(da
Pitzinnos minores -
Reminiscenze d’infanzia)
Il capraio tziu Jacheddu Pitzalis, era un uomo di statura minuscola,
sotto i trentanni di età, di carattere semplice e cordiale.
Era un lontano parente di tzia Frantzisca, sposatosi da qualche tempo
con una sua coetanea, stava costruendosi la casa e per qualche mese
non poteva occuparsi con continuità del suo gregge di ottantaquattro
capre.
Lui, originario di Orune, e non avendo pascoli propri, aveva in affitto
diverse pasture, distanti geograficamente tra loro e, dislocate in
vari comuni del centro Sardegna.
Nel periodo di riferimento, il suo gregge pascolava nelle montagne
tra “sa Serra ” di Orune e il Goceano, ai confini territoriali
con i comuni di Bono e Benetutti.
Una tenuta collocata tra fitti boschi di roverelle e sugherete, in
un punto, a dir poco impervio e poco raggiungibile, con dirupi, dove
soltanto le capre riuscivano a penetrarvi, mentre, per l’uomo,
era impossibile potervi accedere.
L’unico mezzo di locomozione che riusciva nel proprio intento,
azzardando e raggiungendo una postazione per la raccolta del latte,
posta ai confini del pascolo, era un vecchio motocarro, condotto da
un giovane autista, attraverso una pista in fase di costruzione, che
incoscientemente, metteva a repentaglio la propria vita e il mezzo
stesso, ma, per necessità, si vedeva costretto ad affrontare
quei rischi quotidiani.
Tziu Jacheddu aveva chiesto a Tziu Badore: “Badò apo
bisonzu de mi assentare pro unu pacu ‘e tempus dae su bestiamene,
pro cussas domittas chi so fachendhe, noest chi mi podes dare a Luiseddu
pro acudire sas crapas ?
“Ja l’ischis chi su pitzinnu, in cosas gai non ses mai
appentadu, e nondhistichi fachere ”.
“Pro cussu no ti preocupes, ja bi sunu sor bichinos, sor fizos
de Maureddu, - replicò il capraio - appo a fachere a modu de
bi accurtziare nessi sos seros, si nò, ja li dana una manu
issos, e poi, pro sas primas dies, ja abarro puru deo, nessi a l’imparare
a murghere ”.
Luiseddu di solo dieci anni di età, da qualche giorno aveva
concluso l’anno scolastico, ma era interessato alla proposta
dello zio, e così, si mostrava ben disposto, per misurarsi
in una nuova esperienza.
Visto l’interesse e l’entusiasmo del ragazzo, decisero
positivamente, con l’accordo per quella singolare avventura.
L’impegno doveva essere per circa un mese o poco più,
comunque, connesso alla durata degli impegni dell’uomo che aveva
nel paese dovuti alla nuova costruzione edile. Fatto sta, che per
una lunga serie di imprevisti, il periodo si allungò a circa
tre mesi.
L’indomani mattina, alle tre e mezzo, il ragazzo, si sarebbe
dovuto recare all’uscita di Nuoro, poco più avanti del
“Quadrivio ”, nella strada statale diretta verso Orune,
arteria fiancheggiante la ferrovia a scorrimento ridotto, che collegava
la città di Nuoro con Macomer e la Planargia.
A quell’ora, sarebbe passato l’uomo con il motocarro che,
faceva il giro degli ovili, per la raccolta del latte da portare al
caseificio e, avrebbe dato un passaggio al ragazzo. L’orario
era tassativo, poiché, il percorso era lungo, si dovevano rispettare
i tempi del prelievo del latte e il conseguente rientro nel caseificio
per la sua lavorazione.
Luiseddu era euforico, valutava la nuova esperienza come qualcosa
di eccitante e bella, le caprette gli erano sempre piaciute, e pensare
che, proprio lui le avrebbe potute custodire, era un’emozione
a dir poco fantastica.
Prese tra le sue braccia Giacomino, il fratellino di soli cinque mesi,
e con lui, fece alcuni movimenti di gioia. Ma, ecco che, il bimbo,
diede un colpo di reni, cogliendolo impreparato e, rischiando seriamente
di cascargli dalle braccia. Per pura combinazione, nessuno notò
il fatto.
Allarmato, e ritornando in sé, cercò di moderarsi riponendo
il piccolo, in sa “chillia ”, e così, pensò
che, sarebbe stato più appropriato uscire nel cortile della
propria abitazione per distrarsi dalla sconveniente esaltazione.
Non aveva niente da prepararsi per portarsi al suo seguito, neanche
eventuali ricambi di vestiti.
