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Il Circolo FASI ti può
aiutare a (ri)scoprire le tue radici
ma poi devi pensarci tu a coltivarle
di Paolo Pulina
Comitato Esecutivo FASI
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Quello che segue
è il testo completo della relazione preparata da Paolo Pulina per
il dibattito del quinto Congresso della Federazione delle Associazioni
Sarde in Italia-FASI (Abano Terme,21-23 2011) poi sintetizzata a braccio
dall’autore davanti alla platea dei delegati.
Il
significato di questo contributo. Intendo mettere in evidenza l’importanza
della cultura, di quella che Gramsci chiamava “sovrastruttura”,
come base per sviluppare qualsiasi azione di coinvolgimento di gruppi
impegnati nel raggiungimento di un obiettivo di miglioramento sociale.
Il documento a stampa con le nostre tesi congressuali (scritte sia in
italiano che in sardo) è una grande conquista dal punto di vista
dell’elaborazione dei programmi della FASI, che ha raggiunto una
matura visione complessiva dei problemi. Il Congresso è un momento
in cui si votano i componenti del gruppo dirigente e quindi è giusto
che le proposte partano dalle tesi puntualmente esposte nel documento
sottoposto per tempo all'analisi e alla discussione dei Circoli e già
oggi meritoriamente messo a disposizione dei delegati come volume a stampa.
Uno degli argomenti che mi propongo di approfondire è questo: i
Circoli della FASI, interclassisti e intergenerazionali, hanno aiutato
molti sardi residenti a (ri)scoprire le proprie radici ma poi spetta ad
essi coltivare queste radici: si può essere in tanti a condividere
per eredità una stessa cultura, ma poi uno deve decidere di impegnarsi
in un Circolo piuttosto che, mettiamo, in una associazione elitaria di
“distinzione” sociale.
Una premessa. Il critico Stanley Fish, nel volume che nella traduzione
italiana (Einaudi, 1987) ha per titolo C’è un testo in questa
classe? L’interpretazione nella critica letteraria e nell’insegnamento,
fa un’affermazione che mi piace riportare perché, minimamente
adattata, serve a far comprendere il senso del mio intervento in questo
nostro consesso, in questo nostro contesto.
Scrive Fish: «La ragione per cui io posso parlare e supporre di
essere capito da voi, è che io parlo dall’interno di un insieme
di interessi e di finalità, ed è in rapporto ad essi che
io presumo che verranno intese le mie parole. Se ci sarà una comunicazione,
o una comprensione, ciò non avverrà perché io e voi
condividiamo un linguaggio, nel senso che conosciamo i significati delle
singole parole e le regole per combinarle, ma perché siamo condivisi
da un modo di pensare, da una forma di vita, che ci coinvolgono in un
mondo di oggetti già al loro posto, di obiettivi, scopi, valori,
procedure, ecc.; ed è in riferimento alle caratteristiche di questo
mondo che di necessità tutte le parole che qui saranno pronunciate
potranno essere intese.
La comunicazione è possibile perché – quando ciò
accade – siamo condivisi da una stessa cultura, della quale la lingua,
come tutti gli altri sistemi di segni, fa parte. A partire da questa prospettiva,
acquista una rilevanza fondamentale l’attenzione che si rivolge,
in istanza di descrizione del funzionamento segnico, ai concetti di contesto
e di circostanza d’uso, unitamente alla nozione di pertinenza. Nessun
atto comunicativo si darà fuori contesto, e ogni contesto presuppone
degli usi, quindi una pertinenza, che dipenderà da un punto di
vista, che permetterà di identificare come pertinenti, ai fini
della comprensione, alcuni tratti dell’oggetto conosciuto piuttosto
che altri».
Vediamo le nostre questioni. Come è noto, la Legge statale n. 482
del 15 dicembre 1999, “Norme in materia di tutela delle minoranze
linguistiche storiche”, all’art. 2 stabilisce: «In attuazione
dell'articolo 6 della Costituzione e in armonia con i princìpi
generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica
tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche,
greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale,
il friulano, il ladino, l'occitano e il sardo».
In un interessante saggio pubblicato sul n. 3/2011 della rivista “Studi
Zancan. Politiche e servizi alle persone”, Paolo De Stefani si occupa
di “Immigrati e diritti culturali: una strategia per progettare
l’attuazione di un diritto umano”. Riprendo alcune sue considerazioni
generali che si possono applicare anche al contesto dei nostri discorsi
su come progettare il futuro delle comunità di sardi emigrati,
cioè fuoriusciti, dal perimetro dell’isola di origine e residenti,
per ragioni di lavoro e/o di studio (quindi non per diporto), in altra
parte del restante territorio nazionale (quindi anche in Sicilia, tanto
per intenderci).
