetti di pubblico bene; 2) conferma di tutte le leggi, consuetudini
e privilegi, anche di quelli non più in uso, in modo da avere un
corpus legislativo che tenesse conto della tradizione e degli usi; 3)
riserva degli impieghi per i sardi; 4) costituzione di un Consiglio di
Stato per evitare il potere indiscriminato del viceré; 5) nomina
di uno specifico ministero che si occupasse degli affari della Sardegna
presso la corte di Torino. Si tenga conto, inoltre, che, volendo la corte
piemontese sottolineare l’inesistenza della nazione sarda, le risposte
elusive erano state date direttamente al viceré e non agli ambasciatori
(per questo ha potuto commentare lo storico sardo Giuseppe Manno: «da
ambasciatori senza parola, erano poi anche riusciti messaggeri senza risposta»).
In questo contesto rivoluzionario (c’è ancora qualche storico
dei nostri giorni che non si vergogna di definire «torbidi»
– facendo ricorso a un lessico di tipo giudiziario privilegiante
il punto di vista piemontese – quei sommovimenti che videro protagonista
l'autocoscienza nazionale del popolo sardo) è d’ obbligo
la citazione di due nomi: Francesco Ignazio Mannu (autore della Marsigliese
sarda, il canto “Su patriottu sardu a sos feudatarios”,
che comincia con versi che non possono essere equivocati: «Procurad’
’e moderare,/ barones, sa tirannia;/ Chi si no, pro vida mia, /
torrades a pe’ in terra !/ Declarada e’ già sa gherra
/ contra de sa prepotenzia,/ e cominza sa passienzia/ in su pobulu a faltare/»
«Cercate di moderare, baroni, la tirannia; se no, per vita mia,
ruzzolerete a terra! Dichiarata è la guerra contro la prepotenza
e sta la pazienza nel popolo per mancare») e soprattutto Giommaria
Angioy, nato a Bono il 21 ottobre 1751, pervenuto fino alla carica di
giudice della Reale Udienza, definito da qualche studioso «il più
illustre martire laico sardo», protagonista dei moti antifeudali
del triennio rivoluzionario sardo (1793-1796).
Angioy, inviato nel febbraio 1796 a Sassari come Alternos (vicario)
del viceré, si mise a capo di un movimento antifeudale. Ecco come
Giovanni Spano, in un saggio storico del 1875 intitolato La rivoluzione
di Bono del 1796 e la spedizione militare (opportunamente ristampato
qualche anno fa dal Comune di Bono), riassume il senso della vicenda nella
prima pagina dello scritto: «Nel 3 febbrajo 1796 Angioy fu mandato
dal viceré Filippo Vivalda, e dagli Stamenti Sardi, nella qualità
di Alternos, per sedare i tumulti del Capo settentrionale dell’Isola,
e specialmente del Logudoro, dove più di 40 villaggi si erano confederati
per abbattere l’orrendo mostro del feudalesimo. Ma egli, esaminando
da vicino le crudeli vessazioni, le soperchierie dei ministri, che vi
mandavano i Feudatarii, e gli abusi, in vece di rappaciare le popolazioni,
si diede ad avvalorare le giuste aspirazioni delle medesime per l’emancipazione
feudale che da tempo chiedevano».
Il movimento antifeudale guidato da Angioy fu fermato dall’armistizio
di Cherasco e dalla successiva pace di Parigi (1796) tra il Piemonte e
la Francia. L'eroe della rivoluzione nazionale sarda fu così costretto
a fuggire in Francia, dove visse in esilio – aiutando chi aveva
bisogno tanto da ridursi in completa miseria – fino alla morte,
sopraggiunta il 23 febbraio 1808, a 57 anni. Purtroppo la sua tomba non
è stata ritrovata in alcun cimitero parigino.
