MAMUTHONES e ISSOHADORES Fra le manifestazioni degli usi e costumi popolari della Sardegna la più significativa e la più ricca di ricordi arcaici è quella che i pastori e i contadini della Barbagia chiamano "SOS MAMUTHONES" e "SOS ISSOHADORES" di Mamoiada, due figure che si esibiscono insieme ma sono ben distinte, caratterizzate sia dal diverso abbigliamento che dal modo di muoversi. L'abbigliamento del Mamuthone comprende ora l'abito in velluto scuro, la mastruca nera (casacca di pelle ovina caratteristica dei pastori sardi) chiamata sas peddes, le scarpe in pelle conciate a mano dette sos hòsinzos; sul volto porta sa visera, una maschera nera antropomorfa, sul capo il berretto sardo (coppola) ed il fazzoletto del vestiario femminile (su mucadore) che avvolge visera e berretto. Sul dorso del Mamuthone, legato da una serie di cinghie in cuoio con un complesso sistema di ancoraggio, è sistemato un pesante mazzo di campanacci di varia misura mentre un altro carico più piccolo di campanelle bronzee è collocato sul davanti all'altezza dello sterno e dello stomaco. L'insieme dei campanacci e sonagli viene chiamato sa carriga. Il peso complessivo di tutta l'attrezzatura si aggira sui 20/25 chili, ma non è solo il peso quello che fa faticare bensì la "morsa" delle cinghie in pelle, ben strette tra le spalle e la gabbia toracica che rendono difficile la respirazione; infatti, a fine esibizione le spalle dei partecipanti sono spesso segnate da varie ecchimosi. Una delle doti richieste per fare il Mamuthone è la resistenza alla fatica. I Mamuthones vanno accompagnati dagli Issohadores, portatori di soha, una lunga fune in giunco. L'Issohadore non porta i pesanti campanacci, il suo abbigliamento è del tutto diverso da quello del Mamuthone e viene indicato a Mamoiada ed in altri paesi come "veste 'e turcu" (vestito da turco). L'abbigliamento ora comprende: sul capo la nera berritta sarda legata al mento da un fazzoletto variamente colorato, larghi pantaloni e camicia di tela bianchissimi, sopraccalze di lana nera, il corpetto rosso del costume tradizionale maschile, a tracolla una cinghia in pelle e stoffa dove sono appuntati piccoli sonagli, uno scialle, di solito scuro con bellissimi ricami, legato alla vita con la parte variopinta che scende lungo la gamba sinistra. I componenti di questa straordinaria rappresentazione si ritrovano tutti nel punto stabilito per indossare gli abiti della "cerimonia". La vestizione sa' di rito. La prima uscita annuale dei Mamuthones e Issohadores avviene il 17 Gennaio il giorno di Sant'Antonio, di quello stesso Santo per cui si accendono grandi fuochi votivi in tutta la Barbagia, ma in altri tempi quest'uscita avveniva già verso l'Epifania o addirittura a Natale. I Mamoiadini affermano «senza Mamuthones e Issohadores non c'è Carnevale» il che vuole significare che è questa la manifestazione più importante e il simbolo del Carnevale e allo stesso tempo che l'apparizione di questa misteriosa "mascherata" è segno di festosità, di allegria, di tempi propizi. Benché si sappia che la sfilata durerà dal pomeriggio fino alla tarda sera, Mamuthones e Issohadores mangiano e bevono poco perché l'esibizione richiede molto sforzo e forse anche perché in principio bisognava digiunare come nei misteri. Quest'origine è certamente antichissima: «est anticoriu», dicono i Sardi delle cose il cui ricordo è perduto nell'oscurità dei tempi. (Marchi). Si è parlato finora di carnevalata, ma quella dei Mamuthones e Issohadores è una cerimonia solenne, ordinata come una processione che è allo stesso tempo una danza; «una processione danzata» come l'ha definita l'etnologo Raffaello Marchi che per primo, negli anni '40, ha osservato molto da vicino questa manifestazione. Il gruppo è composto tradizionalmente da 12 Mamuthones e 8 Issohadores e vanno avanti disposti in quest'ordine:
L'ordinamento sembrerebbe del tutto militaresco, specie per la funzione di avanguardia, di retroguardia, di fiancheggiamento e protezione mobile che hanno gli Issohadores, ma la parata per quanto battagliera possa essere, non è certamente la miniatura di un esercito sardo. La processione si muove lentamente, in modo non uniforme perché diverso, ma non discordante è il passo dei Mamuthones e quello degli Issohadores. I Mamuthones, disposti su due file parallele, procedono a piccoli passi cadenzati, quasi dei saltelli, come se avessero catene ai piedi, appesantiti dai campanacci, dalle vesti di lana grezza, dalla visera. Ad intervalli uguali danno tutti dei colpi di spalla ruotando il corpo una volta verso destra e un'altra verso sinistra; a questo movimento in due tempi, eseguito in perfetta sincronia, corrisponde un unico squillo dei campanacci; ogni tanto tutti insieme fanno tre rapidi salti su se stessi, seguiti da tre squilli più alti di tutta la sonagliera. Gli Issohadores si muovono con passi più agili e sciolti, ma sempre misurati ed accordati, per quanto possibile, con l'andare faticoso dei loro cupi compagni; poi d'improvviso si slanciano, gettano sa soha (il laccio) fulmineamente e quasi senza rompere la compostezza dei loro atteggiamenti colgono, legano e tirano a sé come un prigioniero l'amico o la donna che hanno scelto nella folla. Mentre compiono questo esercizio essi possono scambiare qualche parola con la gente che li circonda, al contrario dei Mamuthones che restano muti per tutto il percorso della processione, come gli iniziati di alcuni misteri pagani. (Marchi). Specialmente se sono uditi a distanza, per le vie di Mamoiada mentre avanzano gradualmente dal silenzio, gli squilli alti e leggeri dei sonagli, quelli gravi e cupi dei campanacci e i colpi faticosamente cadenzati dei passi creano nello spazio una sonorità amplissima e solenne, piena di oscuri significati. In questo clima di mistero avanza la processione, austera e tragica, con i Mamuthones neri e oppressi come schiavi in catene e gli Issohadores slanciati e colorati. |
LE
MASCHERE BARBARICINE Mamuthone è una parola di antico suono della quale si potrà forse trovare l'origine nelle primitive lingue del Mediterraneo. Ecco, intanto, alcuni vocaboli Sardi coi quali si può fare almeno un confronto: Maimone, prima di tutto, che non è sicuramente una semplice variazione di Mamuthone, e che indica in diversi paesi tanto lo spaventapasseri quanto una specie di fantoccio o idolo bacchico del Carnevale popolare; Mamucone, che è il nome di una campagna; Sos Mamus, cioè i misteriosi abitatori di caverne o forse i geni tutelari in una leggenda che può adombrare un mito; Mamudine, altra località campestre dove ci sono delle caverne favolose; Mamone, altra zona della Barbagia che ha acquistato una triste fama solo nei tempi moderni perché c'è una delle numerose "colonie penali" dell'Isola; Mamujone, infine, che era si dice, prima il nome di una sorgente, poi non si sa da quando il nome originario di Mamoiada, cioè il paese dei Mamuthones ( v. nota a pag. 16). Per "visera" l'etmologia da visus o da visum mi sembra semplicistica. Questa parola, che come nome di maschera è usato solo a Mamoiada, riappare in una efficace espressione del linguaggio popolare comune a diversi paesi; "ti ana fattu a visera", ti ses fattu a visera", ed ha una ricca variazione di significato: ti hanno ridotto o ti sei ridotto in pessimo stato, fisicamente o moralmente, sei malconcio, sporco, umiliato, canzonato, messo alla berlina o anche ferito, sfregiato. La "Visera" è di legno di fico o di sughero in altri tempi ben lucidato e levigato; è una maschera tragica non mostruosa. Non ci sono, e si può affermare che non ci siano mai stati in Sardegna, maschere spaventevoli di esorcismo, di sepoltura, di travestimento, di battaglia o di culto. Nei paesi della Barbagia si possono rintracciare altri tipi di travestimento che richiamano solo apparentemente i Mamuthones. A Nuoro ci sono i boves, distinto da boes, i buoi, e la parola stessa indica il carattere e forse anche il significato e l'origine della maschera; in altri paesi si trovano i betones, che sono pure figure bovine, i carataos, mascherati bovini, i battileddos, stracciati bovini, i merdules, che può significare tanto buoi sporchi quanto uomini sporcaccioni, i bumbones, ubriaconi, "imbovati" anche essi. Tutti questi travestiti portano corna di bue legate sulla fronte o maschere cornute, collane di campanacci e mastruche; e si son visti spesso due giovanotti