“Ja bi pessata tziu Jacheddu a ti dare sa beste – le disse
la mamma, accarezzandole il viso – tantu, minore comente este,
ti andat bene sa roba sua ”.
Infatti, come accennato in precedenza, l’uomo aveva il fisico
che si differenziava poco da quello di un bambino, era alto un metro
e quaranta, non di più.
La mattina seguente, alle tre, Luiseddu era già in piedi, pronto
per partire e affrontare così la nuova avventura. L’appuntamento
era per le tre e mezzo e quindi occorreva incamminarsi, poiché
il mezzo non poteva aspettare nessuno e quindi in difetto l’avrebbe
lasciato a terra.
I fratelli, dormivano tutti, pertanto, diede un saluto veloce ai genitori.
Con un caldo abbraccio e il sincero “Bae cun Deus e cun Nostra
Sennora ” di tzia Frantzisca, e via in solitudine, Luiseddu,
s’incamminò nel buio profondo.
Giunse a metà percorso, e da dietro un muretto, fuoriuscì
un cane. L’animale abbaiando, cercò di avventarsi in
modo violento contro quel povero ragazzo, intimorendolo seriamente.
Se pur con il cuore tremante, reagì in modo inaspettato, raccolse
alcuni sassi da terra, e con violenza, li scaraventò in direzione
di quella belva infuriata. L’animale, dopo una breve reazione,
decise di allontanarsi, lasciando il futuro capraio in santa pace.
Il fatto, in ogni modo, lo lasciò in stato di allarme, per
una maggiore sicurezza, raccolse ancora due o tre pietre, e con atteggiamento
prudente, riprese il suo cammino, con la speranza che non si verificassero
ulteriori fatti allarmanti.
Giunto, nel punto prefissato per l’incontro con il trasportatore,
che purtroppo, ancora non conosceva, si fermò con aria attenta.
Aveva ancora il cuore che batteva forte, e non essendo abituato, a
stare da solo durante la notte in posti sconosciuti o distanti da
casa, non lo rassicurava più di tanto.
Finalmente ecco che, dopo una decina di interminabili minuti, si sentì
un rombo di motore. Si era proprio così. Delle luci anticiparono
l’evento. Da dietro una casa cantoniera dell’Anas, spuntò
un vecchio e sgangherato motocarro.
Proprio d’innanzi al ragazzo, effettuò una brusca frenata,
si aprì lo sportello e, apparve un uomo sui venti-venticinque
anni di età, che con aria decisa, ma confidenziale, domandò:
“Ite sese tue Luiseddu? ”
“Eija, so deo ”, ribattè con tono felice e sollevato
in seguito alla paura accumulata.
“Brinca a susu, chi su caminu er longu e semusu belle che in
ritardu, - le replicò l’autista - ca depo fachere medas
tappas pro ritirare su latte dae sos cubiles ”.
Detto fatto, poggiò il piede su una staffa in ferro posta al
di sopra della targa, e con un balzo, salì nel cassone del
mezzo, e così Luiseddu, si avviò verso la nuova avventura
tra monti e capre.
Il viaggio sembrava non finire mai, ogni tanto una fermata, per prelevare
il latte contenuto nelle pesanti brocche in alluminio, e via ancora,
per molteplici soste, finchè, quando ormai era quasi l’alba,
raggiunse la giusta destinazione.
Ad attenderlo, seduto su una roccia di granito ai piedi di alcuni
alberi di rovere, c’era tziu Jacheddu in compagnia di altri
quattro pastori dalle apparenze poco raccomandabili, anche loro, impegnati,
per la consegna del latte.
“Bene bennidu Luisè, biazu bonu às fattu? ”.
Furono le prime parole espresse in modo gioioso dallo zio, che subito
dopo, lo presentava con orgoglio, a gli altri convenuti: “Custu
er Luiseddu, su pitzinnu chi er benendhe a mi dare una manu pro candho
mi deppo assentare dae su cubile pro ghirare a Orune ”.
I quattro, salutarono il nuovo arrivato, e subito dopo alcuni convenevoli,
ognuno riprese il cammino verso il proprio ovile.
Uno di questi, invece, fece lo stesso percorso con loro: “Ch’in
Jubanne, dividimus su matessi cubile, issu tenete sar berbeches, ma
ghiramus a su matessi locu, e gai, nos azudamus dae pari in pari ”.
Enunciò tziu Jacheddu.
L’ovile, dove giunsero poco dopo, era un enorme “Pinnetu”,
realizzato in un piccolo spazio pianeggiante.
