(dialetto di Sorso-SS)
Eu no sòggu gòsa sia la bòzi drentu
ghi mi cumánda di sighì a indaréddu
lu camminu lòngu e difficusthósu
d’un asthru mòndu e d’un asthru bèntu.
Mi cumánda di zischà
d’una ginìa
la vidda, lu córi, li tràbbani e l’inzègnu.
E bòra a piánu a piánu la mènti méa
a luntánu,
dend’attèntu a sighì l’imprènti di
l’ammèntu,
imbambarrièndi l’òcci i lu bùggiu di lu
tèmpu.
E aischusthèndi
lu disìzu di lu córi
tòrru a l’impidradda di li carréri, a la pizzinìa
méa luntána
vécci i lu sòri, lu fumu di li forri a lègna,
la ciarra di funtána
zócchi, zicchirri, pizzinni giugghèndi, mámmi
acciaràddi ciamèndi…
Ghe umbri trimurósi
a luzi di candéra
sirièggiu l’ippìriti di l’antinaddi
turraddi a vidda, da ghissa bòzi suppisaddi,
sunadda l’oraziòni, a pasthi séra.
Li vèggu in Cunvèntu,
Sant’Anna e Cabuzzini
in Sánta Gròzi, in Géisgia mánna in aduraziòni
zischèndi pazi, saruddu e binidiziòni
e da dugna mari, cunfósthu e libaraziòni.
L’attòppu
pa isthrinti, piazzòri, arrumbaddi a cantunaddi,
l’isthángu, lu Pòcciu, i lu labaddòggiu,
l’Usthéra béccia
aimmàddi di fuschòni vinturèndi, chittèndi
a occi a sòri li zurraddi,
azzendi da funtána gu li casdhari in cabbu
carrèndi sacchi e casci, in giru a lu maschaddu.
L’agattu pusadd’in
giánna e sempri fainèndi,
d’aribàri, triggu, uba, vigni e murìni arrasciunèndi.
L’ischinchìddhi, la luzi di lu fraìri, li còipi
di l’isthagnéri,
vinnènna, vinu bònu, lu fumu di li zigàrri, li
chitèrri di li zilléri…
L’incòntru
pa l’utturini, l’ánimi di l’antinaddi,
pusaddi in mezzu a la prédda béccia di li sécuri
passaddi.
Si pésani da li nuraghi, guasdhiáni di Serra Niéddha,
fàrani l’ischalìni limosi ridinèndisi a
un muru
e ippiccèndisi drent’a l’èba di ghissu pozzu
sántu
signarèggiani cu la luna e cu l’isthèlli lu caminu
siguru…
Genti di varòri,
di digniddài
trabagliadòri ghi affruntabani di la vidda dugna difficusthai.
Un mondu pòbaru di dinà ma riccu di tarrènu e
sintimèntu,
di tutti li figlióri rifùgiu, triburaziòni e
nutrimèntu.
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(traduzione)
Dal portone alla strada
Io non so cosa sia la voce dentro
che mi ordina di ripercorrere
il cammino lungo e difficoltoso
d’un altro mondo e di un altro vento.
Mi comanda di cercare d’una
gente
la vita, il cuore, i tormenti e l’ingegno.
E vola piano piano la mente mia lontano,
intenta a seguire le impronte dei ricordi
spalancando gli occhi nel buio del tempo.
E dando ascolto al desiderio
del cuore
ritorno alle strade acciottolate, alla mia infanzia lontana,
vecchi al sole, il fumo dei forni a legna, le ciarle alla fontana
rumori, grida, bambini giocando,
mamme affacciate chiamando…
Come ombre tremolanti alla
luce di una candela
scorgo gli spiriti degli antenati
ritornati in vita, da quella voce riesumati,
al suonar dell’orazione, verso sera.
Li vedo in Convento, Sant’Anna
e Cappuccini
In Santa Croce e Géisgia manna in adorazione,
cercando pace, salute e benedizione
e da ogni male, conforto e liberazione.
L’incontro in vicoli,
piazzali, appoggiati a cantonate,
al tabacchino, lu Pòcciu, nella Vecchia osteria,
armati di forcone e sotto il sole lavorando,
tornando dalla fonte con recipienti in testa,
trascinando sacchi e casse intorno al mercato.
Li trovo seduti sull’uscio
sempre sfaccendando,
di uliveti, grano, uve, vigne e mulini discorrendo.
Le scintille e la luce delle officine, i colpi dello stagnino,
vendemmia, vino buono, il fumo dei sigari, le chitarre nelle bettole
…
Li incontro nei sentieri,
le anime degli antenati
Seduti sulle vecchie pietre dei secoli passati.
Si levano dai nuraghi guardiani di Sèrra Niéddha,
scendono i gradini limacciosi sostenendosi ad un muro
e specchiandosi nell’acqua di quel pozzo santo
indicano con la luna e con le stelle il cammino sicuro …
Gente di valore, di dignità
Lavoratori che affrontavano della vita ogni difficoltà.
