F
U R I C U
di Nino Fois
Un leggero vento di maestrale
spingeva la barca verso terra.
Le braccia dei marinai riposavano dopo tanta fatica durata per buona
parte della notte. Avevano salpato una trentina di nasse colme di
aragoste ed era davvero un ben di Dio, dopo un lungo periodo di burrasca.
Il levante, soffiando rabbiosamente per quasi tutta una settimana,
aveva sconvolto il golfo dell'Asinara rendendolo un mare di schiuma.
Zio Peppino, seduto a timone, con l'inseparabile pipa fra i denti,
osservando il chiarore del crepuscolo che delineavano le colline della
Romangia all'orizzonte, pensava: - Il ragazzo ci ha portato fortuna
Proprio come quando io stesso , per la prima volta, andai a mare col
mio povero babbo
Si
La storia si ripete
Avevo proprio
sette anni, come lui, quando mi imbarcai per la prima volta. Oh, quanto
tempo è passato!
A mare son cresciuto, ho sofferto e
gioito, ho vissuto giorni di sconforto e ho sperato
Tanto ho
sperato
Sempre ho sperato, anche con la morte in faccia, quando,
fra i marosi, in piedi a prua, mi rideva beffarda!
"
Il ragazzo era Furicu, un piccolo pescatore di appena sette anni.
Aveva ritirato la pagella della seconda elementare da qualche giorno
ed era diventato un "pizzinnu di bordhu", un mozzo.
"Inizierà a aggottare - aveva detto zio Peppino alla moglie,
indicando il ragazzo e caricandogli un remo sulle spalle - e, poi,
piano piano, diventerà uomo
"
E di acqua Furicu, per la verità, quella notte, ne aveva buttato
ben poca: solo il tanto che gocciolava dalle nasse, dalle cime e dalle
mani bagnate dei pescatori.
Cionondimeno si era stancato a stare tutta la notte sveglio e, per
buona parte del tempo, con i remi in mano sulla secca di Miniellu.
Quando venne spiegata la vela per il rientro il ragazzo ebbe il permesso
di riposare. Si era adagiato sul pagliolo poppiero tra due ceste,
si era coperto con un telone e, in breve aveva preso sonno, cullato
dal dondolìo delle onde.
Anche i pescatori, seduti sul pagliolo, la schiena appoggiata sulle
ordinate, le braccia e la testa sui banchi, si erano appisolati.
Solo Zio Peppino e un giovanotto erano rimasti svegli.
Il vecchio, la mano destra sulla barra del timone, la sinistra sulla
scotta e la fedelissima pipa in bocca, di tanto in tanto dava uno
sguardo al ragazzo che aveva disteso ai suoi piedi, sprofondato in
un sonno sereno, quasi angelico.
"Chissà che cosa sta sognando - pensava nel guardarlo
- o, forse, non ha tempo per sognare, tanto è stanco
Furicu deve diventare uomo
Uomo di mare come me. E' il fratello
di mia moglie, ha quasi il sangue di miei figli, lui e
quindi,
quasi il sangue mio."
E, compiaciuto, lo riguardava e continuava a pensare e il pensiero
richiamava il passato. Il suo passato e quello molto breve di Furicu
che, come lui, era rimasto orfano appena compiuti i due anni. Anche
lui aveva perduto la mamma ancora bambinetto.
A questo pensiero ricordava Furicu fra le braccia della moglie, sorella
del piccolo al quale faceva da mamma. E nel bambino vedeva se stesso,
piccolo, scalzo, con i remi sulle spalle, le mani tenere insanguinate
dallo strisciare dei cavi nel calare o salpare le nasse; incallite
dal remo salato
Incallite da non poterle nemmeno chiudere a
pugno, da non poter accarezzare la sposa, i figli
I pescatori dormivano tutti.
Solamente si udiva lo scivolare leggero dello scafo sull'onde in quel
mare immenso, inargentato dai primi raggi del sole radente.
Un Gabbiano nel cielo terso seguiva, nel suo candore, la vela bianca.
Zio Peppino, con la sinistra si tolse la pipa di bocca, la infilò
tra la barra del timone e le dita e, con una delicatezza che non aveva
mai usato con alcuno, si chinò sul bambino, gli prese le mani
e gli baciò le palme.
Furicu abozzò un sorriso e seguitò a dormire.
Forse aveva trovato il tempo per sognare.
Un sogno molto breve.
Le giornate, le settimane, i mesi passarono inseguiti dalle onde,
a volte morbide, delicate, accarezzevoli, a volte imbronciate, torbide,
turbolente, minacciose, scomposte.
E, man mano che passavano le onde e trascorreva il tempo, le mani
di Furicu crescevano e s'indurivano di sale. Prima cominciò
a lasciare a mare vogate leggere, il piccolo Furicu, accompagnando
il palamito che veniva calato o salpato e poi, man mano che passavano
gli anni e crescevano i muscoli, gli scalmi dovevano resistere il
vigore e il ritmo di remi sempre più determinati.