Aveva una forma circolare, era costruito con un muretto a secco alto
oltre un metro. Sopra il muretto vi erano dei lunghi e massici tronchi
posizionati in verticale, ma questi, leggermente inclinati in modo
da congiungersi a vicenda.
In questo modo, formavano una sorta di cono capovolto alto almeno
sei metri. Il tutto, ricoperto e intrecciato da abbondanti e fitte
frasche legnatiche.
Una porta, alta circa due metri, composta da tanti spezzoni in legno
uniti tra loro, il suo interno, di almeno sei metri di larghezza,
con al centro di forma quadra, un enorme fochile , creato con dei
massi di granito.
Da i tronchi che sostenevano la copertura, pendevano una serie di
corde che, imbragavano dei tavoloni, posti in alto, poco leggermente
sopra la testa di un uomo. Questi, servivano per poter asciugare il
formaggio e i salumi, ma anche, per poggiarvi altri eventuali alimenti.
“Ite ti màndicas Luisè, unu pacu de pane carasau
cun casu, o cherese unu bellu tassone de latte ”. Disse tziu
Jacheddu, dopo aver fatto accomodare il ragazzo.
Forse, per l’iniziale timidezza, Luiseddu, preferì il
latte. Un bel tazzone, sorseggiato senza neanche riscaldarlo.
Era ottimo, sicuramente con un sapore diverso da quello in cui era
abituato, infatti, a Nuoro. Quando capitava, normalmente consumava
latte di pecora e non caprino.
Subito dopo, l’uomo, prese alcuni indumenti infilati su degli
incavi presenti nel muro dell’ovile, cavità che servivano
come ripostigli. Prelevò un pantalone in velluto scuro, realizzato
a s’isporta , un paio di “iscarpones ” in pelle
di vitello, due pezze di stoffa da utilizzarsi come calze, una camicia,
dei vecchi cambali, e disse: “Probati custas cosas meas, chi
tantu, ispilungone comente sese, mancari tenzas deche annos, t’ata
andare bene su matessi ”.
Il ragazzo soddisfatto, indossò gli indumenti ricevuti, che
in effetti, sembravano realizzati su misura proprio per Lui.
Ma l’emozione più grande, fu quando prese in mano i cambali
e coprì le sue gambe. Questi, avvolti negli arti inferiori,
venivano bloccati da una specie di catenella in pelle, che entrava
e usciva, in una serie di occhielli, disposti per l’intera lunghezza
del cambale, andando a intrecciarsi l’uno con l’altro,
chiudendo in questo modo il cambale stesso, e fasciando così,
l’intera gamba.
Sembrava un vero pastorello, e poi, poco si differenziava da tziu
Jacheddu, l’altezza era quasi simile, e questo rendeva il ragazzo,
più importante e orgoglioso del suo nuovo percorso di vita.
Di seguito, l’uomo coinvolse il piccolo sull’attività
del capraio, informandolo sul modo di condurre le capre e sul lavoro
che ruotava intorno a loro.
La mattina molto presto la mungitura, quindi l’avvio delle capre
verso il pascolo, un solito percorso che, quotidianamente avrebbero
dovuto seguire.
Fatto questo, con l’asino, occorreva portare le brocche del
latte nella posta in cui sarebbe passato l’uomo col motocarro
per la consueta raccolta.
Il tutto sembrava affascinante e molto interessante, certamente, bisognava
mettersi alla prova, pensava che da lì a qualche giorno tziu
Jacheddu sarebbe dovuto partire verso Orune per seguire la fase burocratica
per l’inizio dei lavori della sua futura abitazione.
Intanto le capre, erano al pascolo, i due si recarono in “d’unu
cuccuru ” punto ideale come vedetta dell’intero pascolo.
Verificarono con tranquillità che, il gregge procedesse nel
solito percorso e sosì si avviarono a “sa mandra ”.
Sa mandra, era poco distante dall’ovile, entrarono al suo interno,
e tziu Jacheddu, mostrò al ragazzo il punto dove veniva effettuata
la mungitura.
“Pòmpia, custas duas predas mannas? – l’uomo
giustifico così la loro presenza – si comente sas crapas
sunu meda artas, cun s’artesa mea, fit’istadu impossibile
de las podere crompere a cadhu, a su momentu de las poder murghere
”.
Infatti, l’uomo, essendo di piccola statura, e come sistema
di mungitura usava farle passare sotto le proprie gambe, così,
chinato verso il di dietro delle capre, tenendole ferme, con una minima
pressione delle ginocchia, usava mungerle.
Per questo motivo era costretto a costruirsi con dei pesanti massi
dei rialzi, tipo pedane, da mettere sotto i piedi, in modo da poter
raggiungere l’altezza ideale per cavalcare in maniera adeguata
le capre, poggiando i piedi sul solido.
