Mio padre Giuseppe nasce a Torpè nel 1922
da Larentu Chessa di professione massaju e mastru e linna (costruiva
i carri a buoi) e da Maria Lughia Nieddu casalinga.
Il padre Larentu era ritenuto un ottimo poeta ed uomo di pace, in
paese veniva chiamato Larentu Fois Babai.
A mio padre viene trasferita questa vena poetica
che coltiva e arricchisce con l’esperienza a contatto con la
natura, o coltivando il mestiere di Mastru e linna, dal padre. Si
avvicina alla famiglia dei Coronas in particolare a Peppino che ha
esperienza di studi liceali, da cui apprende l’arte dello scrivere
in bella grafia e l’amore per i libri. Come il padre è
profondamente religioso e sente il richiamo della chiesa. Questo richiamo
è rafforzato da Peppino Coronas (Peppino si può dire
che vive una vita da eremita nella sua casa materna, circondato da
una ricchezza che non rifiuta ma non usa, immerso nei libri di storia
e religiosi e nella poesia... è sua la poesia su Torpè;
sos fizzos de Roma faghene ausentu i suta e monte nurres ecc ecc.)
che lo coinvolge nell’attività dell’Acli.
Sono molte le poesie di mio Padre e spero di riuscire
a recuperarle nella loro interezza. Mia Madre Alessandrina Dalu ha
acconsentito a pubblicarne alcune nel libro “Cantadores de Torpè”
curato da Bustinu Pilosu.
Io vi propongo “Sardigna” una sua poesia
che ho musicato negli anni settanta....
Sardigna.
De sardigna forestas e natura
Sono iscumparende a cantu a cantu
E finzas sos puzzones in su cantu
Faghene intendher chi sono in tristura
E i sa vera chi curriat sigura
Iscumparende i su buscu che incantu
Este marturia e in piantu
Ca de la diffender nessune si curat
Umbe paschiat liberu s’armentu
Chi fit de su pastore capitale
Commo este unu massu de cimentu
Cun sos iscaricos an fattu ruinas
Isparghende sustanzias micidiales
Inquinandhe rios e marinas.
Giuseppe Chessa
Sono tanti gli “italianismi” che mio padre prende in prestito
dai libri che ha imparato ad apprezzare, anche se debbo dire, era
un cultore della parlata Torpeina. Ho raccolto tantissimi vocaboli
suggeritemi da lui; in un vecchio diario ho il disegno del carro e
dell’aratro in legno con tutti i nomi dei componenti! Parole
come “imbunzare” le ho trascritte grazie a Lui e Nonno,
ed era la parola che definiva il montaggio di tutti i singoli pezzi
del carro, dell’aratro, di una finestra ecc. “Imbunzare”
che è diverso da “Intrare a pare” usato da mio
nonno Evangelista Dalu, ed era l’atto di montare i pezzi delle
sedie, che poi impagliava con la Tifa femmina (sa uda ---il maschio
viene chiamato Tezi ---).
Mi ricordo quando con Lui attraversavo S’adu e Mesus (il guado
di mezzo) nel rio Posada, seduto “I sa coazza de su carru”
(nel retro del carro); parlando a voce alta diceva “oje este
a jumpas de cabidanni”! Trascrissi questa frase nel mio cervello
e, tempo dopo, ne chiesi la spiegazione.... Mi disse che la frase
aveva una applicazione quotidiana “pro unu massaju”; significava
essere costretti a fare le cose a salti, tralasciando parte dell’opera,
come zappare tralasciando parti di terra intatte e altre invece mosse;
la frase derivava dalla situazione in cui il gretto del fiume si trovava
a settembre dopo le prime piogge, quando l’acqua incominciava
a salire, e si vedevano affiorare solo le grosse pietre. Pietre che
le persone utilizzava per guadare, saltando da una all’altra,
il fiume.
La frase potrebbe essere trascritta in italiano in questo modo: Guadare
il fiume come lo si guada alle prime piogge di settembre, cioè
a salti. (fare le cose a salti).
Ancora oggi quando scrivo in sardo faccio riferimento
a Lui e ai miei nonni nonostante in questi ultimi venti anni abbia
raccolto tanti vocaboli e modi di dire ...............
Ma forse noi siamo come diceva Nonna Maria Pilosu:
su mudregu chi che cheret cabulare su chercu.
A menzus bidere