aggiogati come buoi e col contadino armato di pungolo appresso. Il loro aspetto è tutt'altro che giocondo, anche perché le loro vesti sono in genere vedovili: hanno indossato il costume nero delle madri o delle nonne e così abbigliati vanno urlando e muggendo e cantando attìtos, nenie funebri, intorno al maimone bacchico, che sembra nello stesso tempo un morto che piange, un idolo che si va a sotterrare, un nume o un demone che viene esaltato e glorificato. Per indicare tutto ciò c'è nel sardo di Nuoro il verbo si bovare "imbovarsi" che in origine significava dunque tutte queste cose insieme: identificarsi nell'animale più utile e perciò venerato, immedesimarsi nella madre amata che piange i morti e contemporaneamente immergersi nello stato di euforia e di delirio che lo stesso bove o bumbone si creava. Questa maschera nella quale è facile ravvisare fra l'altro la sopravvivenza di un rito orgiastico, è bellissima in se stessa, quando conserva tutto il suo carattere di cosa arcaica e primiziale, ciò che avviene soltanto nei più isolati paesi della Barbagia, dove non è ancora penetrata la triste provincialità di tutti quei sardi istruiti che vorrebbero modernizzare, s'intende a modo loro, il costume popolare. Fra le tante supposizioni che si possono fare intorno all'origine e al significato dei Mamuthones scelgo quella che mi sembra la meno fantastica: la processione è la cerimonia commemorativa di un avvenimento storico locale, è un rito austero, vorrei aggiungere, se questa espressione non fosse diventata grottesca con l'uso che se ne fece nel famoso ventennio della vita Italiana. Non è difficile percorrendo la triste storia dei Sardi, trovare un avvenimento che possa aver dato origine alla cerimonia dei Mamuthones. Dal Medioevo fino alle soglie del secolo scorso i Sardi furono moltissime volte assaliti e tormentati da quei pirati e razziatori mussulmani che essi chiamavano e chiamano ancora "Sos Moros". Ma nell'epoca bizantina, e specialmente in quella immediatamente successiva del governo autonomista dei Giudicati, furono i Sardi a vantare qualche vittoria sui saraceni, tanto che a un certo momento, nei primi decenni del IX secolo, riuscirono a catturarne un gran numero, compresi quattro fra i capi o ufficiali più grossi, anzi da queste vittorie e da questa cattura ebbe origine la bandiera Sarda nella quale si vedono effigiati, appunto quattro mori con gli occhi bendati: così almeno affermano alcuni storici del secolo scorso e altri ancora più antichi (*). (*) Secondo gli ultimi studi questa teoria non è stata più avvalorata). Nulla ci impedisce di credere che alcuni di questi mori, fatti prigionieri nel luogo del loro sbarco, a Orosei, a Siniscola, a Dorgali, o fra le stesse montagne della Barbagia nelle quali qualche volta si avventurarono, siano stati condotti a Mamoiada o Mamujone dai pastori che li avevano catturati, magari servendosi in questa azione guerresca del laccio pastorale. Concludendo la congettura, si può ancora immaginare che i prigionieri siano stati spogliati e rivestiti della mastruca Sarda, con l'aggiunta del turbante legato intorno al capo della maschera nera con il mento appuntito dalla barbetta, e anche dei campanacci per indicare che gli assoggettatori erano finalmente assoggettati e perfino "imbovati"; e i Sardi, poi, abbigliati con i panni dei vinti (cioè con la "veste di turco" o di Moro) in segno di orgoglio e di ammonimento, e conservando la soha come emblema guerresco, continuarono a celebrare la loro vittoria per moltissimi anni, fino a perderne il ricordo nell'oblio dei secoli. I Mamuthones, così, sarebbero i Mori; e forse cercando fra gli idiomi di quei Maomettani si può trovare qualche appellativo somigliante a Mamuthone che i saraceni dovettero usare per schernire i Sardi e che i Sardi poi, per ritorsione, regalarono ai loro prigionieri. Continuando il gioco complicato delle ipotesi, si può anche credere che i Mamuthones abbiano qualche relazione con i tremila africani inviati da Genserìco in Sardegna, e proprio nel centro della Barbagia, o perché erano ribelli essi stessi, secondo alcuni storici, o perché domassero i ribelli Barbaricini secondo altri. E qui sarebbe