E niente mai gli veniva insegnato o imposto se non dall'esperienza
o dall'osservazione dei più grandi che, indirettamente, erano
pur i suoi maestri.
"Sia di dossu e agguanta di faccia! Vai a Grigari! Arribi a l'ischarùmmu!
Poni la prua a Mezionni!
" - Scia di sinistro tenendo fermo
il remo destro! Voga verso grecale! Arriva al ciglio della secca!
Dirigi la prua verso sud!"
Comandi che, col passare del tempo, non solo erano divenuti familiari,
ma che egli ormai preveniva ed eseguiva puntualmente, senza alcuna
difficoltà e senza quasi rendersene conto proprio come quando,
affamato, "vogava" con la forchetta, arrotolando gli spaghetti
saporiti che preparava la sorella al rientro delle barche a terra.
Proprio delle barche, pechè, divenuto giovanotto a Furicu era
stato affidato il comando di una delle due barche della famiglia.
Non aveva ancora fatto il servizio militare il nostro pescatore e
già era divenuto comandante di una delle due barche della famiglia:
"Spagnoletta", una barca leggera e marina, ammirata da tutti
gli uomini di mare del Golfo dell'Asinara.
Era stata battezzata col nome di "San Giuseppe" ma, confidenzialmente
Furicu, quelli della sua famiglia e gli uomini di bordo la chiamavano
"L'IPAGNURETTA".
Era una barca a vela latina, proprio tipo gozzetto spagnolo, leggera
e veloce e bella a vedersi. Dalla chiglia alla cinta era blu-mare
e dalla cinta agli ombrinali era celeste. Il bordo e la coperta erano
bianchi come i frangenti. Una barca generosa e docile, sottommessa
ai comandi del suo Furicu che riusciva a governarla, impartendo ordini
perentori ai suoi barcaioli, con qualsiasi mare.
Anche l'altra barca, più grande, più tozza e meno veloce
ma buona a mare quanto la prima, aveva un nome di santo: "San
Michele". Anch'essa, confidenzialmente, veniva chiamata "LU
MICHERI" ed era comandata dal vecchio Zio Peppino.
A quei tempi, negli anni trenta, si navigava a vela e a remi solcando
l'intero Golfo, d'estate per la pesca alle aragoste, con le nasse
e, nelle altre stagioni, con i palamiti. Col levante le barche andavano
a "mare di fuori", fuori del Golfo, nel mare di ponente
(mare di Alghero).
Raggiunta l'età, Furicu dovette abbandonare il lavoro per il
servizio militare che svolse in marina con grande senso del dovere.
Vedendolo così ben tarchiato, non grasso, anzi asciutto anche
se bassottino, il Comandante che lo prese in consegna a La Spezia,
gli chiese di fargli vedere le mani. Furicu se le asciugò dal
sudore sfregandole sui pantaloni e, con molto garbo, si fece dare
un fiammifero che accese passandolo sul palmo.
Il Signor Comandante spalancò gli occhi ma non disse niente,
proprio perché era
UN COMANDANTE.
Quando tornò a casa, dopo il servizio militare, Furicu trovò
il suo posto a bordo occupato dal nipote più grande che ormai
aveva compiuto i diciassette anni.
Pensò, allora, di farsi una famiglia e di comprarsi una barca
tutta sua.
Così fece: ad Alghero acquistò una bella spagnoletta,
Nostra Signora di Valverde e si trovò una fidanzata che sposò
di lì a poco. Cambiò, logicamente, anche l'equipaggio
scegliendo uomini fra i suoi amici più cari.
La vita diventava sempre più dura anche se allietata dalla
nascita di due figli: un maschietto e una femminuccia.
Le due barche sulle quali aveva lavorato sin dalla tenera età
di otto anni, divennero le sue concorrenti spietate perché
vennero dotate di motori a bordo.
Per Furicu il mare, il suo mare che conosceva palmo a palmo, divenne
più grande, molto più grande, immenso. La sua spagnoletta,
per quanto veloce e generosa, non poteva competere con le barche a
motore.
Quante volte il nostro pescatore, arrivando a terra dopo che le altre
barche avevano scaricato il pesce sul carretto del grossista, era
stato costretto a gettare a mare la fatica di tutta una notte di lavoro!
Non si poteva andare avanti così! O il motore alla barca o
un altro lavoro.
Furicu preferì vendere il Valverde e imbarcarsi nella marina
mercantile.
Non era il suo mestiere, ma l'importante era restare a mare!
Al suo mare che lo aveva visto nascere e dal quale aveva imparato
tante cose. Aveva imparato soprattutto a rispettarlo e a non temerlo.
E il mare per Furicu era la vita con la sua serenità e con
le sue burrasche, con l'esser pronto a tutto, col prevedere il tempo
dalla più insignificante nuvoletta, che aveva il suo significato,
o dal primo soffio di vento.