Breve e (credo) simpatica digressione. Parlo di residenza non per diporto
perché non mi emoziona la sorte di miei corregionali che hanno
i soldi per vivere per periodi più o meno lunghi, putacaso, a Portofino
(costoro non possono essere considerati emigrati; sono esponenti del mondo
dorato degli “emirati sardi uniti”…). A proposito di
chi può essere considerato, per legge, “emigrato” e
chi no, non voglio tenermi per me una informazione curiosa. La Legge Regionale
n. 35 dell’ 8 novembre 1988 della Regione Sicilia “Interventi
urgenti nei settori dell' emigrazione e del lavoro”, all’articolo
1 “Individuazione dei beneficiari delle provvidenze a favore degli
emigrati previste dalla legge regionale 4 giugno 1980, n. 55, e successive
modifiche” recita: «1. All' articolo 1 della legge regionale
4 giugno 1980, n. 55, modificato con l' articolo 2 della legge regionale
6 giugno 1984, n. 38, è aggiunto il seguente comma: “Agli
effetti della presente legge sono considerati emigrati i cittadini italiani
residenti da almeno due anni in un comune del territorio della Regione
prima della emigrazione, che si rechino all' estero o nella restante parte
del territorio nazionale per esercitare stabilmente o stagionalmente qualsiasi
forma di attività lavorativa autonoma o subordinata ad esclusione
di quella connessa a un rapporto di impiego presso pubbliche amministrazioni.
Sono altresì considerati emigrati i familiari a carico dei soggetti
sopra indicati”».
Questo significa, per esempio, che un vigile di origini siciliane impiegato,
mettiamo, presso il Comune di Como, per la Regione Sicilia non può
essere considerato emigrato. Mi sembra una posizione non condivisibile.
Torniamo alle argomentazioni di Paolo De Stefani. Il quale scrive: «L’approccio
ai diritti culturali è generalmente “difensivo”, teso
cioè a tutelare la specificità culturale di una minoranza.
Questo approccio è presente anche nelle norme internazionali ed
interne (in Italia, si pensi alla legge n. 482/1999 sulle minoranze linguistiche)
in materia di minoranze nazionali. L’idea di “cultura”,
in questo contesto, risulta collegata alle nozioni di “nazione”
o “popolo”. La dimensione della cultura come scelta individuale
esce quasi del tutto oscurata». Ed ecco il perno del ragionamento
dello studioso: «Una prospettiva imperniata sui diritti umani di
tipo culturale accentua invece la dimensione individuale o della “scelta”,
pur senza cancellare, naturalmente, la dimensione di “iscrizione”:
in altre parole, l’individuo sceglie, ma “dentro” una
tradizione. […] La cultura non si “eredita” semplicemente
e senza sforzo: si (ri)scopre e si sceglie. Spesso si osserva che le tradizioni
culturali diventano parte significativa dell’identità dei
singoli e delle collettività in quanto sono oggetto di scoperta
o di riscoperta: si riscoprono le proprie radici etniche, linguistiche,
ecc. ».
Il caso dei Circoli dei sardi emigrati. I nostri Circoli hanno aiutato
molti nostri corregionali non residenti a scoprire o a riscoprire le proprie
radici e hanno avuto in premio la fidelizzazione attraverso la tessera
annuale. Ma, se uno di noi vuole che le radici fruttifichino, bisogna
che si impegni a coltivarle in prima persona; per utilizzare le parole
di De Stefani, una volta che ci è ritrovati o scoperti “dentro”
una tradizione e una identità storico-culturale, bisogna operare
una scelta; occorre fare uno sforzo.
In sostanza, io Stato promulgo – in maniera “difensiva”,
direbbe De Stefani – una legge nazionale come quella che tutela
le “minoranze linguistiche storiche", e tra queste comprendo
anche le popolazioni che parlano il sardo. Ebbene, se poi tu sardo, residente
o emigrato, non ti dai da fare per concretizzare la conservazione e la
valorizzazione della lingua che la tua tradizione storico-culturale ti
ha affidato, la tua scelta è chiara: a te dell’identità
culturale della Sardegna non importa niente. Ebbene, a me che invece ho
scelto volontariamente di fare il povero missionario (da missione quasi
religiosa e da mission della FASI) per realizzare, individualmente e collettivamente,
questo compito storico, a me – ripeto – permetterai che importi
ben poco del percorso divergente rispetto al mio per il quale hai voluto
optare.
Allo stesso modo, se io a Pavia o in qualsiasi altra sede apprendo che
sei un sardo emigrato e ti parlo dell’opportunità di iscriverti
a un Circolo della FASI (caratterizzato, come si può intuire, da
una base sociale interclassista e intergenerazionale: anzi, questo è
uno dei suoi tratti distintivi!) per solidarizzare e poi magari per collaborare
direttamente con le iniziative che i nostri Circoli attuano in maniera
costante per (uso una schematica formula onnicomprensiva) “tenere
alto l’onore della nostra isola” e tu mi dici che vuoi rimanere
esclusivamente impegnato in un’associazione elitaria tipo Rotary,
Lions, Kiwanis e via elencando, io rispetto la tua scelta ma deve essere
chiaro che a te del passato, del presente e del futuro della nostra isola
di origine ti interessa ben poco: salvo l’idea, forse, di organizzare
un gemellaggio con analoga associazione operante in Sardegna.