Considerato che, anche Luiseddu doveva apprendere l’arte della
mungitura e, avendo all’incirca la stessa altezza del capraio,
l’uomo disse al piccolo: “Dai carramus una paja de predas
mannitas e preparamus su locu pro poder murghere fintzas tue ”.
All’interno de sa mandra, spianarono un piccolo tratto di terreno,
con dimensioni di circa un metro e mezzo, trovarono due grossi massi
di granito alti almeno un palmo e mezzo, e li collocarono al centro
dello spiazzo alla distanza di trenta centimetri l’uno dall’altro.
In questo modo, anche la postazione per Luiseddu era pronta.
Quando mancava poco all’ora di pranzo, in su fochile, si preparò
un bel fuoco, si sistemarono tre pietre per formare “sa tripide
” con un tegamino e un pochino d’olio, si fece friggere
uno spicchio d’aglio, subito dopo, si versò tre o quattro
pomodori, tempo addietro salati ed essiccati al sole, si aggiunse
un bicchiere d’acqua. Il tutto si fece cuocere per dieci minuti,
e così, il sugo era pronto.
A quel punto, si tolse dalla tripide il tegamino per far spazio ad
una pentola riempita per metà d’acqua. La normale attesa
per la bollitura, di seguito versarono al suo interno mezzo chilo
di spaghetti e il pranzo era quasi pronto.
Scolata la pasta, quindi preparata su un vecchio lavamano in alluminio,
si aggiunse il sugo con una bella spolverata di formaggio caprino.
La pasta, veniva ben amalgamata e poi versata direttamente su due
piatti, anche questi, in alluminio.
Fu un pranzo veramente ottimo, con della pastasciutta condita a dovere:
“Bene che a nois, non àta a manicare, mancu su Papa ”,
disse, tziu Jacheddu, più che soddisfatto.
A una certa ora, normalmente, come se fossero comandate le capre facevano
tappa verso un punto ben preciso, dove da una sorgente l’acqua
veniva incanalata verso una vasca di raccolta.
Anche Luiseddu e tziu Jacheddu, si recarono all’appuntamento,
e come da copione, puntuali, anche le capre, giunsero per abbeverarsi.
A quel punto, l’uomo diede una veloce controllata verificando
se più o meno vi erano tutte, in modo particolare l’occhio
andò a cercare quelle cinque o sei che frequentemente si allontanavano
dall’abituale percorso. Fortunatamente almeno quel giorno, tutto
era tranquillo e nessuna a vista d’occhio sembrava mancare.
“Abbaida, custa este Thapulada e custa Curiosedda, ista sero
provasa a imparare a murghere chin cussas chi sun masedas e asa a
biere chi no este pro nudda diffitzile, e ch’in d’unu
pacu ‘e passentzia imparasa impresse ”. Disse il capraio.
Di risposta, il ragazzo, confermò la sua effettiva disponibilità
e il suo impegno per assimilare al più presto, e dare così,
la possibilità a tziu Jacheddu, di poter lasciare l’ovile
per controllarsi l’andamento dei lavori nel paese.
Il gregge dopo essersi abbeverato si fermò “a meriàre
” sotto il fitto bosco per godersi la dolce frescura e riposarsi,
prima di riprendere il pascolo che si concludeva nel tardo pomeriggio
nelle vicinanza dell’ovile intorno a sa madra.
Così giunse l’ora della mungitura, e tziu Jacheddu, aiutato
dal ragazzo, indirizzò le capre all’interno del recinto
attraverso un ristretto ingresso.
Proprio nella strettoia, considerato che le bestie entrarono una per
volta, si fece la conta, per verificarne il numero, vedere se tutte
erano presenti, o se qualcuna si era persa o allontanata. Ma tutto
sembrava regolare, nessuna mancava all’appello.
L’uomo, dopo aver rinchiuso il recinto, si rivolse al ragazzo:
“Dai chi comintzamus a murghere, gai bies comente si fachete
e imparas puru tue ”.
Lo invitò a prendere uno dei tanti “umpuàles ”
presenti, e agguantò per il collo una delle capre, prese posizione
sopra i due massi, per arrivare così, alla giusta altezza.
Introdusse la capra tra le gambe e si chinò verso “sas
titas ”, in quel modo, con entrambe le mani, iniziò la
mungitura.
“Abaida comente si fachete, - rivolgendosi al ragazzo –
si astringhete sa crapa, pacu-pacu cun ambas ancas, tando abrancas
sas titas, una pro cada manu, e faches colare sa parte cun su crapiccu
in mesu e sos primos podhiches, fachendhellos iscurrere indainnatis,
prima s’unu e poi s’ateru, ma cherete fattu cun delicadesa
”.