Personalmente giudico positivamente il fatto che oggi il popolo sardo
(e all’interno di esso la parte cospicua costituita dagli emigrati
nell’Italia continentale e nel resto del mondo) ha una sua specifica
festa, che è sentita e vissuta come tale (e non solo perché
è una giornata di vacanza per le scuole in Sardegna) più
di quanto non fosse fino a qualche anno fa quella valida, per così
dire, per gli “addetti ai lavori”, cioè il 26 febbraio,
per ricordare la data in cui fu promulgato lo Statuto speciale della Sardegna,
cioè il 26 febbraio 1948.
Così come la volontà unitaria di autonomia, di autogoverno,
di non essere etero-diretti, affermata in quelle giornate, ha dato esito
positivo al “vespro sardo” (come lo storico Federico Francioni
ha definito gli avvenimenti del 1794); allo stesso modo oggi qualsiasi
progettualità politico-culturale applicata alla Sardegna, se non
vuole rischiare di essere respinta perché calata dall’alto,
deve coinvolgere l’intero popolo sardo, compresa la parte di esso
che vive fuori dell’isola. A me piace dire che gli ambasciatori
in servizio permanente effettivo della cultura, della storia, dell’economia
della Sardegna, quali sono effettivamente gli emigrati, metaforicamente
vogliono rappresentare uno dei quattro mori, finalmente senza benda sugli
occhi, che compaiono nello stendardo sardo.
Posso rammentare, a questo proposito, le parole d’ordine degli ultimi
quattro Congressi della FASI: a Olbia, nel 1998, “I sardi nel mondo:
una risorsa - culturale ed economica - per la Sardegna”; a Genova,
nel marzo 2002, “Cultura, identità, partecipazione”;
a Milano, nel giugno 2006, “I sardi nel mondo: una rete per la conoscenza
e l’innovazione”; ad Abano Terme (Padova), nell’ottobre
2011, “Progettare il futuro. Il contributo dei sardi nel mondo ai
tempi della crisi”.
Non c’è dubbio che i sardi emigrati hanno onorato degnamente,
fin dalla istituzione, “Sa Die de sa Sardigna”. Si tratta
ora, sia da parte dei sardi residenti che da parte degli emigrati, di
avanzare delle proposte che servano a rendere sempre più distinta,
solenne, nodida, questa festa.
Stabilire “Sa Die de sa Sardigna” significa sicuramente scegliere
come data della festa del popolo sardo una giornata specifica della storia
della liberazione della Sardegna. Indubbiamente vuol dire però
anche individuare un momento storico in cui, dal buio della notte
dell’oppressione, si passa alla luce di un giorno di liberazione
e quindi di espressione.
(17-04-2012)
=====================================
tradutzione in limba
sarda de Cristoforo Puddu
Significadu istoricu
e valore culturale pro sos disterrados
de “Sa Die de sa Sardigna”, festa de su populu sardu
Si poden impreare
diversos modos pro contivizare e bagadiare “Sa Die de sa Sardigna”,
“sa festa de su populu sardu” istabbilida pro su 28 aprile
dae sa leze n. 44 de sa Rezone Sardigna de su 14 de cabidanni 1993, in
ammentu de su 28 abrile 1794, die de s’istorica illertida pachiosa
(il cosiddetto “scommiato”) de sos piemontesos dae
Sardigna in sa tessidura de sos motos antifeudales, cumpridos in su trienniu
revolutzionariu sardu (1793-1796).
Sa data de su 28 abrile 1794 incamedhat unu sinnu fungudu de balia istorica
in s’andala e abbojos ch’irvilupan s’anelu a sa libertade
tzivile e a s’autonomia in s’animu de su populu sardu; sinnale
mannu, simbolicu e culturale, ue totu sos sardos an potidu imberghere
a upu prenu in s’unidade e raighina de sardidade pro cuntrastare
s’addongadura “forana”, “istranza”, duncas
“furistera”.
Cussa die, connota comente momentu de “emozione popolare”,
sos castedhajos in cuntierra acumpanzan in modu pachiosu, ma cun ladina
fieresa e firmesa, sos piemontesos (umpare a su viceré) a sas naes;
totu zente furistera chi aiat leadu poderiu e guvernu de s’isula
dae candho s’Austria aiat tzedidu sa Sardigna a sos Savoia cun sos
tratados de Londra (1718) e de s’Aia (1720).
