Una
sera d’inverno, una come tante da trascorrere tra chiacchiere
e focolare.
A casa nostra ci si apprestava a cenare e io aiutavo mia madre in
cucina. Mio padre, rientrato da poco, teneva in braccio mia sorella,
la terza e più piccola di noi figli; intanto chiedeva a Francesco,
il maggiore, come fosse andata la giornata lavorativa. Mio fratello,
quattordicenne, aveva trascorso gli ultimi anni facendo per lo più
il manovale. Io stessa, che non avevo ancora compiuto i dodici, avevo
già alle spalle lunghi periodi di lavoro.
A quell’epoca – erano gli anni Venti – trascorrere
interamente l’infanzia tra libri e giochi era un lusso che non
tutti potevano permettersi e così, a causa della miseria diffusa,
erano numerosi i bambini costretti ad abbandonare per sempre la scuola
per contribuire, col proprio lavoro, al sostentamento della famiglia.
Francesco e io avevamo imparato a leggere e a scrivere giusto il necessario
per non essere considerati analfabeti; per quanto mi riguardava, avevo
lasciato la scuola quando frequentavo la seconda classe elementare,
mentre lui era arrivato fino alla terza. Forse potevamo considerarci
addirittura fortunati: tra i nostri coetanei, molti non avevano neppure
mai visto i banchi di scuola.
In quel periodo lavoravo in un posto dove si coltivava e si raccoglieva
il tabacco diretto alla grande manifattura di Cagliari, città
che allora, fantasticata da un piccolo paese del Sulcis-Iglesiente
come quello in cui abitavo, mi appariva più lontana di quanto
non fosse realmente. La nostra famiglia, anche se originaria dell’Oristanese,
viveva in quel centro della costa sud-occidentale dell’isola
da lungo tempo. In paese, dove svolgeva l’attività di
cantoniere, mio padre era conosciuto e rispettato; era inoltre un
reduce di quella che è stata chiamata Grande Guerra, grande
soltanto, avrei capito negli anni, per orrore e miseria. La mia paga
mensile, così come quella di mio fratello, andava ad aggiungersi
al magro stipendio che il babbo portava a casa ogni mese. Avrebbe
forse guadagnato di più se fosse stato uno dei tanti minatori
che affollavano la zona, lavorando sullo sfondo di una natura ferita
eppure sempre generosa con l’uomo; però laggiù,
nelle profondità di miniera, non era mai voluto scendere.
Stavamo per sederci a tavola quando qualcuno bussò forte alla
nostra porta.
“Tziu Stefano… Sono Enzo” – disse subito una
voce che tradiva una certa agitazione.
Era uno dei nostri vicini, la cui casa stava proprio di fronte alla
nostra, sull’altro lato della strada. Lo conoscevamo bene.
Mio padre, con la bambina ancora in braccio, andò ad aprire.
“Scusi, tziu Stefano, scusi…”
“Enzo, che è successo?” – chiese il babbo
facendogli cenno di entrare.
Anche la mamma, con espressione preoccupata, si avvicinò alla
porta e prese mia sorella.
Enzo rimase sull’uscio.
“Sono qui per domandarle un favore, tziu Stefano.”
Sebbene fosse più giovane di mio padre solo di pochi anni,
egli, come pure facevano in molti, lo chiamava tziu in segno di rispetto.
“Verranno a prendermi stanotte: ne sono sicuro!” –
esclamò Enzo, sempre fermo sulla porta. Continuò: “Non
voglio darvi guai. Chiedo solo un favore, l’ultimo…”
La voce triste dell’uomo mi colpì e, malgrado la luce
fioca
della stanza, mi parve di scorgere i suoi occhi velati di lacrime.
Dalle sue parole compresi che la visita improvvisa doveva avere a
che fare con gli individui che, con indosso la camicia nera, gironzolavano
regolarmente un po’ ovunque ormai da tanto e che sembravano
non avere altra occupazione che quella di dar fastidio alla gente.
Li chiamavano miliziani.
