(da
Pitzinnos minores -
Reminiscenze d’infanzia)
A Nuoro da qualche tempo, si era dato inizio alla costruzione del
santuario della Madonna delle Grazie, questo, nel quartiere di Ponte
Ferru , ai confini di Seuna , proprio di fronte si poteva ammirare
il prestigioso “Palazzo degli Impiegati ”, residenza dei
professionisti e della Nuoro bene.
Un luogo molto bello, amato, specie dagli anziani che, seduti nel
vecchio muraglione costruito in granito, accanto a una favolosa fontanella
d’acqua sorgiva nelle giornate afose amavano trascorrere momenti
di conversazione, godendosi la salutare frescura, e magari spettegolando
i fatti della comunità nuorese.
Quel sito, piaceva tanto anche ai bambini, che sentivano una calda
e sfavillante atmosfera, che per loro, era come vivere in un mondo
fantastico, liberi di muoversi e destreggiarsi in piena libertà.
La vecchia struttura della parrocchia, poco distante, costruita nel
XII° secolo, era divenuta ormai da qualche tempo insufficiente
per la popolosa comunità religiosa che vi gravitava, e comunque,
aveva urgenti necessità di restauri, poiché, era diventata
pericolante e quindi considerata inaccessibile per celebrare le normali
funzioni religiose.
Il nuovo edificio era di dimensioni gigantesche, probabilmente, il
più grande complesso urbanistico di Nuoro, con previsto nel
mega-progetto persino una sala cinematografica, la realizzazione di
un ampio campo da calcio. Altre numerose sale e saloni per conferenze
e varie attività di aggregazione.
Se pur in fase di realizzazione, erano state concesse per l’utilizzo
alcuni ambienti adoperati come residenza dei preti e la navata centrale
per la celebrazione delle messe, dove era permesso a tutti il libero
accesso.
Tanti bambini, non si fermavano in quella navata, luogo importante
per seguire le attività religiose e di aggregazione, ma utilizzavano
come riferimento quelle parti ancora in fase di costruzione, sia per
incontrarsi, ma anche per giocare nei modi più impensabili,
spesso, con azioni più che pericolose.
Questo, in ogni caso, poteva avvenire alla conclusione dei turni di
lavoro delle maestranze o nei giorni festivi, ma rigorosamente, in
assenza dei lavoratori e all’insaputa dei sacerdoti.
Il problema, diventava serio, quando i tre religiosi, alloggiati in
alcuni degli spazi appena accennati, si accorgevano dei movimenti
sospetti dei birbanti all’interno del cantiere.
Padre Chiara, era un uomo molto disponibile e tenero, e quindi, riuscivano
facilmente a raggirarlo, mentre Padre Giuseppe e specialmente Padre
Mario, malgrado fosse innegabile, la loro grande bontà, erano
decisamente più severi e precisi, e se da loro scoperti, riuscivano
a soffocare, ogni forma di comportamento sconveniente o azzardato.
Molto spesso, Padre Mario, per le marachelle scoperte, puniva in modo
esemplare, l’intero gruppo affinchè servisse come dimostrazione
e da lezione per tutti.
Comunque, questo non fermava i ragazzi, loro continuavano a giocare
in modo scatenato e spontaneo, ma con un occhio costantemente vigile,
evitando di essere visti da sguardi indiscreti dei prelati o di quanti
potevano a loro riferire.
La struttura portante, costruita, quasi interamente in granito era
pressoché completata, perciò, al suo interno, vi erano
numerosi piani con una serie di vani molto alti, che si prestavano
in modo congeniale per una lunga serie di giochi proibiti e quotidianamente
andavano a sperimentare.
Tra questi, uno molto rischioso era il riuscire a saltare dai solai
superiori verso quelli inferiori, con sotto un mucchio di sola sabbia
che serviva per attutire il colpo. Quella sabbia scaricata precedentemente
con carrelli-trasportatori per l’esecuzione dei lavori del piano,
veniva in qualche modo sparsa per il cantiere.
Non da trascurare, erano per l’appunto, questi carrelli metallici
per il trasporto dei materiali che si muovevano su pericolose rotaie,
attraverso dei percorsi prestabiliti, superando le vertiginose altezze
per raggiungere i piani soprastanti.