Ho evitato volutamente di fare l’esempio (sarebbe stato troppo forzato)
di un sardo emigrato iscritto a un’organizzazione che ha il nostro
stesso acronimo. La sua risposta avrebbe potuto essere: «Ma io sono
già iscritto alla F.A.S.I.!» e noi giù a spiegargli
che per noi questo acronimo significa dal 1994 Federazione delle Associazioni
Sarde in Italia; non Federazione Arrampicata Sportiva Italiana (Wikipedia
registra solo questo organismo e non cita il nostro!): non Federazione
Autonoma della Stampa Italiana; e neanche Federazione Anti Sfiga Italiana
(se uno non ci crede, consulti Google…).
In estrema sintesi, facciamo pure in modo capillare campagne di sensibilizzazione
e di proselitismo per la nostra F.A.S.I., ma mettiamo anche in conto che
un sardo emigrato non necessariamente è interessato a unirsi a
noi solo perché abbiamo ereditato la stessa tradizione, anzi può
succedere che con calcolata determinazione voglia evitare a ogni costo
questo “embrassons nous”.
Quindi, con l’apporto rivitalizzante dei giovani – nel numero
realisticamente raggiungibile, non nella ottimistica misura che ci possono
suggerire il mito e l’utopia – cerchiamo di mantenere ferma
la passione, dentro i locali fisici dei circoli, di chi da parecchi decenni
i circoli ha contribuito a fondarli e a farli vivere: gli anziani e i
vecchi non devono essere emarginati.
A me piacerebbe molto che i nostri soci anziani e vecchi dedicassero il
loro tempo libero a leggere regolarmente i libri presenti nelle nostre
biblioteche di circolo (in generale, peraltro, molto ricche di testi)
ma non li possiamo obbligare.
Una cosa però ad essi possiamo chiedere: fate i libri viventi che
raccontano la storia di quel circolo. Voi lo potete fare meglio di qualsiasi
libro della biblioteca. Mettetevi a disposizione per qualche ora, a turno,
come viene fatto in Danimarca (ma un esperimento c’è anche
a Milano), come libri “aperti” di una biblioteca umana, vivente.
Raccontate la storia del circolo, quella del vostro paese, quella della
Sardegna…
A voi, a noi auguriamo lunga vita perché – finché
ci sarete, finché ci saremo – i nostri circoli non chiuderanno.
Almeno come “biblioteche viventi” che magari un domani possono
anche invogliare qualcuno a sfogliare i libri depositati negli scaffali.
In ogni caso, in questo modo recupereremmo anche una caratteristica della
nostra cultura sarda che per secoli è stata esclusivamente orale.
È stato scritto: «Nella cultura orale si sa solo ciò
che si ricorda e l’imperativo è dunque quello di trasmettere
il sapere in modo tale da facilitare il più possibile la memorizzazione.
Si spiegano così le ripetizioni (tipiche dei proverbi popolari),
le tipizzazioni e gli elenchi caratteristici della tradizione orale. La
cultura orale è inoltre coinvolgente, dialogica, interattiva e
ha un orientamento concreto, che si riflette nel frequente uso di metafore».
E che metafora è più bella di questa in uso in Africa dove
la cultura orale non ha cessato di essere dominante? Dice un vecchio proverbio
africano: «Quando muore un vecchio, muore una biblioteca».
Ai nostri soci anziani auguriamo lunga vita, come quella dei longevi e
superlongevi (centenari e supercentenari) studiati da Luca Deiana per
il progetto AKeA (“A Kent’Annos”); per gli ultimi decenni
gli chiediamo di continuare a coltivare le radici sarde trasformandosi
in “libri aperti”. Possono essere loro i più efficaci
testimonial di un avvenire non incerto per i circoli della F.A.S.I. e
in generale della possibilità di salvaguardia dell’identità
sarda fuori della Sardegna; una salvaguardia, beninteso, che non deve
essere fine a sé stessa ma che deve essere orientata a dare un
contributo per un futuro migliore (unu mezus tempus benidore) della nostra
isola.
Un progetto culturale
pro su tempus benidore. In chiusura voglio ricordare che il contributo
dei sardi emigrati come insieme di proposte concrete per migliorare la
situazione economica e sociale dell’isola viene spesso ignorato
dai sardi residenti.
Basta pensare che gli atti del Primo congresso nazionale sardo tenuto
a Roma in Castel Sant’Angelo dal 10 al 15 maggio 1914 non sono mai
stati ristampati. Toccherà storicamente ai sardi emigrati di oggi:
1) ristampare quelle pagine; 2) organizzare un convegno che sia occasione
perché le intelligenze sarde fuori dell’isola possano confrontarsi
su progetti concreti finalizzati allo sviluppo delle condizioni dell’isola
sia dal punto di vista materiale che culturale; 3) pubblicare tempestivamente
gli atti di questi incontri di studio; 4) proporre questi atti alla discussione
in Sardegna. (04-11-20119
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