Un
grande poeta contro l’Arcadia dentro il Novecento
Un libro che finalmente raccoglie tutte le poesie di Benvenuto Lobina
(«Passus», Ilisso, pp.184, 11 euro) chiarisce anche la
questione di ciò che è sardo o meno in letteratura.
Nel
senso che trascende l’oziosità del tema facendoci concentrare
su ciò che in letteratura è vivo e ciò che è
morto. In Sardegna, nel mondo, in una delle migliaia di lingue che
si parlano, in quelle scomparse, in quelle che svaniranno, in quelle
che si prova a tenere in vita. Qualunque certificato d’anagrafe
o di residenza - di scrittore, scrivente o lettore - si abbia in tasca.
Certo non è secondario che il poeta si esprimesse in sardo.
Ma ciò pare l’esito di un’immanenza: si tratta
insomma di una scrittura - di un uomo, di una vita - tutta dentro
il Novecento (anche nella sua evoluzione stilistica: per questo stupisce
l’assenza nel volume di riferimenti cronologici - almeno presunti
- dei componimenti).
Un Novecento ideologico e poetico più che biografico, come
pure risulta dalla ricca prefazione della curatrice Anna Serra Lobina.
La quale ci regala dell’autore un meraviglioso auto-epitaffio
scritto - guarda un po’ - in italiano: «Se sapessi / libere
da ogni pena / le persone che amo, / scenderei fischiettando nella
fossa / (nudo, naturalmente), / mi stenderei sul fondo e griderei
/ “Terra! Buttate giù la terra!”».
A ragione nella nota critica Maurizio Virdis scrive di lirismo epico.
Villanovatulo è là, con le sue foreste, i cavalli, le
case basse con una sola porta e una sola finestra sbilenca, i muri
di pietra viva. «Sa ‘idda ‘e perda bia: Biddanoa»,
«microcosmo e patria affettiva da cui poi si diparte una visione
che va ad abbracciare l’intera Sardegna in una considerazione
emotiva, morale e, almeno latamente, politica»: in virtù
di un raffronto fra il passato e il presente, fra «la serenità
inconsapevole d’antan e la consapevolezza dell’òmini
che fanno scattare la molla epica» (Virdis). «Mi zérrias,
/ terra, cun i sa’oxi serregada, / sa’oxi de s’aradori
verenau / chi àra’ cun dua’ bàccasa stasias
/ cungiadeddu perdosus; / sa’oxi ‘e su pastori cun sa
cara / segàda ‘e sa stracìa / in is pranus tuus
fridus; / cun sa’oxi mi zèrrias / de féminas tribulliadas
/ totu sa vida ‘estia’ de nieddu; / cun sa’oxi de
su trenu / chi è sighendu ancora a ndi pigai / sa mellu giovéntudi».
(«Ohi, custa ‘oxi»: Mi chiami, / terra, con la voce
roca, / la voce dell’aratore invelenito / che ara con due vacche
macilente / campicelli pietrosi; / la voce del pastore con il viso
/ sferzato dai piovaschi / dei tuoi freddi altipiani; / con la voce
mi chiami / di donne tribolate / tutta la vita vestite di nero; /
con la voce del treno / che seguita a portar via / la meglio gioventù).
Quel treno che alla fine dell’800 rappresentò il primo
vero cambiamento nei territori tra il Sarcidano e l’Ogliastra,
novità da favola ancora ai tempi di Lobina bambino, è
il treno degli emigrati («O maladittu trenu ‘e ‘idda
mia, / cantu genti ‘ndasi pigau»: o maledetto treno del
mio paese, / quanta gente hai portato via) ma anche quello del ritorno
(«e fùmia’ su trenu chi s’incara’ /
de ‘ucca ‘e galleria ‘e Su Casteddu»: e fuma
il treno che si affaccia / dalla galleria di Su Casteddu). È
il treno che riporterà a casa i giovani morti in una lontana
miniera di carbone, ma anche quello di un’impossibile fuga da
sé e dalla propria consapevole ossessione del ritorno: «Trenu,
/ pantàsima niedda, / abettamì, / abettamì»
(Treno, / nero fantasma / aspettami, / aspettami). Soprattutto («No
m’arrechèdi’ nì pani») è un
treno ‘cinematografico’ che al tempo delle disillusioni
- o al crepuscolo dell’esistenza - porterà in qualche
luogo triste: «E in callincunu lugu tristu su capustazioni Conchemortu
/ ad’essi abettendumì, passillendu accanta ‘e su
trenu. / (Sa notti scoriosa, su scaccia qua nieddu, / sa luxi ‘e
su lantioni, sa strossa, s’arrellogiu)». (E in qualche
luogo triste il capostazione Testadimorto / certo starà ad
attendermi passeggiando vicino al treno. / - La notte tenebrosa, l’incerata
lucida e nera, / la luce della lanterna, lo scroscio, l’orologio
-).C’è quella poesia di Bertolt Brecht - «Il fumo»
- che inquadra una casetta su un lago, sotto gli alberi, con un filo
di fumo che sale dal camino. Se quel fumo non ci fosse, «quanto
tristi, allora / casa, alberi e lago».
Il fumo di Brecht è il treno di Lobina. È ciò
che trascende l’autobiografia, che scongiura (definitivamente,
per la poesia in sardo) la nostalgia dell’arcadia, che consente
all’autore di plasmare il proprio tempo perduto in forma di
dono.
(Sante Maurizi - 01 febbraio 2011 — pagina 34 sezione: Spettacolo)
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