Più d’una volta, e nel corso degli ultimi mesi piuttosto
di frequente, mi era capitato di vederli in giro per il paese, sempre
con la stessa espressione di sfida stampata sul volto. Per lo più
arrivavano dalla vicina Iglesias, ma qualche stupido “camerata”
lo avevamo pure del posto. Se la prendevano in particolare contro
chiunque fosse di opinione politica diversa dalla loro e si ostinasse
a mantenere le proprie convinzioni. Nella nostra comunità c’erano
allora diversi simpatizzanti del socialismo e, di recente, anche alcuni
del comunismo. Enzo era tra questi ultimi.
Il padre, con cui era vissuto da solo sin da bambino, da quando cioè
la madre era morta prematuramente a causa della tubercolosi, l’aveva
cresciuto nella più fervente fede socialista. Se solo si fosse
occupato di più dei suoi affari, raccontava la gente, invece
di andar dietro a quei ciarlatani del partito, se solo non avesse
lasciato che le sue terre e il suo bestiame andassero alla malora
e se, aggiungeva qualche lingua maligna, non si fosse attaccato alla
bottiglia nel modo in cui aveva fatto, quel suo unico figliolo non
sarebbe finito così. Povero Enzo! Lui che avrebbe potuto vivere
più che dignitosamente, anzi da signore, lui che le terre le
possedeva aveva invece finito col fare il bracciante in quelle altrui
vivendo alla giornata, in povertà, senza sicurezza alcuna per
il domani. E poi tutte quelle idee, quelle fesserie del partito l’avevano
ancor più rovinato: la politica è cosa per chi ha la
pancia piena e non deve andare a spaccarsi la schiena come fa lui!
E ora se ne va dicendo di essere addirittura comunista! Non ha capito
che di questi tempi far politica è pericoloso… Vuole
forse farsi ammazzare come un cane? Dovrebbe cercarsi una brava moglie
e riprendere ad andare in chiesa ché, grazie a Dio, è
battezzato…
Queste le idee, le sentenze, i giudizi della gente; talvolta li avevo
sentiti uscire anche dalla bocca di mia madre. Eppure, per persone
come lui, sarebbe stato giusto provare viva ammirazione: coerenti
fino in fondo nelle loro scelte, avevano il coraggio di non cedere,
persino sotto la violenza delle percosse.
E di botte quel povero diavolo di Enzo ne aveva prese già tante!
Altrettanto numerosi gli avvertimenti. Forse quel giorno aveva ricevuto
l’ennesimo o avuto soltanto un presentimento.
“Tziu Stefano, le chiedo di prendervi cura di lui” –
disse in tono supplichevole, voltandosi appena come per indicare qualcuno.
“Sono solo e non so a chi altri domandarlo…” –
aggiunse.
Francesco e io ci avvicinammo alla porta e vedemmo allora che c’era
anche il suo cane, un meticcio dal pelo corto e nero. Non era di grandi
dimensioni e aveva occhi vispi e un muso che avevo sempre trovato
simpatico.
Enzo lo teneva con sé da quasi un anno; l’aveva raccolto
poco più che cucciolo, mentre girovagava affamato per le strade
appena fuori dal paese. Fra i due doveva esserci stata da subito una
gran bella intesa, riempiendo ognuno la vita randagia dell’altro.
Alle continue domande di noi bambini su come lo avesse chiamato, Enzo
aveva risposto ogni volta dicendo che il suo cane non aveva un nome
vero e proprio.
E ora, se avevo ben capito, voleva affidarcelo.
“Lo farò!” – disse il babbo, interrompendo
il silenzio con decisione.
“Grazie, tziu Stefano, grazie!” – esclamò
il pover’uomo prontamente. Si chinò verso il cane e lo
accarezzò con quelle sue mani grandi e indurite dal lavoro.
La bestiola, scodinzolando, lo guardava come un cristiano; secondo
me, capiva che si stava separando da chi, fino ad allora, era stato
l’unico amico. E noi assistevamo in silenzio, taciti testimoni
dell’addio.
Rialzandosi, si rivolse a tutti: “Abbiate la carità di
tenerlo con voi finché vivrà.”