Pro cumprendher menzus cussas dies, bastat de leare in cunsideru carchi
fatu. Sos piemontesos no fin pro nudha rispetosos de sa dignidade de sas
pessones sardas e, chentza imboligos o impreu de ateras peraulas, los
cramaian “molenti”. Sos istoricos aporrin s’ammentu
de una quartina impreada dae sos funzionarios de su viceré: «Tirilì,
tirilì, crepino i sardi/ noi piemontesi restiamo quì/ tirilà,
tirilà, crepino i sardi/ noi piemontesi restiamo quà».
Sos populanos de Castedhu no atrivin peruna bardana o fura a su brenussiu
de benes chi sos piemontesos garrigan a sas naes (sos istoricos arrelatan
chi su masellaju Frantziscu Leccis cumbinchet s’atrupamentu de zente
in buluzu a no aungrare sos cassiones de sos piemontesos, cun custas peraulas:
«Lassadelos andare, fintzas si mascamente poberos sos sardos no
an tzertu bisonzu de su ledamine de sos Piemontesos!»).
Totu ischin de sa manera impreada dae sos castedhajos pro distinghere
e sedatare sos piemontesos: in casu de dubbiu beniat fatu s’interrogu
e acraradu si fin capatzos de pronuntziare in modu perfetu sa peraula
campidanesa cixiri.
Custa tennica fit bistada pratigada in Sitzilia, a su tempus de sos Vespri
siciliani (30 martu 1282), pro reconnoschere sos frantzesos. […]
Ma torrendhe a sa Sardigna. S’abbogu de sos castedhajos, a numene
de totu sos sardos, aiat pro bressallu su tratonzu metzanu e ofendhidore
chi fit bistadu aparitzadu a sos milizianos sardos, chi carchi annu prima
aian difesu siat Castedhu chi Sa Maddalena (a s’assitiamentu de
cust’urtima bi fit fintzas su zovanu Napoleone Bonaparte) dae sos
atacos frantzesos, animosos de difundhere sos ideales de liertade revolutzionaria
comintzada su 14 de triulas 1789 (atera die nodida chi at intzendradu
una festa natzionale!) cun s’assartu de sa Bastiglia.
Chentza cussa defensa, cumprida pro onorare su vinculu de fidelidade zurada
a sos Savoia, su feudalesimu in Sardigna fit bistadu israighinadu nessi
50 annos a prima de cantu istoricamente s’est abberadu. Ma cussa
proa de unidade est serbida a su populu sardu candho, leada cussentzia,
at cumpresu sa netzessidade de dever gherrare contra sos feudatarios chi
los fin afachilendhe; contra chie no aiat reconnotu, o cherfidu cumprendher,
su cumportamentu sincheru e s’impignu leale de sos sardos.
At iscritu Ziromine Sotgiu: «Seguendo le indicazioni del viceré
Balbiano, le onorificenze militari furono accordate, con evidente ingiustizia,
alle truppe regolari, che avevano dato così misera prova di sé.
[…] Alla Sardegna, che aveva conservato alla dinastia il regno,
venne concessa ben povera cosa: 24 doti da 60 scudi da distribuire ogni
anno per sorteggio tra le zitelle povere e l’istituzione di quattro
posti gratuiti nel Collegio dei nobili di Cagliari; altre simili miserie».
Ateru est faedhare de s’ofesa inferta a sos sardos dae su re Vittoriu
Amedeu III, chi no at dadu segurtade a sas chimbe preguntas de sos Istamentos:
1) adunantzia de sas Cortes Zenerales pro tratare argumentos chi pertocan
bisonzos pubbricos; 2) cunfirma de totu sas lezes de costuma; 3) asserbare
fainas e impreos pro sos sardos; 4) costitutzione de un Consizu de Istadu
pro miminare su podere ismisuradu de su viceré; 5) nomina de unu
ministeriu de amparu a sos afarios de Sardigna in sa corte de Torinu.