interessante sapere come quelli africani furono accolti dai nostri rudi montanari; più probabilmente ne uscirono malconci, "imbovati" e ridotti a Mamuthones; a meno che non fossero giunti veramente come esuli e come ospiti. Con queste ipotesi siamo nel Medioevo e precisamente tra il V° e il X° secolo e oltre. Ma tutto fa pensare che la mascherata dei Mamuthones sia più antica del governo autonomista; del dominio Vandalico e di quello Bizantino in Sardegna, anche se in questi come in altri periodi può aver subito una serie di adattamenti e di aggiornamenti, con sovrapposizione di elementi nuovi e contemporanei. Tornando dunque indietro dal Medioevo e scartando le innovazioni, possiamo riconoscere nella mascherata Barbaricina un piccolo dramma ricavato dalla vita vissuta, un mimo profano e realistico, un tentativo e un esordio di ciò che qualche millennio dopo fu chiamato teatro di massa. Se poi indietreggiamo ancora nel tempo, dopo aver sfrondato nuovamente la cerimonia di qualche elemento meno antico e dopo averne messo qualche altro in rilievo, come la danza che certo appartiene alla struttura più arcaica, ci può capitare l'avventura di assistere, in pieno secolo ventesimo, sia a un rito totemico di assoggettamento del bue, sia, in un periodo meno remoto, a una di quelle processioni rituali che i Sardi della civiltà nuragica dovevano fare molto spesso in onore dei loro piccoli numi agricoli o pastorali. In un caso e nell'altro possiamo immaginare, al posto dei Mamuthones, una torma di buoi veri tutti rimbelliti, inghirlandati e come vestiti a festa che vanno in processione guidati da mandriani Issohadores, e col popolo intorno che magnifica e vezzeggia come sposa novella il suo animale più utile, più prezioso e familiare. Oppure, facendo una piccola variazione, possiamo vedere di nuovo nei Mamuthones degli uomini "imbovati", ma questa volta dei contadini o dei pastori che si vogliono immedesimare nel bue in segno di maggiore e più mistica venerazione, e si coprono il volto con la maschera bovina, con una di quelle innocenti e ornatissime "teste di bue" che ancora si possono vedere nell'antica Barbagia. Da tutto ciò possiamo ricavare l'immagine serena e un po' idillica di un clan o di una tribù patriarcale in cui c'è un'unica classe di uomini ugualmente liberi, laboriosi e solerti di fronte alla venerata torma degli animali domestici; una società libera dal terrore religioso, probabilmente che non usa neanche sacrifizi cruenti (1), ma che limita le sue pratiche rituali a qualche cerimonia propiziatoria e scongiurativa, a modeste magie terapeutiche, forse a piccoli misteri orgiastici e soprattutto alle offerte di succose primizie agricole, e di quei pani ornati, di quelle focacce dolci, di quegli animaletti modellati nel formaggio che i pastori e le donne, negli ovili e nelle case, fanno ancora oggi per dedicarli a qualche Santo protettore o anche, ormai, senza nessun intento dedicatorio. (1) Che i Sardi
primitivi usassero fare sacrifizi cruenti non pare cosa accertata
e neanche accertabile con le sole testimonianze che se ne hanno e
col solo esame dei monumenti protosardi: tanto meno possiamo affermare
che essi sacrificassero vittime umane, come s'immaginò qualche
scrittore dell'800 dopo aver visto alcuni bronzetti nuragici più
fantastici che mostruosi, nei quali aveva identificato simulacri del
Moloc fenicio. Il Sardo non ha creato idoli tenebrosi e terrificanti
perché la sua fantasia non ha mai oltrepassato i limiti della
concretezza e della chiarezza; ma questa stessa povertà di
immaginazione che gli ha impedito di rappresentarsi un sopramondo
infernale o celeste, gli ha dato la possibilità di vivere con
intensità e pienezza di affetti in una realtà che mostra
due volti, come una statua bifronte: da una parte la natura serena
e produttiva, e la "bella d'erbe famiglia e d'animali" che
egli esalta e magnifica in tutte le sue espressioni artistiche, e
ricorda e rimpiange perfino nei suoi canti funebri; dall'altra parte
la vita accidentata e problematica, che richiede una tensione continua
della volontà e uno spirito rude di vigilanza e di lotta per
resistere all'assalto dei nemici, degli invasori, dei razziatori.