L’uomo sollecitò Luiseddu, per concentrarsi accuratamente
sui movimenti, poiché, dopo averne munto quattro o cinque,
lo avrebbe messo alla prova dandole la possibilità di provare
in prima persona.
Di seguito, dopo che, il capraio ne ebbe munto almeno otto, invitò
il fanciullo a effettuare la prima mungitura, raccomandandolo che
durante il lavoro, doveva cercare di tenere il latte pulito, evitando
di far cadere nel contenitore del latte “ledàmine ”,
o eventuali altre sporcizie della capra.
“Dai cola tue, ja l’ar bidu, comente si fachete, mi racumando,
cun delicadesa, - sostenne – pro sas primas dies ti faco murghere
custas masedas, incomintzande dae Curiosedda e Thapulada ”.
Luiseddu, sicuramente molto teso, ma orgoglioso di quanto l’uomo
con autorevolezza gli insegnava, concedendogli in quel momento, importanza
e certamente, la massima fiducia.
Riuscì ad afferrare per un ciuffo della lana del collo la più
tranquilla Curiosedda, la capra, molto arrendevole, si lasciò
trasportare con facilità, e così il ragazzo, l’infilò
all’indietro tra le sue gambe.
Piegò la schiena in avanti, e cercò di agguantare tra
le mani sas titas.
Il tutto, non sembrava neanche tanto complicato. Il momento più
difficile venne quando esercitò una leggera pressione tra il
pollice e l’indice delle mani. Si sentì immediatamente,
l’inquietudine della capra.
“Fache abellu-abellu, cun delicadesa, ca si astringhes meda
li dolete o no abarrata firma, e gai, non resessisi a la murghere
– disse Tziu Jacheddu – asa a biere chi, fachende gai
s’ammasedata sa crapa ”.
Luiseddu, con remissività, cercò di prestare attenzione
ai preziosi e indispensabili consigli che l’uomo continuamente
le dettava.
Per la sera, il piccolo capraio, riuscì a mungere le due bestie
più mansuete, la prima con molta difficoltà, mentre
la seconda Thapulada (il nome era dovuto per alcune macchie nere del
suo pelo, che ricordava un abito rattoppato) con più elasticità
e in tempi indubbiamente più che ragionevoli.
Le due bestie, per tutto il periodo, durato alcuni mesi, rimasero
nel cuore del ragazzo, infatti, erano tra le poche che, al di fuori
de sa mandra, si lasciarono avvicinare e toccare.
Ripensando alla mungitura, quello fu l’inizio, nei giorni a
seguire, in cui il ragazzo prese pratica, sino a raggiungere una certa
sicurezza e abilità, cavandosela con disinvoltura anche con
le più difficili.
Un fatto fece divertire e ridere a crepapelle Luiseddu. Infatti tziu
Jacheddu, pur essendo un maturo ed esperto capraio ebbe un incidente
che lo imbestialì enormemente.
L’uomo, mentre mungeva una delle capre, che quella sera, era
sicuramente più acerba e rude del solito, forse perchè,
involontariamente, la strinse troppo con le ginocchia. Di conseguenza,
istantaneamente, la bestia, partì con uno slancio da campionessa,
e così, iniziò una folle corsa all’interno del
recinto.
Il capraio, in groppa alla bestia e tenutosi fortemente alla lana
della capra, resistette per alcuni giri, senza riuscire a fermarla,
finchè a un certo punto, perse l’equilibro e cadde per
terra, dopo essere stato trascinato per alcuni metri.
L’uomo, si rialzò con fatica, accertandosi che aveva
subito, oltre all’umiliazione, alcune abrasioni in varie parti
del corpo, andò immediatamente nell’ovile, dove, con
dell’acquavite, si disinfettò le molteplici ferite riportate.
Qualche minuto più tardi, ritornò verso sa madra, dove,
ancora, vi erano rinchiuse le capre, entrò al suo interno e
con fatica riuscì ad acciuffare la capra rea di averlo trasportato
gratuitamente nella sua groppa, la legò ad un ceppo di legno,
e s’infuriò su di lei a colpi di bastone e calci.
Una brutta reazione che, aveva di conseguenza, impressionato in modo
più che negativo il ragazzo, non abituato, a vedere azioni
così cattive e scellerate, a danno di animali.
Passarono i giorni e, considerata la padronanza acquisita del ragazzo,
che abitualmente, oltre alla mungitura riusciva a seguire le bestie
lungo il percorso del pascolo, controllando meticolosamente, che nessuna,
sconfinasse nei terreni limitrofi, e verificandone continuamente il
numero.
