Il suo nome era Adele, ma tutti la chiamavamo Lina, forse da Adelina.
Adelina, Adele, Lina la si poteva trovare in ogni ora del giorno e
della notte nelle corsie degli ospedali. Non era né medico,
né un’infermiera, e neppure una ricoverata, ma il suo
posto era lì, in quell’infinito viale di lettini. I suoi
preferiti erano i malati terminali. “Il mio posto non è
più tra coloro che hanno la vita davanti” mi disse un
giorno, “il mio posto è tra quelli che stanno altrove”.
L’ho sempre considerata una persona eccezionale, e a dire il
vero un po’ eccentrica perché sapevo che aveva marito
e figlie, eppure era sempre tra le corsie: “La famiglia è
in buone mani, pensa a tutto mia madre”, andava dicendo alle
amiche, “io con lei accanto sono sempre figlia e non moglie
e madre, ho tanto tempo da dedicare al prossimo”.
Davvero eccelsa, invece di passare il tempo dal parrucchiere, in libreria,
a fare acquisti, ...era dai terminali. Si diceva di lei che fosse
molto credente, era molto ammirata per questa dedizione coerente verso
il prossimo, lasciava però perplessi quel suo “delegare”
la famiglia. Per le sue virtù Adelina suscitava parecchie invidie
e senza volerlo sensi di colpa e di inferiorità.
E’ stata invidiata soprattutto il giorno della morte; la chiesa
traboccava di gente che si straziava per lei e l’omelia era
quella per una “santa” carica di meriti e di virtù.
Ogni volta che la incontravo col suo sorriso eterno, mi piombavano
in testa i miei furori giovanili di studente impegnata nel sociale.
Le sere liceali trascorse in giro su un vecchio furgone, sotto il
vento e la pioggia di una cittadina di provincia, a raccogliere roba
vecchia che prima ammassavamo e poi smistavamo in grandi magazzini.
Il giornale “Testimonianze”. La raccolta di medicinali
per il Terzo Mondo. Il gruppo scout prima protestante, poi cattolico.
I miei viaggi ad Assisi per incontrare Juan Arias e Roger Garodi.
Il mio sogno dei viaggi a Mosango per stare vicino a chi soffre.
Furori giovanili che si sposavano alla mia militanza politica fatta
di assemblee, manifestazioni, giornali, picchetti e volantinaggi.
Furori di poeta e di teatrante convertiti in recital nelle carceri
e nella clinica psichiatrica.
Ma Lina non aveva furori, ciò che faceva lo faceva in silenzio
e senza clamore, ed era tutto un segreto da carpire. Quel segreto
si rivelò alla mia mente più atroce di quanto pensassi.
A Lina avevano reciso i seni. Lina era una donna senza mammelle, più
precisamente una mamma senza mammelle, perché un male imperdonabile,
un male atroce le aveva intaccate. Quel male, piano piano, l’ha
divorata tutta fino alla totale estinzione.
Il giorno della morte ho provato un grande dolore per la sua scomparsa,
ma più un profondo disagio per la mia incapacità di
capire ciò che solo ora mi era apparso chiaro, così
chiaro da schiantarmi la mente. Lina faceva il giro delle corsie non
per fare volontariato, come lasciava credere, ma perché “non
poteva più stare in mezzo a quelli che hanno la vita davanti”.
Lei stava bene solo con chi stava male. Solo chi stava peggio di lei,
e la precedeva nel passo estremo era in grado di darle quel filo seppure
tenue di conforto di cui aveva bisogno. Lina non aveva reagito al
suo male odiando “i sani”, come spesso umanamente succede
in questi casi, ma del male si era vestita talmente fino ad estraniarsi
in una sorta di estasi mistica che la teneva sospesa dalla terra in
attesa di andarsene per sempre.
Vorrei che il tempo mi riportasse indietro solo di qualche giorno
per incontrare il suo perenne sorriso e soprattutto per dirle quanto
fosse ingenuo il paragonare il mio giovanile volontariato alla sua
tragica fede nella vita.
Menzione per la narrativa in italiano
Premio Campidano 2012
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