Da piccoli, tanto era facile instaurare un’amicizia, quanto
alla stessa maniera, senza volerlo, diventare molto cattivi, quasi
classisti, costruendo la stessa e le relative compagnie secondo canoni
che spaziavano dalla simpatia all’abbigliamento o l’estrazione
sociale. Non ultima, quella familiare.
Antonio era uno dei tanti bambini emigrati dai paesi vicini, i cui
genitori , cercavano per lui ed i fratelli un futuro migliore, del
resto si trattava della coda degli anni sessanta, comunque all’interno
del famoso boom economico.
Ci frequentammo subito, anche perchè abitavamo entrambi al
terzo piano di quella palazzina popolare, io figlio di insegnanti,
lui di una casalinga ed un falegname.
Persone dignitosissime, quanto povere.
Non era il tipo facile ad aprirsi, molto taciturno e comunque parco
di parole.
Aveva un cruccio, soffriva di diabete, per cui era legato ad orari
e tempi totalmente inconciliabili con quelli di un ragazzino che non
avesse i suoi problemi.
La giovinezza scandita da fiale e siringhe, giochi interrotti per
questi motivi, e in ragione degli stessi, a parte che con il sottoscritto,
risultava piuttosto schivo e forse non simpaticissimo.
Un errore di valutazione senza dubbio, ma non tutti potevano saperlo,
come non potevano sapere che il suo disappunto nascesse da questa
diversità, con in aggiunta il costante pressing dei genitori
per averlo sotto controllo .
Tutto fatto, ovviamente a fin di bene, ciononostante una schiavitù
che determinava delle differenze, tra ragazzi, molto evidenti.
Per dire, all’ora della fatidica merenda, il piazzale si riempiva
di giovani che sfoggiavano panini e focacce di tutte le dimensioni,
imbottite “chin s’agonzu”, il companatico, del tipo
e sapore tra i più disparati e fantasiosi: dalla nutella al
burro e marmellata, burro e acciughe, tonno, sugo, lattuga e olio,
olio e sale, ricotta e zucchero.. e mortadella
Antonio no, non poteva, per lui al massimo un frutto. Ed il massimo
era semplicemente una mela. Si, una mela verde o gialla, Golden.
Oggi la dieta è una scelta quasi obbligata considerate le migliaia
di intolleranze alimentari che angustiano il mondo occidentale e non
solo, ma allora era una tortura, un neo, un particolare che diventò
a brevissimo giro di posta un suo elemento caratterizzante.
Per cui, se Giovanni veniva chiamato pulcino a causa della evidente
e minutissima taglia, e Aldo, invece per via della sua prerogativa
di calciare il pallone di punta, appunto Puntera, Antonio beccò
il soprannome di mela, nomignolo che non credo abbia mai gradito.
Tra l’altro, i cosidetti “grandi”del vicinato, inteso
come età, per essere chiari avevano uno o due anni più
dei “piccoli” che eravamo noi, non mancavano di sottolineare
la cosa ogni qualvolta ne avessero l’occasione, rendendolo ancora
più introverso.
In ogni caso la sua indole lo portava ad appartarsi, a defilarsi,
invisibile, preferiva non disturbare e ne essere disturbato, ma già
da allora rifiutò la sua condizione, disconoscendo e sfidando
la malattia, con grande disperazione della madre, zia Maria.
In quegli anni le estati si organizzava un torneo di calcio fra tutti
i ragazzini del piazzale attorno al quale svettavano le palazzine
popolari di viale repubblica, il Deus ex machina era l’inarrestabile
Franco Puddighinu, un caro amico che non c’è più,
autore e “compositore” delle formazioni come Marte I°,
Aiax, Young Boys, coordinatore e persino arbitro .
Antonio amava molto il calcio, che praticava con ciò che aveva,
ovvero l’abbigliamento di tutti i giorni, per la verità
di tutto l’anno.
Proprio questa situazione di evidente e difficile condizione economica,
non gli permetteva di poterlo giocare liberamente. Se la madre lo
avesse visto dal terrazzino, lo avrebbe richiamato a casa perchè
non rovinasse scarpe ed abiti.
Ma l’appuntamento estivo, la sfida di un vicinato con un numero
di bambini smisurato che lo avevano atteso tutto l’anno, quasi
più della chiusura delle scuole, il che è tutto dire,
non poteva essere saltato o non partecipato per non rischiare un graffio
sulle scarpe o un buco nei calzoni.
No, non era pensabile, neanche lontanamente. Zia Maria urlò
di tutto dal balcone che si affacciava sul campetto di gioco, ma urlò
invano, Antonio non la sentiva .
Fu così che ci ritrovammo ancora insieme. Dopo il rito della
composizione delle squadre, formate pescando i nomi dei giocatori,
a caso, da dentro un recipiente, la sorte appunto, ci fece giocare
nella stessa squadra.
A volte non è necessario chiamarsi Gigi Riva o Roberto Boninsegna
ne Gianni Rivera per avere delle soddisfazioni che ti gratifichino,
a volte basta solo chiamarsi Antonio e tornare per una sera d’estate,
visibile.
Il turno ci metteva contro una delle più forti formazioni in
gioco, a pochissimo dalla fine del secondo dei due tempi di 15 minuti
ciascuno, noi perdevamo per due a uno, sarebbe stata una vittoria
anche pareggiare.
Il tifo pazzesco attorno al rettangolo di gioco era assordante, Antonio
ricevette la palla nella trequarti avversaria, davanti a lui due uomini
ed il portiere.
Fermò la palla con lo scarpone, quindi la mandò avanti
con la suola verso il difensore, questo già sogghignava considerando
la mossa un errore e valutando la palla una facile preda si avventò
per prenderla, ma non conosceva Antonio.
Lui, Antonio, sempre con la suola la riportò indietro spostandola
di lato.
L’altro si ritrovò beffato, a terra, fuori tempo, saltato.
Il secondo difensore gli andò incontro deciso, o palla o piede,
ed un ordine perentorio: nessuno doveva passare. Antonio allora caricò
il tiro che costrinse l’avversario a scomporsi nel cercare di
murarlo.
Era una finta. Scartò a sinistra in dribbling. E invece Passò.
Ora erano di fronte lui, il portiere e il tempo che scadeva. Gli coprì
tutto lo specchio della porta, non c’era un varco, abbozzò
allora un tiro rasoterra, l’estremo difensore abboccò
sdraiandosi, quindi lui con la punta dello scarpone sollevò
la palla con un “cucchiaio”.
Il pubblico ammutolì seguendo la parabola disegnata dalla palla,
lenta ma inesorabile, inevitabilmente scese, finchè toccò
i mattoni rossi…goal….goooaaallll!!!! era goooaaaalll.
L’urlo contemporaneo ed il successivo, il triplice fischio finale
e l’eco di un nome, Antonio, Antonio, il suo nome, gridato,
scandito, riaccesero il suo sorriso.
Guardò verso il balcone, la madre era lì, ma non urlava,
forse non capiva ma era emozionata, perchè il figlio era finalmente
libero, finalmente felice, finalmente Antonio.
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