Il capraio, fece vedere a Luiseddu, il suo fucile, un’arma a
canne doppie, ma mozzate. Diceva che le aveva dovute accorciare, considerato
che una delle due, durante lo sparo, a metà corsa, scoppiò.
Al ragazzo, sembrò invece che, accorciò le canne per
farsi il fucile su misura.
L’uomo, disse al piccolo: “Quando non ci sarò,
in casi estremi se ne hai bisogno potrai utilizzarlo, ma ricordati
che, è un’arma pericolosa, e non devi usarla per sciocchezze,
ma soltanto per situazioni serie”.
Il ragazzo ascoltò, i consigli dello zio, ma non si sentì
entusiasmato dal discorso, infatti, non prese mai in mano quel fucile.
Abbastanza tranquillo, tziu Jacheddu, partì alla volta del
paese a groppa di un mulo, che casualmente, era capitato nel pascolo,
e mai nessuno era riuscito a capire se, avesse un proprietario, o
fosse, allo stato brado. Fatto sta, che, diventò senza oneri
di nessun tipo, di proprietà dell’uomo.
Luiseddu, per un paio di mesi, rimase da solo, ma quando aveva necessità,
questo, almeno per il primo periodo, al momento della mungitura, o
magari per suggerimenti, sapeva di poter contare su dei pastori che,
abitualmente dividevano con lui l’ovile.
Tziu Jacheddu, aveva in su pinnetu, un piccolo volume con una rudimentale
copertina in pelle di capretto, era il poema in ottave “Paris
et Vienna” scritto in lingua sarda nel lontano 1896, dal poeta
Ghilarzese Francesco Sias.
Per Luiseddu, quella fu l’unica fonte di lettura e di svago
che poteva permettersi all’ombra delle secolari querce, respirando
i forti e meravigliosi profumi di “armidda ” o mudrecu
”.
Il capraio, faceva rientro da Orune nella campagna, nei momenti che
riusciva a liberarsi dagli impegni. Questo, succedeva occasionalmente,
specialmente nei fine settimana.
Quelle occasioni, erano anche, le opportunità per rifornire
il piccolo di pane carasau e di altri eventuali viveri, come olio
e pasta (il formaggio non era necessario, poiché, vi era la
provvista nell’ovile).
La vita correva tranquilla, ogni tanto, anche per distrarsi nelle
lunghe ore d’inattività cercava di risistemare alcuni
punti dei muretti a secco che cedevano, perché quelli, potevano
essere valichi facilmente scavalcabili dalle bestie.
Cercava di riposizionare, spesso con vera fatica, le pietre franate,
e magari sistemandoci delle frasche sopra la recinzione, per rendere
così, più sicura e durevole la chiusura.
Il ragazzo, ci teneva tantissimo alla verifica dei muretti di confine.
Questo perché, in alcune occasioni, quando la sera, prima della
mungitura effettuava la conta delle capre, si accorgeva che qualcuna
mancava all’appello.
In quei pochi casi sono stati dei guai, poiché, per primo aveva
dovuto individuare il punto dove le bestie potevano aver sconfinato.
Poi, dopo un lungo camminare, rintracciò la pista che avrebbero
potuto prendere, ascoltando frequentemente eventuali suoni di “sos
sonazos ”.
Infine una volta ritrovate le capre mancanti, con enorme difficoltà,
dovette riportarle a sa mandra, attraversando posti veramente impervi
e difficoltosi per qualsiasi uomo.
Questo senza, che i vicini si accorgessero dello sconfinamento, altrimenti,
oltre alla fatica, poteva esserci perfino il serio rimprovero, perché
i confinanti, ritenevano che, le capre producevano danni importanti,
non solo al pascolo, ma anche, alle giovani piante.
Sembrerà alquanto strano, ma in tutto quel periodo, Luiseddu,
purtroppo e, suo malgrado, non assaggiò mai carne, se non qualche
fetta di lardo salato e affumicato.
Erano passati dei mesi, tziu Jacheddu, finalmente, si era liberato
dai problemi relativi alla casa e Luiseddu, da lì a qualche
giorno, avrebbe dovuto riprendere a frequentare le lezioni nelle scuole
elementari.
“Luisè prima chi torrese a Nùgoro – disse
l’uomo – depimus turbare sas crapas a sa serra de Bitzi,
poi da ibe, una borta sistemadu tottu, podes partire”.
Il ragazzo fece con la testa, un segno di assenso, ormai aveva necessità
di rivedere i propri cari e godersi nuovamente il calore della famiglia.