Da una parte ancora ci può essere l'immagine idillica e floreale
di un bue o torello inghirlandato per la sua festa, come espressione
di poesia dei contadini che l'hanno foggiata, dall'altra la maschera
umana nella quale gli stessi artefici contadini hanno voluto imprimere
realisticamente, con l'accentuata contrazione delle sopracciglia,
il senso di una fatica affannosa, di un dolore implacabile di un terrore
non degli dei, ma degli uomini. Sono questi, appunto, i due aspetti
essenziali e preminenti dell'Umanità Sarda, che si rilevano
dalle testimonianze del passato e dallo studio del presente che ne
contiene tutte le impronte e non è meno eloquente.
MASCHERE, MITI E FESTE DELLA SARDEGNA di Dolores Turchi (1990) oooOOooo (Non abbiamo la pretesa di riuscire a condensare in tre pagine il grande lavoro della Turchi in maniera ottimale, abbiamo estrapolato solo le parti che riguardano la maschera dei Mamuthones, una piccola parte. Ci scusiamo con la studiosa se abbiamo sintetizzato eccessivamente e se il trarre una minima parte da un lavoro così ampio ed affascinante nuoccia in qualche modo alla sua opera che è d'obbligo leggere integralmente perché dai Mamuthones alla Sartiglia, dai millenari riti agresti al culto delle acque, l'autrice ci fa rivivere l'anima più vera di una terra bellissima e incantata che conserva, ancora intatte, le tracce di un antico culto). oooOOooo
Un popolo che non ha la scrittura trasmette la sua storia oralmente, ed è più che normale se questa, nel corso dei millenni diventa mito, per quanto la narrazione cerchi di mantenersi rigida il più possibile. Proprio attraverso alcuni miti e leggende particolari si riesce a tornare indietro nel tempo e a intravedere una parte della storia, della cultura e della religione dei Sardi, in tempi assai remoti. Se poi questi miti sono avvalorati da scoperte archeologiche, da toponimi e da tradizioni popolari ancora presenti in alcune frange della popolazione, non v'è da dubitare che i miti di oggi siano la storia di ieri. Pertanto è ancora possibile spiegare questi miti eziologicamente e riuscire ad individuarne il nucleo originario. E' quello che si è voluto fare attraverso questo libro, partendo dall'osservazione di tradizioni ancora vive, come il carnevale, e ripercorrendo il cammino a ritroso, alla ricerca delle origini. Molte delle manifestazioni oggi definite folcloriche o superstiziose, dal carnevale alla medicina popolare, non sono che gli ultimi retaggi di un culto misterico penetrato a fondo nell'anima del popolo e gelosamente custodito, a livello d'inconscio, fino agli inizi del nostro secolo. Il carnevale sardo, specialmente quello barbaricino, ha conservato tratti arcaici attraverso i quali non è difficile individuare il motivo fondamentale da cui prende le mosse. …Il Carnevale di Mamoiada si identifica con SOS MAMUTHONES e SOS ISSOHADORES. E' un rito agrario che affonda le sue radici nelle antiche religioni misteriche dei paesi del Mediterraneo (e ancor prima nel ricordo dei rituali preistorici di morte e rinascita ispirati ai cicli annuali della natura). E' un Carnevale misterioso, tragico, simile ad una sacra cerimonia. E cerimonia doveva essere un tempo, quando la passione e la morte di Dioniso, dio della vegetazione e dell'estasi, veniva rappresentata come in un teatro all'aperto, lungo le vie del paese, dove ancora sfilano i Mamuthones, le maschere dionisiache coperte di pelli, che da millenni ripetono la stessa danza, ritmata dal suono dei numerosi campanacci che si scrollano sulle spalle. Un suono cupo, lugubre, che vuole allontanare gli spiriti del male, ma vuole ricordare anche