Ogni anno, in agosto, andavamo
in villeggiatura in un piccolo borgo dove mia madre possedeva una
casetta con cucina, due camere e col gabinetto fuori, in un angolo
del cortiletto che si affacciava ad una lunga stradina costeggiata
dalle vigne dei ricchi proprietari terrieri. Partivamo dalla città
con un camioncino stracarico di roba, dai materassi alla caffettiera,
per raggiungere quel villaggetto di poche case disposte a cerchio
sulla piazzetta di terra rossa sottile e setosa come la cipria delle
vecchie signore.
Entrava dappertutto quella polvere, in ogni angolo della casa, nelle
lenzuola, nei vestiti, tra i capelli e tra le dita dei nostri piedi
di ragazzetti turbolenti soprattutto quando, nelle notti calde, tentavamo
di imitare il ritmo cadenzato delle coppie che, impettite, ballavano
al suono della fisarmonica.
“Andate via da qui, ragazzini!” ci dicevano.
Io, mi ritiravo subito in buon ordine, ma i miei fratelli, sempre
in coppia tra loro, continuavano, imperterriti, a pestare il suolo
polveroso indifferenti alle proteste degli adulti.
Andavamo a dormire sempre a sera tarda e la mattina successiva era
veramente un sacrificio abbondare il sonno. Così mia madre,
dopo aver più volte insistito perché ci alzassimo, spalancava
gli sportelli della finestra, ma noi, nonostante il sole già
cocente ci picchiasse addosso, avvolti come mummie dalle lenzuola,
continuavamo il nostro sonno che si faceva più profondo e più
gustoso.
Una di quelle mattine, di buonora, fui svegliata dal rumore di insistenti
picconate che provenivano da fuori.
Incuriosita, mi alzai dal letto e attraverso gli sportelli socchiusi
vidi tre uomini forzuti collocare dentro una profonda buca,al centro
della piazzetta, un lungo palo,alto forse più di tre metri.
Era l’albero della cuccagna!
Spesso guardavo, quasi ammaliata, l’alta cima, sulla quale era
fissata una ruota di bicicletta. Ai raggi di questa, il giorno della
festa di S.Agostino,erano appese galline vive ,salsicce,forme di formaggio,bottiglie
di vino,persino un paio di scarpe nuove.
Non eravamo noi di certo,ragazzini di città, a scalare la vetta
di quel fusto d’albero altissimo e spalmato di grasso d’animale,anche
se mio fratello aveva tentato più volte. Così tornava
a casa con i pantaloni strappati e unti, facendo disperare mia madre
che avrebbe dovuto aggiustarli e lavarli con quella poca acqua che
si andava a prendere con le brocche e con le damigiane nella vicina
fontana dove si abbeveravano anche i buoi.
Erano molti, in quel torrido 28 agosto, quelli che si avvicendavano,
tra applausi e fischi, a tentare di scalare il palo per portar via,
con uno strappo veloce, il paio di scarpe nuove, il premio più
ambito. Erano perlopiù figli dei pastori e di poveri contadini,
abituati a salire sugli alti alberi, sui pali della luce, sui tetti
delle case.
Io tifavo per Gigino, piccolo e magro.
Lo seguivo a naso in su mentre si guadagnava qualche centimetro di
palo imbrattandolo con la terra che toglieva a manciate dalle tasche
dei suoi pantaloni corti.
Dopo aver conquistato quasi metà altezza, il poveretto, esausto,
scivolava giù velocemente, madido di sudore e con l’interno
delle cosce sanguinanti.
Delusa, mi allontanavo da quella gara che mi sembrava crudele.
Riflessiva e romantica già da adolescente, consideravo magici
i momenti della sera,quando la luna illuminava tutta la borgata, i
vigneti, gli orti e i nostri volti.
Tutti insieme,maschietti e femminucce,invadevamo lo“stradone”
che conduceva ai paesi vicini,mentre gli adulti, seduti all’aperto
sulle panchine di pietra grezza o sugli scanni impagliati, collocati
a semicerchio di fronte alla porta dell’abitazione, parlavano
tra di loro e godevano del fresco della sera.
La grande luna e il ritmo dei grilli canterini mi rendevano sempre
malinconica.
Mi riusciva difficile unirmi agli schiamazzi e ai canti stonati dei
miei fratelli e dei miei compagni.