La mattina presto, i due, fatta la mungitura e versato il latte, fecero
i preparativi, caricando tutte le masserie in groppa all’asino
e al mulo, poi, si avviarono tra le montagne verso la transumanza
nelle campagne di Bitti.
Non avevano seguito nessuna strada, poiché non esistevano collegamenti
viari tra le due disparate località.
Dovevano dunque orientandosi a Nord-Est, attraversando diverse “tancas
”, individuando per oltrepassarle percorsi sperimentati e non,
come “camineras ” e superando “aghidos ”.
Camminarono per tutta la mattinata, sostando soltanto per qualche
ora all’ora di pranzo, dando così, anche alle capre,
la possibilità di abbeverarsi e riposarsi.
Ripresero il lungo e gravoso cammino, che durò tutto il pomeriggio,
finchè a tarda serata, sfiniti, giunsero a destinazione di
un pascolo in quel momento assai abbondante.
Luiseddu, con gli scarponi in pelle “fattos dae su mastru ”
di tziu Jacheddu, e malgrado avesse “sas petzas de pede ”,
dolorante, si ritrovò con una serie di penose e fastidiose
bolle nei piedi.
Malgrado la sofferenza, non cerano spazi di tempo per lagnarsi o fermarsi,
occorreva riorganizzarsi, risistemando al meglio, un vecchio pinnetu
e, predisponendo una nuova mandra, per le capre.
Tagliarono dagli alberi vicini dei rami, e con delle frasche, improvvisarono
l’alloggio, sia per loro, che per le bestie.
Ormai si era fatto tardi, e per di più erano sfiniti fisicamente.
Nei dettagli, il lavoro, sarebbe seguito l’indomani mattina.
Senza neanche spogliarsi, togliendosi solamente gli scarponi, trascorsero
la notte, distesi sulle solite stoie che utilizzavano nel precedente
ovile. In ogni modo, forse, per la stanchezza e il persistere del
forte dolore ai piedi, il povero ragazzo, non riuscì a riposare
per buona parte della nottata.
All’alba, quando stava iniziando a prender sonno sente: “Dae
Luisè, pesa, chi oje sistemamus bene su locu – era tziu
Jacheddu, con voce rassicurante – E gai, si andat tottu bene,
cras moghes pro Nugoro ”.
Si mise seduto, strizzò gli occhi più volte, per rendersi
conto che, una nuova giornata stava per iniziare. Prese sas petzas,
avvolse con delicatezza i dolenti piedi, poi s’infilò
gli scarponi, e via, pronto a disposizione del capraio.
Munsero le capre, dopo aver versato il latte nelle brocche, lo portarono
con l’asinello nella nuova postazione per la consegna, dove
il ragazzo conobbe altri pastori, quasi tutti di Orune.
Questi, erano incuriositi, nel vedere un così piccolo bambino
facendo il capraio, ben lontano dall’urbano, impegnato in un
lavoro sicuramente da adulto.
Per troncare la loro quasi morbosa curiosità, tziu Jacheddu,
disse: “Luiseddu cras moghete a Nùgoro, er bennidu pro
pacu tempus, como depet torrare a iscola, mi dispiaghete meda, fit
istadu unu bonu craparju, ata imparadu bene a faches de tottu, fintzas
a murghere, ma s’iscola est iscola ”.
Rientrarono nell’ovile e dopo aver depositato e sciacquato bene
le brocche, si dettero da fare per completare la sistemazione logistica,
sia per loro, ma più che altro pro sa mandra, che doveva avere
un recinto ben fatto, e sufficientemente alto, in modo da evitare
che le capre potessero saltare al di fuori.
Ogni tanto, si alternavano per il controllo del bestiame, guidandolo
in un percorso obbligato, e dirottandolo, al momento giusto, sino
al punto dove vi erano dei vasconi d’acqua. Luogo individuato
per abbeverarlo, e subito dopo, per il normale meriare.
Conclusa la giornata, alla sera, tziu Jacheddu, disse al ragazzo:
“Manzanu a bon’ora, ti sedis a cadhu a poledhu, e partis
pro Nùgoro, ja ti l’ammentas su caminu, faghes su matessi
chi amus fattu pro bennere a inoche dae su cubile de sa serra, dae
cue, sichis sempere drittu, e gai che finis in Pradu. Una borta in
Nugoro, che falas su poleddu a su cunzau de su Grumene, poi in carchi
modu amus a fachere a bennere a chelu picare ”.