Vivere significava andare sottovento, col mare di prua, ridurre le
vele fino ad ammainare e tirare a remi, non farsi sfuggire il timone
dalla mano anche se preso da un colpo di mare improvviso, spugnare
acqua da bordo e stringere i denti anche nel momento dell'invocazione
dell'aiuto divino. "Pregare a denti stretti e senza fermare mai
le mani". Questo era il suo moto la cui attuazione tante volte
lo aveva tolto dalle difficoltà della vita, dai colpi di mare
improvvisi o da un'onda minacciosa che cerca di prenderti da un bordo:
"La prua sempre a mare!" Era un suggerimento che dava agli
altri e un comando che impartiva a se stesso. "No mullà
mai li mani si no sei siguru d'abé li pedi in terra" altra
massima che il mare gli aveva insegnato, piena di significati, aperta
a qualsiasi circostanza della vita!
Durante la seconda guerra mondiale si sbarcò per stare vicino
alla famiglia ma, a terra, lavorò per soli quattordici giorni.
Tornò a mare imbarcandosi a bordo a l'Onda che faceva da dragamine
nel Mar Egeo.
Conclusa quella attività, l'Onda tornò a Portotorres
e fu adibita alla pesca nel Golfo Dell'Asinara. Pescava per le Forze
Armate Italiane tra il '42 e il '43.
La guerra era arrivata anche da noi ma Furicu tutti i giorni tornava
a casa, nella sua famiglia che si era arrichita del terzo figlio:
Gavina. Sembrava un sogno!
E fu un sogno!
Proprio lì, a due passi da casa, nel suo mare, svolgendo il
suo lavoro di pescatore, Furicu cadde, colpito dalle cannonate di
un indegno nemico che sconsideratamente affondò l'Onda spegnendo
sette vite innocenti.
Era il 6 maggio del 1943.
A nulla valsero gli avvertimenti che, pur inavvertitamente, lo stesso
sommergibile nemico diede prima dell'attacco. Si era, infatti, ammagliato
nella rete dell'Onda quindici giorni prima dell'affondamento. E a
nulla valse che l'equipaggio immediatamente comunicasse l'incidente
al capitano di porto e all'armatore. Entrambi cercarono di convincere
i pescatori che si trattava di un delfino finito nella rete! Maliziosa
ingenuità? Mah! I pescatori non ci credettero. Si intendevano
di mare quanto il Signor Comantante e, senza dubbio, molto di più
del signor armatore.
Ma, il demonio ne sa più di chi se ne intende
La cattiveria,
a volte, è anche stùpida ma, proprio perché è
cattiveria, ottiene quello che vuole.
Dal comandante di porto e dall'armatore l'episodio del sommergibile-delfino,
venne ignorato e archiviato tanto che, quando nei giorni successivi
i marinai dell'Onda dichiararono di volersi sbarcare perché
avevano la certezza di rappresaglie da parte del sommergibile incocciato,
ottennero dall'armatore solamente la minaccia di una denuncia al tribunale
militare, in quanto mobilitati civili, con conseguente fucilazione
alla schiena.
"Si zi fusirèggiani a l'ischina, nosthri figliori abarani
a assé disonoraddi. Pa' murì e murì, è
megliu a murì trabagliendi. Zi cunveni a iscì intantu
da la morthi no si fuggi." (Se veniamo fucilati alla schiena,
i nostri figli saranno disonorati. Se si deve morire, è meglio
morire sul lavoro. Ci conviene uscire a mare, tanto dalla morte non
si può scappare.)
Quel giorno l'Onda uscì a mare con un ritado di tre ore.
Tre ore di discussione con l'armatore, tre ore di minacce, di ricatti,
tre ore di agonia.
Alla fine vinse il più forte e l'Onda mollò gli ormeggi.
Erano le 9.30 del 6 maggio del '43.
Alle ore 10.30, quando gli uomini, in coperta, sceglievano il pesce,
ecco in superficie il Safari, il sommergibile inglese comandato da
un essere senza scrupoli che dà ordine di aprire il fuoco sui
pescatori.
Furicu è il più giovane, ha appena trentott'anni, ma
il sùbdolo fuoco nemico non gli dà il tempo di salvarsi
nel "suo mare": è mutilato degli arti inferiori.
Urla di terrore, invocazioni di nomi di spose e bambini sono soffocati
dal rabbioso rimbombo delle cannonate.
In pochi minuti l'Onda, affondando, crea un gorgo che inghiotte le
vittime, sette innocenti che cadono per tener alto il nome dei figli.
Il più giovane è quel bambino che, ritirata la pagella
della seconda elementare, era andato a bordo con Zio Peppino.
E, a terra chi resta?
Spose affrante e inconsolabili, creaturine prive del braccio paterno
e sparvieri con gli artigli nascosti in morbidi guanti di agnello
innocente.
(7-11-84)
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