I carrelli, del tutto simili a quelli che ancora oggi, si possono
ammirare nelle diapositive o filmati delle vecchie miniere, erano
un vero spasso, specie, quando questi si trovavano nei piani alti.
Con un energico e faticoso lavoro di gruppo, si riusciva a metterli
in movimento, facendoli scendere a forte velocità lungo i binari,
sino a raggiungere il punto più basso.
Un gioco estremamente pericoloso, che però, affascinava i fanciulli,
incoscienti dei rischi che quotidianamente correvano.
Luiseddu, in compagnia di Gonario e Piero, quando non erano in su
cunzau, o comunque, non avevano altri impegni o commissioni da eseguire,
come riferimento per lo svago principale, avevano esclusivamente la
costruenda struttura delle Grazie. Di conseguenza, ogni qualvolta
facevano rientro dalla campagna, una piccola sosta a casa, e poi,
via di corsa, verso i giochi sfrenati tra i piani in costruzione della
chiesa.
Fortunatamente, non avevano subìto mai infortuni di una certa
gravità, più che altro, sopportavano profonde escoriazioni
o abrasioni, ma senza serie conseguenze.
Dovettero purtroppo e loro malgrado assistere involontariamente, a
una disgrazia mortale che aveva coinvolto un operaio, precipitato
da un piano superiore in uno dei lati del cantiere.
L’incidente aveva scosso non poco i ragazzi, anche se, quasi
immediatamente, il corpo dello sfortunato, era stato coperto da un
telo bianco e tenuti i ragazzi e le persone sopragiunte a debita distanza.
In ogni modo, spinti da uno stato emotivo, per qualche tempo evitarono
di giocare nelle vicinanze della drammatica disgrazia.
Luiseddu, aveva legato amichevolmente in modo profondo con Gratzianeddu,
un suo coetaneo, che oltre a divertirsi con lui nella chiesa in costruzione,
veniva coinvolto continuamente in giochi improntati alla spensieratezza.
La mamma, tzia Grassiarosa, molto frequentemente, le concedeva il
permesso di recarsi insieme all’amico a su cunzau, e restarvi
addirittura per la notte, e spesso in situazioni particolari, anche
per una settimana.
Un bel rapporto di sincera amicizia, con una consonanza caratteriale
effettivamente fuori dal comune, di conseguenza, ripetutamente, i
due venivano perfino, scambiati per fratelli.
Era un giorno festivo, probabilmente, la fine di agosto o gli inizi
di settembre, un tempo splendido e quindi l’occasione propizia
per recarsi in campagna verso su Cunzau.
Luiseddu e l’amico Gratzianeddu, se pur entrambi avevano solo
sette anni, si recarono da soli nella splendida tenuta di su Grumene.
Si erano divertiti per tutto il giorno arrampicandosi tra gli alberi
alla ricerca di nidi, e mostrando così, ognuno la propria abilità.
Il grande e continuo movimento con le forti energie sprecate, quasi
certamente, aveva contribuito a far accrescere in loro, una forte
sensazione di appetito.
Poiché, in sa domo , non vi era più niente da poter
mettere sotto i denti, e l’uva, se pur non ancora completamente
matura, li aveva già stufati, armati di alcuni coltelli presenti
tra gli utensili della casa, i due, andarono verso un piccolo e fitto
bosco con piante di fichi d’india che, si potevano ammirare
dal podere posto frontalmente a su cunzau.
Giunti sul posto, come spesso avevano potuto apprendere da tziu Badore,
con un ramo, tagliato da uno dei tanti cespugli di lentischio, si
allestirono una piccola ma pratica scopetta, che utilizzarono per
liberare i frutti delle spine, presenti in modo numeroso nei frutti
di fico d’india.
Data una bella spazzolata, ai migliori adocchiati, iniziarono la raccolta
dei frutti, ne accumularono una ventina, per poi dare la carica con
i coltelli, nel cercare alla meglio di sbucciarli. L’operazione
non era semplice, poiché, in altre occasioni, era tziu Badore
che faceva quell’operazione.
Comunque, ben presto, acquisirono una certa pratica, e man-mano che
il fico veniva liberato dalla buccia, andava senza esitazione direttamente
in bocca.
Questi frutti, probabilmente per il lungo digiunare e la fame accumulata,
sembravano ancora più gustosi e buoni del solito.
Vista la loro bontà, uno tira l’altro, e nel giro di
qualche minuto, avevano divorato completamente quanto avevano raccolto.