Un mondo povero di denaro ma ricco di terreno e sentimento,
di tutti i figli rifugio, tribolazione e nutrimento.
Prèmiu
Logudoro Otieri, 2° classificata, sezione versi liberi, 19/11/2022
Vanna Pina Delogu
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Un irresistibile richiamo mi conduce sulle orme del passato, alla
ricerca dei nostri antenati, delle loro gesta, dei valori di un passato
che costituisce, nel bene e nel male, il fondamento del nostro presente.
Inseguendo il cammino segnato dai ricordi, rivedo i luoghi cari della
mia infanzia a Sorso, tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni
Settanta: strade acciottolate, scuderie ed animali, bambini per strada,
botteghe, forni a legna, mulini, frantoi, profumi e suoni di un mondo
che non esiste più, che è scomparso insieme ai suoi
antichi mestieri, alle sue consuetudini, ad un sistema di vita basato
sulla lavorazione della terra, su una profonda religiosità
e sul rispetto delle leggi ereditate dagli avi, di cui ci parlano
le preziose vestigia archeologiche disseminate nel territorio.
Gli antenati sembrano emergere dal nulla al calare delle ombre della
sera nel centro storico di Sorso, intorno alle antiche chiese del
paese, nelle botteghe, nelle osterie, nel vecchio lavatoio, nei pressi
della fontana o intorno al mercato. Sembra di scorgerli seduti al
fresco sull’uscio di casa, nelle sere d’estate, con le
mani sempre impegnate in qualche lavoro, discorrendo di uliveti, vigne,
uve, mulini e di qualsiasi attività che per quella società
era sinonimo di vita e di dignità.
Si tratta di una comunità che, come tante altre, ha cambiato
repentinamente rotta per seguire la modernità. Un territorio
a prevalente vocazione agricola vede, a partire dagli anni Sessanta,
nell’arco di pochi anni, il millenario equilibrio esistente
tra l’uomo e la terra, fonte di vita e di lavoro, spezzarsi
per sempre e, in seguito all’apertura del Polo Petrolchimico
di Porto Torres, trasformare i contadini in operai.
La scolarizzazione di massa, le immagini, le proposte commerciali
che raggiungevano i paesi della Sardegna, principalmente tramite i
media, proponevano altri modelli comportamentali che spazzavano via,
nella corsa verso la modernità, non solo la lingua sarda e
le altre varianti parlate nell’isola, ma anche un’organizzazione
della vita e della società che si era perpetuata, quasi immutata,
nei secoli a causa della conformazione geografica della regione e
delle vicende storico-politiche che l’hanno attraversata.
Era quindi inevitabile che la prospettiva di una vita non più
legata ai capricci del clima, di una retribuzione certa, sistemi di
lavoro più umani, scanditi dagli orari e dai turni della fabbrica,
risultassero più allettanti per i lavoratori rispetto ad un
sistema produttivo condotto, a dire il vero, fino ad allora, con metodi
primitivi, che vedeva i contadini impegnati in campagna dall’alba
al tramonto.
Tuttavia, chi ha fatto in tempo a conoscere quel mondo, sia pur indirettamente,
ha potuto constatare l’esistenza di un sistema di valori, di
abitudini e di attività di cui oggi non si immagina neppure
l’esistenza: commerci, relazioni umane, legami profondi tra
le persone, solidarietà e condivisione che sono alla base dell’identità,
ossia riconoscersi in un gruppo, la consapevolezza ed il desiderio
di farne parte, accomunati dalla caratteristica parlata locale che
sottolineava ogni gesto ed ogni attività.
Occorre comunque andare avanti e guardare al futuro senza perdere
di vista il passato, la nostra storia, le tradizioni, gli antichi
mestieri, la nostra lingua di cui i giovani hanno, in generale, perso
la competenza attiva. Oggi più che mai il compito delle famiglie,
delle istituzioni, ed in particolare della Scuola, in un periodo che
si caratterizza non soltanto per una crisi di tipo economico ma per
una profonda crisi delle coscienze, è quello di offrire una
guida per il recupero di quei valori che costituiscono la colonna
portante della nostra esistenza, valori che sono racchiusi all’interno
della nostra cultura nei suoi molteplici aspetti, materiali e spirituali.
La conoscenza del passato ci darà inoltre la possibilità
di rafforzare le nostre radici, la nostra identità di Sardi,
consentendoci di affrontare meglio il presente e di guardare, per
quanto possibile, con maggiore sicurezza al futuro.
Come diceva il prof. Nicola Tanda, presidente del prestigioso “Premio
di Poesia Sarda Romangia”, bisogna educare i giovani alla conoscenza
ed all’amore per il proprio paese, per renderli più forti
e pronti ad uscire “da la janna a carréra”, ossia
dalla porta di casa verso la strada, l’esterno, la vita, le
culture altre, verso il mondo.
Vanna Pina Delogu
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