Preferivo quella luna che già m’ispirava qualche acerbo
sentimento d’amore.
Mi sorprendevo, con vergogna,a guardare i riccioli bruni e gli occhi
chiari di Riccardo,un ragazzino che, a differenza di noi tutti, viveva
in una villetta coperta da tante rose rampicanti,situata su di altura
poco distante dal borgo.
Lui non era come gli altri,sguaiati e chiassosi. A me sembrava un
personaggio delle fiabe che avevo letto da bambina,un piccolo principe,
sempre pulito,educato e ben vestito,che scendeva la sera dal suo “castello”
per unirsi a noi.
Era socievole, ma non cantava e non si univa agli altri nelle gare
tra chi sapeva raccontare le barzellette a doppio senso. A differenza
degli altri, evitava di entrare nelle vigne a “vendemmiare”
l’uva ancora verde o a cogliere la frutta acerba. Neanche io
entravo nelle vigne perché, come diceva mia madre, ero “una
drolla” e non riuscivo a scavalcare i muretti a secco con l’agilità
dei miei fratelli.
Ricordo ancora quella lontanissima sera in cui Riccardo, piegando
a sé un grosso ramo che sporgeva sulla strada, riuscì
a cogliere una pera.
“Tieni, questa è matura!” mi disse
Lo ringraziai imbarazzata e la mangiai subito com’era, aspra
e dura.
Era stata la luce della luna a farla apparire matura. La mattina Riccardo
non si univa mai alla nostra “cricca”, sempre presa da
un’attrazione particolare per gli asinelli che, legati saldamente
con le funi agli anelli di ferro piantati saldamente al muro, apparivano
mansueti ed immobili, fatta eccezione per le orecchie, in continuo
movimento per scacciare le mosche moleste.
Non era facile sciogliere quei saldi nodi, ma quando qualcuno ci riusciva,
saltava in groppa all’asino che, più furbo che dispettoso,
lo conduceva rasente ai muri o alle siepi di rovo e di fichi d’india.
Così, chi tentava di fare il valente cavallerizzo, spesso tornava
a piedi con lunghe spine conficcate dappertutto, mentre l’asino
col muso sollevato sembrava guardare con soddisfazione lo sconfitto.
Io, che non sapevo neanche scavalcare un muretto a secco, di certo
non potevo azzardare a fare l’amazzone!
Seduta ai bordi della cunetta, mentre aspettavo di rendermi utile
a cavare le spine dalle mani e dalle gambe del malcapitato, rivolgevo
spesso lo sguardo verso il “castello” di Riccardo.
“Perchè sta chiuso là dentro tutta la mattina?”
mi chiedevo Avevo deciso di domandarglielo se fosse sceso la sera
a scorrazzare lungo lo stradone con noi.
La sera non lo vidi, ma la mattina successiva si presentò tutto
lindo nella piazzetta, procurando il rossore nella mia faccia.
“Sono venuto a salutarvi perché parto in montagna col
gruppo dei boy-scout!
Io questo gruppo non l’avevo mai sentito nominare, non sapevo
proprio chi fossero questi boy-scout! Così preferii non fare
domande e me la cavai con un “Beato te!” Visibilmente
dispiaciuta, gli allungai la mano a distanza per pudore, mentre gli
altri, indifferenti, con un freddo “ciao”avevano continuato
la partita a carte, a “rubamazzetto”.
Da quel giorno mi sentii ancora più sola.
Non mi piaceva unirmi agli altri che andavano a rubare le melacotogne,
a fare gli equilibristi sul tetto convesso del lungo acquedotto nella
zona dove le donne andavano per lavare i panni, e ancora meno mi piaceva
andare a cacciare le timide lucertole, a colpire i passeri e le rondini
con la fionda o a giocare a “lunamonta”.
Nell’attesa che il tempo della villeggiatura passasse veloce,
trascorrevo le mie lunghe giornate con gli adulti.
“Sei la mia ombra! Perchè non vai a giocare con gli altri?”
mi diceva mia madre.
“Perché no!” le rispondevo, secca.
Spesso, la notte, mi chiedevo che cosa volesse dire mia madre con
la parola “ombra”
Non glielo chiesi mai, nonostante avesse continuato a ripetermi la
stessa frase quando, ormai più che adolescente, le stavo accanto.
Mia madre non c’è più. Ora è lei la mia
“ombra” |