Si sentivano pieni, ma non appagati, e rifletterono se fosse il caso
di rimettersi in moto per prelevare ancora altri piacevoli fichi.
Gratzianeddu, che aveva meno occasioni di stare in campagna, e quindi,
di poter assaporare, queste stupende delizie, disse: “Dai che
ricominciamo, io ho ancora tanta fame, e poi, sono veramente buoni”.
Luiseddu, era informato da Tzia Frantzisca, di un problema, non di
poco conto, che poteva sorgere consumando un numero eccessivo di quei
frutti, poiché, questo tipo di alimento, era astringente e
quindi si potevano avere serie difficoltà per andare in modo
regolare di corpo.
“Gratzianè – esordì Luiseddu – mamma
e anche babbo, mi hanno sempre raccomandato di non mangiarne tanti,
perché fanno male, addirittura, mi hanno confermato che, mangiandone
in abbondanza, si rischia di avere un blocco intestinale, e non si
riuscirà più ad andare normalmente di corpo”.
L’amichetto, con sguardo attonito replicò immediatamente:
“Davvero? Fa questo effetto? E non ti fa andare più in
gabinetto?”.
Luiseddu, pronto: “Certo, dobbiamo fermarci, e appena rientreremo
a Nuoro, mangeremo qualcosa a casa, dai, lasciamo stare e andiamo”.
A Gratzianeddu, il fatto di non andare di corpo, interessava parecchio,
e con tono più sicuro e deciso, iniziò un suo discorso:
“Luisè, la cosa mi sembra molto interessante. Pensa che,
se mangiando fichi d’india in abbondanza, possiamo avere la
fortuna di non poter andare più di corpo. Per me, è
una buona opportunità. Se noi, ne mangiamo veramente tanti,
e poi, ancora tanti, oltre al gusto, poiché ci piacciono, se
la cosa ci riesce, avremo veramente, l’occasione di chiudere
per sempre il problema del gabinetto. Pensa, a quanto tempo sarà
risparmiato, senza stare lì, ogni giorno a scaricare, quando
il tutto, può stare dentro il nostro corpo. In questo modo,
avremo molto più tempo per noi, e per i nostri giochi. Che
ne dici Tu?”.
Luiseddu, perplesso, ma quasi affascinato dal discorso di Gratzianeddu,
rifletté, stentando a darle quella risposta positiva che l’amico
si aspettava, poi: “Non so, io ho paura, - Replicava, con una
certa insicurezza, Luiseddu – Certo, recuperare tutto questo
tempo che perdiamo per andare di corpo, sarebbe veramente bello”.
Tuttavia incalzò l’amico: “Dai Luisè, io,
inizio a raccoglierle, e datti da fare anche tu, vedrai sarà
la nostra fortuna”.
E così, anche Luiseddu se pur leggermente incerto e perplesso,
acconsentì.
I due amici, in sintonia, raccolsero, sbucciarono e divorarono, sembravano
impegnati nella catena di montaggio di un qualsiasi stabilimento industriale.
Ne mangiarono veramente tante, che, a un certo punto, si fermarono
sfiniti. Si sentirono la pancia piena come se fosse stata gonfiata
con l’aria compressa.
Trascorso qualche minuto “Ohi mi fa molto male la pancia –
disse Gratzianeddu – Non riesco a resisterlo, mi sembra che,
devo mio malgrado, abbandonare l’idea di non andare più
di corpo”.
“Pure io – fu la replica immediata di Luiseddu –
interrompo all'istante”, e così, correndo dietro una
delle tante piante, si scende i calzoni corti che indossava. Di mutande
non ne conosceva neanche l’esistenza, e piegando le gambe, si
mise in posa per poter espellere quanto in quel momento gli procurava
dolore.
Immediatamente, anche l’amichetto, con tempi da primatista olimpionico,
replicò gli stessi movimenti, si piazzò al suo fianco.
Entrambi cercavano con pazienza e notevole sofferenza nell’intento
voluto, ma niente.
“Dai, ancora un piccolo sforzo – disse Luiseddu –
Altrimenti, saranno guai seri”.
Gratzianeddu, incominciava a perdere la speranza, di poter andare
di corpo, scontrarsi così con la disperazione. Non era a meno,
neanche Luiseddu.