Luiseddu, era ben felice di ripartire, la nostalgia della famiglia
e degli amici, l’aveva accompagnato per tutto il periodo, e
quindi, era ansioso, di poter finalmente risolvendo quell’avventura,
e di rincontrare i suoi affetti.
La mattina successiva, quando si svegliò tziu Jacheddu, il
piccolo era già in piedi, l’ansia della partenza era
troppo forte.
“Luisè,
oje non bata bisonzu chi benzas a murghere, picati una paja e panes
cun d’unu cantu e caso pro biazu, e allesti su poledhu, ca partis
deretu ”
Detto fatto, il piccolo capraio, preparò l’asinello e
in una “taschedda ” infilò alcune sfoglie di pane
carasau tagliate a metà per poterci stare al suo interno e
un bel pezzo di formaggio caprino.
“Apo bidu t’apentaias meda a leghere custas poesias de
Frantziscu Sias, te, picalu e gai a cando lu leghes t’ammetas
de nois ”. Disse tziu Jacheddu, regalandole il poema “Paris
et Vienna”.
Ringraziò per il gentile e gradito regalo, ma prima di salutare
a tziu Jacheddu, si mosse verso sa mandra, si avvicinò in direzione
delle capre e accarezzò amorevolmente le due più mansuete:
Curiosedda e Thapulada.
Un abbraccio al capraio, e così, salì in groppa all’asinello,
verso il viaggio che tra qualche ora l’avrebbe visto rientrare
tra i suoi cari.
Durante il lungo percorso pensò, al primo giorno, quando uscito
da casa, trovò un cane che l’atterrì, e le tante
paure iniziali, quando da solo, in una montagna sconosciuta divise
le ore tra lavoro, paure e momenti belli, all’ombra delle splendide
querce.
Luiseddu, in quei mesi aveva vinto la paura, aveva soltanto dieci
anni, ma aveva acquisito atteggiamenti da persona adulta.
Non s’impressionò, neppure quando tra le montagne di
Bitti e Orune, in qualche punto, aveva l’incertezza del percorso
da fare, lui seguiva quella direzione e sicuramente si sarebbe ritrovato
presto a casa.
Dopo diverse ore, finalmente mentre attraversava la serra di Orune,
riuscì ad intravedere in lontananza, Nuoro e il monte Ortobene
con nella punta la statua del Redentore, un segno tangibile che non
aveva sbagliato percorso.
Era oltre mezzogiorno, in una delle tante e continue vallate, mentre
a groppa dell’asinello consumava “unu cantu e pane e casu
”, quando, riuscì a individuare una bella piana, era
Prato Sardo, con i diversi capannoni di una polveriera dell’artiglieria
che il distaccamento dell’Esercito Italiano aveva in quella
località.
Ormai, poteva considerarsi a casa, ancora qualche chilometro a trotto
del povero e paziente asinello, e di nuovo, nella serenità
della propria casa, e del calore umano che sapeva esprimere.
Era pomeriggio, quando arrivò nell’abitato di Nuoro,
si guardava attorno. Tutto sembrava più bello, provò
dei forti brividi dovuti alla profonda emozione. I tre mesi di lontananza,
sembravano effettivamente tre anni.
Giunse finalmente nelle vicinanze di “Chischeddu ‘e Longu
”, la sua casa, riuscì appena a intravederla in lontananza,
soltanto qualche minuto, intanto cercò di scrutare e verificare
se ci fosse qualcuno della famiglia presente nel cortile della propria
abitazione, ma niente, non vi era nessuno.
Quando, giunse a qualche decina di metri, un gruppo di bambini si
fecero avanti incuriositi dall’asinello, tra questi, uno di
loro più grandicello diceva: “Ma guarda che, non abitate
più in quella casa”.
Luiseddu, pensò, “forse qualcuno mi vuole prendere in
giro”, ma così non fu, giunse nel cortile di casa, vide
uscire dall’interno di uno degli stabili tziu Nanneddu, un uomo
anziano che, abitava nei dintorni che disse, con voce sicura e ferma:
“I Tuoi si sono trasferiti da oltre un mese, gli hanno assegnato
un bell’appartamento dell’Ina-Casa”.
Luiseddu, sapeva che, con buone probabilità, nel giro di qualche
tempo gli avrebbero potuto assegnare uno dei nuovi alloggi per l’edilizia
popolare. Rimase perplesso per la tempestività, ma nello stesso
momento, contento della nuova e bella notizia. Chiese delucidazioni
su dove poteva essere ubicata la sua nuova casa.
Ricevette le informazioni richieste. Con una stretta di gambe all’addome
dell’asinello, le dà il passo per ripartire. E così,
via alla la ricerca della sua futura dimora.
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