Il talento dell'aquila...
di Virginia Murru

Il racconto s'ispira a fatti realmente accaduti, in un paese della Barbagia

 

Il vecchio e il ragazzo percorrevano un ripido sentiero di montagna, a tratti piuttosto accidentato e scosceso, con dossi e irregolarità che rendevano alquanto disagevole il percorso.
Fra un tornante e l’altro, il sentiero si rastremava, soprattutto quando il saliente roccioso s’inoltrava nella macchia fittissima, che riempiva l’aria di balsami e forti fragranze. Una grande parete di roccia, alta diverse centinaia di metri, delimitava a sud l’altopiano, mentre nelle vicinanze un bosco di pini ricopriva la forte pendenza del suolo, la cui depressione, in certi punti, era quasi orrido…
Il vecchio sembrava conoscesse anche isassi di quel luogo ostile, e aveva un
aspetto rude, arcigno, statura ancora imponente, fisico asciutto e andatura agile. Si muoveva rapido e sicuro come fosse parte o arredo dell’ecosistema aspro e bellissimo del luogo, e la natura l’avesse concepito e cresciuto sotto quegli spalti, offrendogli insegne e segreti: leggi di quel regno solitario e selvaggio. Uno zefiro leggero scomponeva i capelli del vecchio, bianchi e folti, come le sopracciglia, che spiccavano nel volto ambrato, dove il tempo aveva lasciato le sue soste e le sue fughe, conservando intatta la luce degli occhi chiari, I quali emergevano appena dalla fessura atta a contenerli, ed emanavano lampi d’arguzia e reticenza, diventando frontiera fra l’orgoglio e l’inganno. A destra del sentiero, alcuni scheletri di ginepro, simili a sculture viventi, avevano rami argentei, levigati e lucidissimi, protesi verso l’alto come braccia inerti.
Mentre il vegliardo si faceva largo fra i cespugli di corbezzolo, lentisco e rosola, tassi e qualche siepe di rovo e salsapariglia, si muoveva con l’agilità d’un predatore notturno, che sa del passo che lo precede e di quello che lo segue, avverte ogni misterioso rumore, oltre l’intrico della vegetazione e ne valuta la provenienza e la causa, trovando sempre una risposta in quell’interazione di versi e rumori, battiti d’ali e lievi fruscii, voci umane e movimenti di fronde; raffiche di vento…

Sebastiano, nonostante i suoi dicianove anni, lo seguiva con un leggero affanno, mentre egli scompariva tra cime di mirto, o gli indicava, voltandosi, alcune specie d'euforbia o stramonio, piante velenose di cui conosceva bene gli effetti.
Intanto imboccava altre diramazioni dell’angusto tracciato, e scompariva come sagoma di vento, in uno scenario di natura austera e maestosa, dove la vita palpitava all’unisono producendo fermenti e risonanze che ammaliavano. Il vecchio non ne percepiva l’eco, si considerava frammento di quel microcosmo, e ogni forma creata era dote acquisita con misteriosa acquiescenza.
Raggiunsero l’altopiano e attraversarono una foresta di lecci, così fitta da non scorgere, quasi, la maestà dei cieli che incombevano sereni, limpidi e complici; ed erano arie più lievi, rarefatte.
Più avanti il paesaggio s’aprì in un’immensa radura rivestita d’erba; muschi, licheni e delicata flora montana, s’offrivano allo sguardo con I loro vividi colori. Poco lontano, sopra un promontorio roccioso, s’ergeva solenne e millenario un nuraghe, ancora imponente, nonostante imuri circolari di basalto fossero in parte crollati nella piccola scarpata adiacente. Olivastri, roverelle, querce da sughero, interrompevano la monotonia dei lecci, che prevalevano ovunque si volgesse lo sguardo.
All’improvviso, il vecchio si voltò e chiese al ragazzo di non fiatare. Un enorme volatile, quasi incurante della loro presenza, dopo aver volteggiato intorno alla preda e compiuto qualche evoluzione acrobatica, perse quota e s’avventò su un gregge poco distante, quindi s’alzò fulminea tenendo stretto in una morsa, fra gli artigli, un capretto di pochi giorni, che inutilmente si dimenava. Ineluttabile mistero la natura, erma bifronte prodiga di privilegi verso gli esseri viventi aggressivi, e crudele sulle loro vittime… Impossibile ragionare su questi arcani.. E tuttavia il vecchio e il nipote assistettero ad uno spettacolo grandioso, natura che divora natura, in efferata simbiosi, in misterioso, lacerante connubio. Sebastiano si aspettava la reazione del vecchio, lo sapeva abile ed esperto col fucile, ma questi lasciò compiere l’ennesima rapina al rapace, senza nulla osare, soffrendone intimamente il conflitto.
‘Nonno, t’ho sentito lottare, attraverso il respiro pesante, ne ho avvertito il tumulto…’ –
‘Una prova di lealtà – rispose l’altro – nulla di più. Ho ucciso tre aquile per rabbia verso il loro diritto di rubare – aggiunse – e certo indirettamente anche I loro piccoli. Ho imparato ad accettare I regolamenti severi e incomprensibili di questo ambiente; poi ho capito di non avere alcun diritto di prelazione verso la natura.
‘Però – aggiunse – hai visto che esemplare…’