Le lacrime iniziavano a scendere, sia per gli sforzi continui che
erano costretti a fare, ma anche, per l’immensa paura, che si
faceva sempre più intensa e angosciante.
“Basta, non ci riesco più, dobbiamo rientrare immediatamente
a Nuoro, così, ci porteranno dal dottore e lui sicuramente
saprà come comportarsi, ajò Gratzianè”.
Così, all'istante, si sollevò i calzoncini, e seguito
a ruota dall’amico.
S’incamminarono, verso Nuoro, la distanza era tanta. Ci sarebbe
voluta almeno un’ora per raggiungere la città, ma purtroppo,
non avevano altra scelta.
Ecco che, quando avevano percorso alcuni chilometri di strada: “Dai
Gratzianè, io forse adesso ci riesco, mi sento spingere in
modo terribile, ci provo nuovamente”, e di corsa dietro un cespuglio
di lentischio, calzoni giù, gambe piegate e la consueta pausa.
Stimolato dal compagno, anche Gratzianeddu: stessi movimenti e in
compagnia dell’amichetto, in attesa dell’evento.
L’evento purtroppo non si verificava, mentre diventavano, ancora
più forti e insopportabili, i dolori al basso ventre.
“Basta – riportandosi su i pantaloni, esclamava Luiseddu
– Io mi sento morire, dobbiamo correre a casa”.
“Hai ragione - ripeté il compagno d’avventura –
Mi sento morire pure io, non so se questa saremo in grado di superarla”.
E con andatura rapida, ripresero il percorso, accompagnato da continui
lamenti e singhiozzi.
I due amici, giunsero nelle vicinanze delle proprie abitazioni, che
non erano distanti tra di loro, sfiniti fisicamente e terrorizzati
per l’accaduto.
Non ebbero neanche le forze di salutarsi indirizzandosi con preoccupazione
ognuno verso la propria abitazione.
Luiseddu, vide nell’atrio della propria porta a tzia Frantzisca
ed esclamava: “Mamma, sto morendo, mi fa molto male la pancia,
non resisto”.
La donna allarmata, afferrò per mano il bambino e gli chiese:
“Fizu mè, ite t’àt sutzessu? ”.
“Ho mangiato tante fichi d’india, e non riesco più
ad andare di corpo, chiamate dottor Marcello, altrimenti muoio”.
Tzia Frantzisca, accostandosi verso una rudimentale vasca, utilizzata
per lavare la biancheria, posizionata nel piccolo cortile di casa,
prese in mano un pezzo di sapone fatto artigianalmente con lardo di
maiale e soda.
Si rivolse al ragazzo: “Quante volte ti ho detto che quei frutti
sono astringenti? E che, si devono mangiare con moderazione, e per
giunta, quando son freschi”.
Senza aspettarsi nessuna risposta, con in mano un coltellino, da quel
sapone, iniziò a tagliarne alcuni pezzetti, simili a delle
supposte, poi aggiungeva. “Dai Luisè, abbassati i pantaloni
che cercheremo di fare qualcosa”.
La paura, ma più che altro il dolore, non le permettevano a
Luiseddu di effettuare nessuna tipo di replica.
La donna, ripiegò il ragazzo in avanti, facendole poggiare
il capo sopra la vasca da lavare, e gli infilava nel sederino il frammento
di sapone.
Ecco che, nello stesso momento, si sentirono degli strilli orribili
dietro la porta di casa.
Lia, una delle sorelle di Luiseddu, corse verso i richiami strazianti,
e subito, mobilitava l’attenzione della mamma esclamando: “Ma!
benide, beste Gratzianeddu disperau ”.
Nello stesso istante, dall’altra parte, continuava la disperazione
di Luiseddu, che con lacrime, voci, e dolenti segnali di nervosismo
e agitazione.
Tzia Frantzisca, sapeva che, tzia Grassiarosa mamma di Gratzianeddu,
era fuori città per commissioni, di conseguenza, si sentiva
in dovere di intervenire nei confronti del fanciullo.
Venendo a conoscenza che erano insieme in su cunzau, collegò
le motivazioni delle complicanze dei due, deducendo che, entrambi
avevano fatto lo stesso abuso, e quindi, erano affetti dalla stessa
patologia.
“Lì – si rivolse verso la figlia – digli
di entrare e portamelo subito qui”.
Gratzianeddu, piangente, con le mani attorno al basso ventre, e la
schiena piegata in avanti, si presentò davanti alla donna.