il sacrificio del dio che si fa vittima, per morire e rinascere ogni anno, come la vegetazione nei campi. Nel Carnevale di Mamoiada è rimasto il pallido ricordo di questo culto che bisognava rendere al dio che manda la pioggia. Le maschere dei Mamuthones sono tradizionalmente dodici, come i mesi dell'anno, e si avviano, col loro passo di danza zoppicante, verso il sacrificio cui sono destinate. Le accompagnano otto guardiani, detti Issohadores, che si muovono con agilità, tenendo in mano il laccio mortale col quale catturare le vittime, se queste tentassero di sottrarsi alla loro sorte. I termini Mamuthone e Maimone hanno lo stesso significato: sono maschere il cui nome è ancora vivo in tutta la Barbagia e nell'Ogliastra, ma un tempo la loro area di diffusione doveva essere ben più vasta, perché anche nei paesi dove queste maschere non compaiono più è rimasto il nome a designare un povero scemo o uno spaventapasseri. Se si domanda cosa significa nel linguaggio comune la parola Mamuthone, invariabilmente la risposta è sempre la stessa: un pazzo, un buono a nulla, un sempliciotto. Se poi si chiede cosa significa Maimone la risposta non varia, solo che in alcuni paesi prevale il primo termine, in altri il secondo, in altri ancora convivono entrambi con lo stesso significato. Il termine Maimone deriva da "Mainoles", il pazzo, il furioso. Con questo nome veniva chiamato Dioniso. Simile è il significato di Mamuthone, che deriva da "maimatto", il tempestoso, il furioso, il violento, un epiteto che Plutarco dà a Zeus Pluviale, divinità del mondo sotterraneo che si identifica con Dioniso (1). I Cretesi, durante le feste dionisiache, rappresentavano in tutti i particolari la passione di questo dio che muore sbranato dai Titani. La stessa parola carrasegare, così come viene chiamato il Carnevale sardo, pare ricordare quella tragica morte, perché carre 'e segare significa carne viva, soprattutto umana, da lacerare, come si costumava nelle feste dionisiache, in cui la vittima veniva sbranata ancora viva per ricordare il sacrificio del dio. Da qui l'aspetto cupo della maschera del Mamuthone (chiamata visera), che a Mamoiada ha mantenuto tutta la sua tragicità. Il Mamuthone infatti era la vittima prescelta nella quale il dio s'incarnava. Anche la danza zoppicante che questa maschera muta esegue era una danza rituale, tipica della religione dionisiaca, una danza sacra che consisteva in una serie di saltelli che rappresentavano un ritmico passaggio. Simboleggiava il saltare da uno stato naturale ad uno stato di estasi, dallo stato umano allo stato divino, dallo stato normale allo stato di posseduto, di folle, di colui che è in balia del dio. I Mamuthones si vestono di pelli perché la pelle, presso molti popoli, era ritenuta un mezzo necessario per richiamare la pioggia. Un tempo queste pelli erano rigorosamente nere, come ancora usa Mamoiada, perché il sacrificio era fatto alle divinità infere. La pelle, come pure gli altri indumenti che il Mamuthone indossa, prima si mettevano a rovescio, in segno di lutto, perché il dio stava per morire. Tertulliano, un apologista del I° secolo convertitosi al cristianesimo, nel suo trattato sull'idolatria si lamenta che molti dei neoconvertiti alla nuova religione continuino ad acconciarsi con pelli e ad assumere forme animalesche, durante alcune feste, pur sapendo che un simile travestimento derivava dalla religione pagana. Infatti l'aspetto più comune nel quale Dioniso si manifestava era quello di bue o di capro. Anche Sant'Agostino, nel sermone 129 comunemente a lui attribuito, si scaglia contro questi travestimenti, che si svolgevano