Sa corte piemontesa in cussa ocasione, no riconnoschindhe sa possibilidade
de esistentzia de sa Natzione Sarda, rispondhet palabala-costagosta a
su viceré e no a sos imbasciadores sardos (custu faghet cummentare
a s’istoricu Zusepe Manno: «da ambasciatori senza parola,
erano poi anche riusciti messaggeri senza risposta»).
In custu cuntestu revolutzionariu (carchi istoricu de oe faedhat de cussos
tempos – in modu birgonzosu! – comente dies de “trugliu
e buluzu”; sendhe chi tocat de lezere s’obera de unu movimentu
chi faghet s’istoria cun cussentzia de populu) est obbrigu su fontomu
de duos numenes: Frantziscu Innatziu Mannu (poete de sa Marsigliese sarda,
sa cantone “Su patriottu sardu a sos feudatarios”, chi cominzat
cun sos craros versos: «Procurad’ ’e moderare/ barones,
sa tirannia;/ Chi si no, pro vida mia,/ torrades a pe’ in terra!/
Declarada e’ già sa gherra/ contra de sa prepotenzia,/ e
cominza sa passienzia/ in su pobulu a faltare!») e mascamente Zommaria
Angioy, naschidu a Bono su 21 santuaini 1751, supridu fintzas a s’ingarrigu
de zuighe de sa Reale Udientzia, definidu da carchi istudiosu istoricu
«su prus famadu martire laicu sardu», protagonista de importu
mannu pro sos motos antifeudales de su trienniu revolutzionariu sardu
(1793-1796).
Angioy, imbiadu in su frearzu 1796 a Tatari comente Alternos de
su viceré, s’est postu a ghia de unu movimentu antifeudale.
Eallu comente Zuanne Ispanu, in d’una proa istorica de su 1875 intitulada
La rivoluzione di Bono del 1796 e la spedizione militare (imprentada
carchi annu faghet dae su Comunu de Bono) regoglit su sensu de sa vitzenda
zà in sa prima pazina de s’iscritu: «Nel 3 febbraio
1796 Angioy fu mandato dal viceré Filippo Vivalda, e dagli Stamenti
Sardi, nella qualità di Alternos, per sedare i tumulti
del Capo settentrionale dell’Isola, e specialmente del Logudoro,
dove più di 40 villaggi si erano confederati per abbattere l’orrendo
mostro del feudalesimo. Ma egli, esaminando da vicino le crudeli vessazioni,
le soperchierie dei ministri, che vi mandavano i Feudatari, e gli abusi,
in vece di rappaciare le popolazioni, si diede ad avvalorare le giuste
aspirazioni delle medesime per l’emancipazione feudale che da tempo
chiedevano».
Su movimentu antifeudale conduidu dae Angioy est bistadu firmadu dae s’armistitziu
de Cherasco e dae sa paghe de Parizi (1796) tra su Piemonte e sa Frantza.
S’eroe de sa revolutzione natzionale sarda custretu a fuire in Frantza,
ue est vividu in esiliu – atzuendhe cantos aian bisonzu, tantu de
si reduere in povertade – fintzas a sa morte, bennida su 23 frearzu
1808, a 57 annos. In perunu campusantu parizinu est bistada agatada sa
losa sua.
Zudigo cosa manna e de importu chi oe su populu sardu (cun sos disterrados
de s’Italia continentale e de totu su mundhu) reconnoscan custa
die nodida e de festa pro ammentare unu de sos periodos istoricos prus
artos de significadu e idealidades; fintzas meda prus de su 26 frearzu
1948, die ammentada pro sa pubbricatzione chi reconnoschiat s’Istatutu
Ispetziale pro sa Sardigna. Sa lessione de s’istoria nos at imparadu
chi, comente in cussas dies de su 1794, sas conchistas e diritos no benin
in donu e si poden otennere solu cun su contribbutu unitariu de su populu
sardu: duncas umpare a totu sos disterrados de Sardigna, chi metaforicamente
vogliono rappresentare uno dei quattro mori, finalmente senza benda sugli
occhi, che compaiono nello stendardo sardo.
(17-04-2012)
|