Proseguirono la marcia verso nord, dopo aver percorso il greto di un torrente in secca, a ridosso del grande canyon che lo costeggiava; era inevitabile sollevare in alto lo sguardo, e provare suggestione davanti a quelle enormi rupi strapiombanti, segnate dal carsismo, uno dei fenomeni più impressionanti causati dagli agenti atmosferici, e nota costante in tutto il Supramonte, dove il calcare domina ovunque.
‘Siamo quasi arrivati’ – disse il vecchio. Ecco… avvicinati, non senti nulla?’
Sebastiano sentiva già nell’aria i monotoni rimbrotti del mare e dei suoi flutti, ma non lo credeva così vicino. S’affacciò dal ciglio di quell’immensa recinzione rupestre che seguiva il profilo della costa come un grande contrafforte, con falesie spettacolari, da vertigine, proprio a ridosso della riva. Ed eccole le acque color cobalto del Tirreno, con le potenti mareggiate che avevano scavato dopo millenni, grandi cavità all’interno della roccia, dove non di rado mammiferi marini vi sostavano per la riproduzione. Ecco anche i sibili del maestrale, le sue raffiche s’infrangevano su quel baluardo con urli sinistri. ‘T’ho condotto qui – disse all’improvviso il vecchio – per una ragione precisa, ormai hai quasi vent’anni e devi sapere.
‘Nonno, conosco il tuo passato, so di te più di quanto tu supponga…’
‘Non è così – interruppe l’altro con quel suo tono imperioso, altisonante –
Io, che il diavolo mi divori!, non ho mai avuto il coraggio di parlare.
Quando avevo solo diciassette anni, uccisero mio padre, vittima di un’assurda faida qui in Barbagia, tra due famiglia rivali, che si sterminarono a vicenda. Mio padre era cugino di un membro di queste famiglie; ebbe solo questo torto. Mia madre, donna barbaricina di carattere forte e sanguigno, quando vide mio padre, ucciso come un cane, giurò di vendicarlo, e proprio quel giorno, di fronte a tutti, scese in cantina, folle di dolore, prese il suo fucile e me lo mise sulla spalla. Ed io compresi quale debito di riscatto gravava sulla mia giovane vita.

Il destino volle conservare immune da colpa la mia coscienza e, dopo alcuni anni, io colpii quella mano assassina, ma solo per difendermi da un agguato. L’odio, in queste alture che ti strappano l’anima e la consegnano ad una cinica autorità, fermenta dentro e produce pensieri come corvi, istiga la parte peggiore di te, ti costringe alla resa, portandoti sul bivio dell’azione più turpe. Eppure resistevo, e bada, raju nieddu!, non fu per debolezza, ma per mia madre, che era cieca d’odio, ma non capiva che le restavo solo io al mondo… E aveva solo trentacinque anni.
Io ero legato da grande amicizia con alcuni latitanti, il Supramonte era simile ad un regno ipotecato all’onore di una rivalsa, e così costoro credettero di prevenire il gesto estremo, eliminandomi in una notte illune; ma non sapevano che io dormivo con un occhio aperto, la mano sul fucile e il cane accanto… Un cane con sensi così acuti quali tu non puoi neppure ipotizzare… Egli avvertiva la presenza di qualcuno, bestia o uomo che fosse - Justissia lu bruset! - a distanze notevolissime, e quella notte confermò la sua abilità. Quando uscii all’esterno, la belva umana, non paga d’aver massacrato mio padre, ritenendomi un pericolo in libertà, intendeva mettersi al sicuro facendo così tacere la lingua della mia vendetta, attraverso l’arma vile puntata contro di me dietro un cespuglio. Il cane cercò d’avventarsi contro lo sconosciuto e sfuggì all’ira di quegli solo per miracolo, un colpo partì infatti verso l’animale, il quale fu mancato di pochi millimetri; eravamo vicini e malgrado l’oscurità notai tutti i movimenti. Il cane, non era uno che demordeva e continuò a cingerlo d’assedio finché fu vicinissimo a lui, e solo allora, egli, forse impaurito e impossibilitato a difendersi da due insidie, decise di voltare le spalle e allontanarsi di corsa come un vile, ma a questo punto fui io che lo raggiunsi con una scarica di pallettoni… Qui impera la legge Barbaricina, che non ha mai creduto nella giustizia dello stato. Lo stato è sempre stato un latitante che ha istruito vie di devianza per altri latitanti. Cupe risonanze aveva la legge in queste zone avvezze ad altri costumi…