durante le calende di gennaio: «…alcuni indossano pelli di bestie, altri si adattano sul capo teste di animali, felici ed esultanti se riescono a trasformarsi in forme bestiali, in modo tale da non sembrare più uomini…». Quella che Sant'Agostino condanna è la possessione dionisiaca, l'estasi, la temporanea follia da cui i seguaci di Dioniso si lasciavano travolgere per farsi simili a lui, «… e resisi somiglianti alle bestie fanno un sacrificio…» aggiunge Sant'Agostino. Questa consacrazione al dio era evidente soprattutto nelle calende di Gennaio e quasi tutti i padri della chiesa nei loro sermoni rimproverano questo costume. Infatti dalle calende di Gennaio, ma particolarmente dalla festa di Sant'Antonio Abate, ha inizio il Carnevale. Scrive San Massimo di Torino nel sermone "In Kalendas": «…non sono forse cose universalmente false e folli quando gli uomini creati da Dio si trasformano portentosamente in bestie o fiere…». L'usanza era dunque abbastanza comune, come comune era ai vari paesi della Sardegna la consuetudine di scegliere "il folle" a rappresentare la vittima del sacrificio da offrire al dio che mandava la pioggia. Molte fontane portano ancora oggi il nome di Maimone e ancora nei primi decenni del '900, in annate di siccità, in molti paesi dell'Oristanese e del Marghine, si preparava un fantoccio con ciuffi d'erba. I bambini lo portavano per le case cantando una filastrocca che in tempi lontani doveva essere una preghiera: «.. Maimone, Maimone /abba cheret su lavore,/ abba cheret su siccau,/ Maimone laudau » (Maimone, Maimone / ci vuole acqua per il raccolto,/ acqua per la terra secca,/ Maimone lodato). Il rito fatto dagli adulti fu ridotto progressivamente a una banale mascherata di cui si è perduto il significato. Mamoiada ha conservato un pallido ricordo di questo rito. La maschera nera che portano i Mamuthones di Mamoiada è un mezzo di possessione, è il collegamento tra l'uomo e dio, ed è tradizionalmente di pero selvatico perché quest'albero era sacro a Dioniso e a Persefone. Il pero selvatico si è sempre usato in Sardegna per scolpire le immagini sacre e la tradizione si è protratta per tutto l'800. Con questo legno erano scolpite anche le teste dei fantocci che si bruciavano a Carnevale, la sera del martedì grasso, quando si rappresentava il sacrificio della vittima. Tale maschera lignea (visera) è sempre contornata da un fazzoletto da donna che avvolge la testa del Mamuthone. Questo indumento del vestiario femminile non manca mai nel travestimento, quasi si volesse evidenziare l'androginìa del dio. I Mamuthones di Mamoiada compaiono quasi sempre in numero fisso, dodici. Poiché non è pensabile che questo paese esprimesse tante vittime, mentre negli altri paesi la vittima è una soltanto, è più corretto pensare che qui convenissero per il sacrificio finale anche le vittime dei paesi vicini. Il numero dodici è dato quasi certamente dalle lunazioni, una per ogni mese dell'anno, giacché le vittime erano destinate a Persefone, divinità lunare. Numerose analogie con le maschere dei Mamuthones si possono trovare sia in alcuni paesi della Bulgaria che nell'isola di Skyros, in Grecia, dove l'abbigliamento lascia chiaramente intuire la radice comune di antichi rituali che si svolgevano nei paesi del Mediterraneo per propiziare la pioggia e la fertilità della terra. (1) Il mese di "maimatterione" (tra Novembre e Dicembre), nell'anno attico, era dedicato a Zeus Pluviale (Maimatto) e il participio "maimoon" significa colui che smania, che desidera vivamente essere posseduto dal dio.
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Foto di Luigi Ladu |