Questa, senza un minimo di esitazione, le disse: “Falati sos
pantalones e poneti incurbiau comente a Luiseddu ”.
Il ragazzo, comprensibilmente imbarazzato ma spinto dal dolore, obbedì
e si calò i pantaloni, poggiando la testa accanto a quella
dell’amico, sopra la vasca.
Tzia Frantzisca, ripetè anche con lui la stessa operazione,
eseguita un attimo prima nei confronti del proprio figliolo, infilando
nel sederino del ragazzo un secondo frammento di sapone.
Passarono, alcuni minuti, ma i ragazzi non riuscirono a espellere
un bel niente, mentre con l’azione del sapone, i dolori erano
sempre più forti e frequenti, ma sentirono come un tappo che
bloccava l’espulsione delle feci.
A un certo punto, la povera donna, assordata, da incessanti e quasi
inumani strilli, sicuramente addolorata lei stessa, ripetè
l’operazione con comprensibile apprensione.
Da lì a qualche minuto ancora, la pancia dei due malcapitati,
iniziò un vigoroso movimento, con rumori preoccupanti, e con
dolori sempre più acuti, ma di andare di corpo, nessun segnale.
Quando anche tzia Frantzisca, stava iniziando a perdere la speranza
e valutando se chiamare effettivamente il medico, provò l’ennesimo
tentativo, sapone in mano, e via, un’altra supposta.
Una manciata
di secondi, e si sentì all’interno del ventre di Luiseddu,
un turbolento spostamento, questo, comparabile a una centralina idraulica,
e via, una serie esplosive di feci, che avevano imbrattato il pavimento
attorno alla vasca e colorato le gambe del fanciullo con un ampio
stratto di escrementi.
Giusto
il tempo, per la donna, di compiere un cenno sulla fronte in senso
gioioso e di liberazione, che anche Gratzianeddu, effettuava la sua
improvvisa e massiccia scarica esplosiva.
Tzia Frantzisca, dopo aver rivolto gli occhi verso il cielo e con
un “Laudau siete Zesu Gristu ” si apprestò a impugnare
un tubo in gomma, che abitualmente collegava al rubinetto della vasca
per pulire o rinfrescare il cortile.
In quel caso, utilizzò immediatamente il flessibile, per liberare
quella superficie prospiciente, dalle considerevoli feci dei due malcapitati,
e con la pressione al massimo, indirizzò il tutto, verso un
sifone di raccolta, distante qualche metro.
Mentre la donna era intenta al nauseante lavoro di pulizia tutt’intorno,
i ragazzi, con ripetuti gemiti, continuarono i frequenti bombardamenti
da seconda guerra mondiale.
A distanza di almeno una mezzora, i tuoni e fulmini umani, sembrarono
ridursi, e quindi, la povera donna rivolse il flusso dell’acqua
verso i sederini ben arrossati e le gambe dei due. Infine diede loro
un pezzo di stoffa da utilizzarsi come asciugamano, e con tono duro
ma dolente, li invitò ad asciugarsi e indossare nuovamente
i calzoncini.
Tzia Frantzisca, ne ebbe ancora per qualche minuto ripulendo a fondo
il cortile, che per quell’occasione, sembrava più che
altro un vero letamaio, anche se, il clima maleodorante durò
ancora per parecchio tempo.
I due, si sentivano tanto umiliati che, di conseguenza, si erano rifugiati,
come per autopunirsi, in un angolo tra i gradini che portavano al
piano superiore.
Finchè, a un certo punto, concluso il lavoro si avvicinò,
la donna che, con l’intento di dare una giusta lezione ai due
birbanti. Trovandoli impietriti, in quanto si aspettavano, una forte
strillata, e magari qualche sonora sberla, cercarono di voltare il
proprio viso verso la parte opposta.
Invece, non fu così, Tzia Frantzisca, capito il loro stato
d’animo e la loro angoscia, convinta, che quanto successo, sicuramente,
sarebbe servito come lezione più di qualche sberla, si limitò
a dire soltanto: “Oggi avete costatato di persona cosa significhi
esagerare nel mangiare i fichi d’india. Avete avuto una lezione,
che potevate sicuramente evitare. Ricordatevi questo giorno. Non ho
altro da dirvi”.
Ogni commento è puramente superfluo.
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