Scontai due anni di carcere perché non riuscii a dimostrare la mia innocenza, io avevo un movente per uccidere, e questo bastò a condannarmi. Non scontai tutta la pena perché una persona coinvolta nella vicenda, confessò la verità. Ma l’odio non cessò.
Un giorno trovai le mie mandrie uccise nell’altopiano, e gli artigli dell’aquila ripresero a graffiare; l’orgoglio con raffiche potenti, riaccese fiamme appena sedate, e l’odio tornò a bruciare. Con l’aiuto d’alcuni amici latitanti, organizzai il sequestro di un ragazzo appena quindicenne, figlio di quell’infame, che l’inferno lo divori!, causa di tutte le stragi.
‘Nonno… basta, sono sconvolto… sapevo che avevi il talento dell’aquila, ma non fino a questo punto…’
‘No, che dici…aspetta… fai presto a concludere in arringa, tu…’
‘Io non ho mai sfiorato i soldi del riscatto, intesi? MAI. Sono venuto qua per questo…
Poi si alzò ed entrò in quello che un tempo era stato il suo rifugio, una capanna di frasche, con una base circolare in muratura a secco, massi di basalto scuri. Prese un piccone e scavò poco lontano, sotto una foresta di ginepri, finché trovò tutto ciò che era servito per il sequestro, compreso il sacco di canapa con dentro le banconote.
‘Ora decidi come meglio credi…’ – disse rivolgendosi al nipote, che aveva un’espressione contratta, certo biasimo.
‘Devo decidere io?’ ‘Ho i cerini in tasca… Lo sai, vero, che l’unico modo per saldare i conti col passato, è quello di riportare in equilibrio l’altro piatto della bilancia? Diventeranno cenere questi soldi sporchi d’infamia, così come cenere diventarono le tue bestie uccise in questa radura…’

Lingue di fiamma scarlatte si staccavano da quel bivacco di memoria ancora palpitante d’emozioni roventi, e s’alzavano nell’aria ormai spenta della fredda serata di marzo, con fuliggine nerastra, ricadendo al suolo e creando intorno un contrasto illeggibile fra passato e presente. Forse perché, in fondo, il vecchio era stato assolto con formula piena dal rigore di quell’ambiente che tutto sapeva di lui, anche delle notti in cui il desiderio di vendetta era stato domato e convertito in alito di pace, e quel che accadde in seguito, fu solo schermaglia nel teatro delle tragedie umane, dove la verità è come una donna onesta vestita da meretrice, sulla soglia della colpa e in quella dell’innocenza.

Il giorno chiudeva il suo rito ad occidente, tra quinte sovrapposte di monti, nella bella chiostra del Gennargentu, bluastra nella foschia della distanza.
Le ultime espansioni di luce serale rendevano incandescenti i grandi confini tra cielo e terra, Venere era già di vedetta in quei dintorni celesti. Il vento s’era acquietato, il passo felpato della notte riproponeva il ciclo dell’alternanza.

Il vecchio non parlò più, mentre rientravano preceduti dal bellissimo cane con livrea chiara;
s’udiva solo il suo respiro. Latrati lontani, suoni di campanacci, versi d’uccelli notturni e furtivi movimenti nei cespugli, a tratti lo scorrere dell’acqua nelle sorgive, e un leggero stormire di fronde, accompagnavano i loro passi.

‘Ci sono silenzi che sono voci potenti come ordigni, custoditi dal solitario abbandono di questi spalti…’ – aveva detto il vecchio al mattino, appena raggiunto l’altopiano.
‘Qui puoi trovare il pianto e il sorriso, commensali nella stessa mensa; devi saperli distinguere…
Ma ricorda che il dolore viene solo dall’uomo…
Le montagne hanno sorrisi che a noi non è dato sapere…’

Ai miei genitori.

COSTANTINO LONGU FRANCESCHINO SATTA POESIAS SARDAS CONTOS POESIE IN LINGUA ITALIANA