FRANCESCHINO SATTA - IL POETA, L'UOMO.
Nel
ricordo di Antonio Strinna.
Già
da sei anni Franceschino Satta non è più fra noi, almeno
non fisicamente, sono anni però che continuano a vivere di lui,
delle sue opere, dei suoi sguardi sereni; anni che continuano a brillare
della sua poesia, letta e cantata, in ogni angolo della Sardegna e non
solo. Nel cuore di tanta gente e di tanta musica sarda. Come Ispadas
de sole, Unu ballu pilicanu e
Babbu nostru. Risuonano ancora oggi,
con i suoi versi, i suoi sentimenti, così forti e sinceri, insieme
alla sua grande passione per la letteratura e per la sua comunità.
Ma fin dal 1995, quando da giurato del Premio delle Acli lessi la sua
poesia Accurzu a chelu, quest'uomo mi diede
la sensazione - attraverso i suoi versi- che già allora fosse in
viaggio verso l'aldilà. Che in qualche modo, interiormente, si
preparasse a guardare lontano, come in fondo guarda la poesia, la tradizione,
il sole, la luna. Dunque, partendo da “eliches e chercos,
calabriche e nuches de recreu”, Franceschino Satta
già osservava e considerava ogni cosa con un qualche distacco,
come in trasparenza, di sicuro diversamente: “Chin sa
luce immortale de s'immortale andare”.
Anche a distanza di tanti anni, dopo quell'incontro alla cerimonia di
premiazione, mi pare proprio di vederlo, silenzioso, quasi solenne, lassù:
“In custu monte arcanu, accurzu a chelu”,
dal quale poteva vedere -ormai nella filigrana della memoria- Nuoro e
la Sardegna intera, senza però staccarsi dalla natura, dalle creature
che lui tanto amava e alle quali spesso si ispirava: “Milli
alipintas, milli rosinzolos cantan in coro eternas sinfonias”.
Così, quasi fatalmente, il ricordo di Franceschino Satta mi riporta
all'anno precedente, alla poesia Tra un'isbirgu e s'atteru,
e ancora alla sua amatissima infanzia “In sos montricos
de sa pizzinnia”, come lui li definisce, montricos
che la modernità ha contaminato e talvolta anche distrutto per
far posto a nuove e insane abitudini, a continui abusi e volgari violenze.
“Ube prima sos nuscos de s'amore s'isparghian serenos
accasazande luches d'amistade, como b'hat rubos ch'abbelenan s'anima”.
Ma il mio primo incontro con Franceschino Satta e con la sua poesia risale
al 1993, in occasione della quinta edizione del Premio di poesia sarda
delle Acli. Alla quale partecipò con S'anima sentìa,
una poesia che mi fece particolare impressione. E anche lui. La sua figura
carica di anni e di umane esperienze. Nella quale potevo avvertire il
respiro vibrante della gloria e insieme della solitudine. Insieme al respiro
della gioia e del dolore. Così, ormai vecchio, il poeta sognava
allora soprattutto una cosa: la libertà. La libertà smisurata
della giovinezza. “Ah, su chelu fit mannu e manna sa
gana de divertire”. E poi ancora, con dolcezza e candore,
immerso in tutti i suoi sentimenti: “Arcana pizzinnia,
ite bellesa! Como sa fune est presa a sas loricas frittas de s'iberru”.
Davvero traspare in questi versi tutta la sua innocenza, rivissuta con
una amarezza che tuttavia non gli impedisce di godere, ancora una volta,
di un tempo che per lui fu sereno e felice, straordinario.
Accurzu
a chelu, dicevo all'inizio, e non di meno accurzu a sa zente.
E mi onora il fatto che durante quelle tre Premiazioni del Concorso di
poesia sarda Acli -1993, 1994, 1995- lui sia stato anche accanto a me.
Ho conosciuto e apprezzato la sua poesia e attraverso questa ho potuto
apprezzarlo anche come uomo. Rileggendoli, potrei ascoltare i suoi versi
come un canto profondo, struggente, così da percepire ancora la
sua voce, la sua preziosa compagnia. Di poeta e di uomo.
Questo ricordo mi è caro, davvero; non esito ad affermare che per
me e per moltissimi sardi è il ricordo di un padre. (24-10-2007)
PS
Potete trovare immagini di Franceschino Satta nel sito della figlia, Rosalba
Satta Ceriale, e in questo di Luigi Ladu.
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