S’interruppe un istante, poi riprese: “E chiamatelo Comunista!
Sarà questo il suo nome… Gridatelo forte cosicché
tutti sentano!”
La richiesta ci stupì tutti, compreso mio padre che, tuttavia,
diede la sua parola: quel cane senza nome si sarebbe chiamato Comunista.
Ben triste battesimo…
Francesco condusse l’animale nel cortile sul retro; quello s’allontanò
con docile rassegnazione, ma l’ultima occhiata rivolta al padrone
parlava da sola. Enzo, che non s’era mosso dalla soglia, tornò
a dirci che non l’avrebbe scampata, ne era certo.
“Vuole restare qui stanotte?” – domandò titubante
il babbo.
Mia madre gli lanciò un’occhiata fulminea e preoccupata,
ma il nostro vicino si congedò con un rifiuto, ringraziandoci
ripetutamente.
Se ne andò così, mani dentro le tasche della sua giacca
logora che mal lo riparava dal freddo della sera. Seguimmo con lo
sguardo la sua figura che, a passo lento, attraversava la strada.
Scomparve nel buio e poco dopo si udì una porta chiudersi.
Quella notte dormii un sonno agitato da incubi intermittenti in cui
si muovevano inquietanti figure di uomini che facevano irruzione in
casa nostra per portarci via tutti. Al mattino una sensazione d’ansia
accompagnò il mio risveglio e non mi abbandonò nemmeno
quando uscii: alla luce ancora debole della giornata che iniziava
apparentemente con la sua solita quotidianità, scorsi l’uscio
spalancato della casa di Enzo. Mi strinsi nello scialle per proteggermi
dal vento e proseguii oltre, affrettandomi a raggiungere il punto
di ritrovo dove aspettavano le compagne di lavoro.
Da allora non sapemmo più nulla di lui, inghiottito dal buio
di quella sera in cui aveva bussato alla nostra porta. Nessuno in
paese ne ebbe più notizia; qualcuno disse che fosse partito
per il continente dove aveva dei cugini, qualcun altro che fosse fuggito
in Russia. Saltò fuori pure la parola “confino”.
Negli anni ripensai più volte a quell’uomo onesto e gentile,
chiedendomi se lo avessero ucciso subito e seppellito di nascosto
nelle vicinanze o portato a morire in qualche posto lontano.
Il suo cane però visse ancora a lungo, restando con la nostra
famiglia fino all’ultimo dei suoi giorni. E non fu il solo desiderio
di Enzo a essere esaudito. Per lungo tempo per le strade del paese
risuonò il nome Comunista: noi ragazzini, con l’incoscienza
della nostra età, chiamavamo a gran voce il meticcio, divenuto
fedele compagno di giochi e corse a perdifiato fino al mare nelle
rare giornate libere dai doveri. Così come aveva fatto una
volta con il primo amico, seguiva nostro padre al lavoro, scortandolo
discretamente dove prestava servizio; alla sera lo precedeva sempre
sulla via del ritorno e quando vedevamo la sua sagoma scura far capolino
in lontananza era un tripudio di chiassose esclamazioni:
“Comunista, c’è Comunista! Babbo sta arrivando!”
Tutti, proprio tutti, sentivano, ma nessuno ammonì mai mio
padre.
Il fatto, dopo l’iniziale sbigottimento di molti e il sospetto
di pochi, finì per rientrare nella strana normalità
di quei giorni in cui almeno un cane poteva chiamarsi Comunista e,
a differenza della gente, correre libero senza catene.
Al racconto, ora all’interno della raccolta “Il cane Comunista
e altri racconti” di Laura Vargiu (Editore Gli Occhi di Argo,
2012), è stato assegnato il 1° premio, sezione prosa, alla
IIIa edizione del Concorso Letterario “Il Libro Ritrovato”
di Sant’Antioco (luglio 2010); è stato, inoltre, fra
i trenta testi finalisti della Va edizione del Concorso Letterario
“Laboratorio Gutenberg”, Roma (gennaio 2011).
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