I. Il
capanno sul mare
Non era ancora
inverno. Un autunno mite alimentava desideri che il freddo avrebbe
mandato a dormire per lunghi, dolci, interminabili giorni. Herman
Calvìs camminava lento nella baia di Indoormar, nel versante
nordico delle Ardegnas, pervaso dalla calma placida di un mare senza
stagioni. Il suo infedele cane, Segugios, uno splendido meticcio dal
manto chiaro, lo anticipava di cento passi, insofferente a ogni catena
o richiamo. Herman, percorse come al solito lo stesso tratto di scogliera.
Arrivato nella piccola Cala Serrada, si sedette sullo stesso tronco
di sempre; il salmastro aveva levigato sapientemente quel legno resistentissimo.
Herman Calvìs era lì, seduto sul suo trono a osservare
il suo regno. Il suo cane, Segugios, abbaiava in lontananza. Herman
provò a richiamarlo a sé, ma il cane non ne voleva sapere
di rientrare. Allora Herman si alzò, e con passo pesante attraverso
l’intera baita per correre incontro al suo infedele amico. Segugios,
si trovava di fonte a un capanno abbandonato. Ringhiava, contro quelli
che Herman credeva dei fantasmi e con fare frenetico girava attorno
al capanno. La porta era semichiusa. D’un tratto, dalla piccola
fessura spuntò un minuscolo cane nero, di una razza imprecisata.
Segugios si lanciò all’inseguimento, sotto il sorriso
sornione di Herman che osservava il piccolo cane seminare il suo infedele
amico. Sapeva anche, che Segugios non gli avrebbe fatto alcun male:
gli piaceva affermare la propria supremazia ma non amava le lotte
impari. Herman decise di entrare nel capanno, spinto da una curiosità
molto insolita, per uno del suo stampo. All’interno della piccola
baracca in legno non c’era nessuno. Nell’angolo più
lontano, un piccolo tavolo consunto dal tempo faceva da brutta cornice
alla desolazione di quell’abbandono. Al centro della stanza,
si vedevano i resti di quello che doveva essere stato un piccolo fuocherello.
Accanto ai resti del fuoco, una sedia sgangherata faceva brutta di
mostra di sé. Herman scrutò quella desolazione per un
attimo. Poi decise di uscire. Mentre stava per andarsene, richiamato
anche dal lontano guaire di Segugios, scorse dietro la porta del capanno
un piccolo libretto, conficcato in un’intercapedine tra le assi
di legno della baracca. Esito un po’. Non amava toccare cose
che non gli appartenevano. Poi, risoluto, prese il piccolo libretto.
Tornò indietro, al centro del capanno, e si sedette sulla sedia
sgangherata, che dopo qualche scricchiolio mostrò ancora di
poter assolvere alla sua funzione. Herman rigirò tra le sue
mani il misterioso oggetto. Sembrava una piccola agenda tascabile.
La copertina era nera con delle piccole lettere appuntate, di colore
grigiastro: ???. Quelle lettere sconosciute, risuonarono sinistre
nella mente di Herman, che finalmente si decise ad aprire il libretto
.
II
Contro ogni aspettativa,
viste le strane iniziali cifrate che comparivano in copertina, Herman
vide la prima pagina del libretto piena di appunti scritti nella sua
lingua: l’indomontano delle Ardegnas, un idioma parlato solo
nella sua terra di derivazione rocos–gulodorese. In cima alla
pagina, appariva uno strano rombo, senza nessun’altra parola.
La scrittura in basso, era minuta ma comprensibile. Herman cominciò
a leggere quel misterioso ma decifrabile corsivo.
P. era lì,
con la sua solita arroganza, capo indiscusso del nostro drappello.
Questa volta era facile. Un gioco semplice. Facile…facile. Sapevamo
tutto. Nei giorni precedenti avevamo studiato ogni dettaglio. Controllato
ogni mossa. Il fine settimana. Non c’era mai nessuno. Volavano.
Ogni fine settimana. Arrivammo a notte fonda. G. era con noi. Si era
da poco riunito al gruppo. Aveva a sue spese capito che era P., il
capo indiscusso. Quel maledetto arrogante di P. aveva riaffermato
il suo potere, giorno dopo giorno, su noi due. Però, bisogna
ammetterlo, ci sapeva fare. Era un duro che sapeva usare la testa.
Tutto buio intorno. Nessun rumore. G. scavalcò per primo, con
la sua solita agilità. Fece un segno con la mano. Entrammo
anche noi, nel piccolo giardino. Due isolati più in là
vidi delle luci. Mi fermai per un attimo a osservare. Ero solo il
bagliore dei fari di qualche auto di passaggio. Rimasi in ascolto,
ai bordi del giardino.
P. era già dentro. G., gli aveva aperto la strada con la sua
solita punta tagliente. Nessuna rottura.
Si trattennero circa una mezz’ora all’interno. Uscirono
trafelati, con due pesanti sacchi. Argento e oro. Niente rame. Roba
da poveri, quella. Balzai sul muro e li attesi qualche breve secondo.
Mi passarono il primo sacco che feci con cautela scivolare dall’altra
parte del muro, sulla strada. Allo stesso modo, feci con il secondo.
Eravamo già in strada, agili come tre ombre. Dissolti nella
campagna attorno. Raggiungemmo la strada laterale. G. si mise alla
guida, dopo aver nascosto nel baule dell’auto i due sacchi.
Mise in moto. Il vibrare del motore della potente auto ruppe il silenzio.
Viaggiammo per circa mezz’ora, prima di immetterci in una strada
provinciale, che correva lungo l’autostrada Infelices, nel ponente
di Caralis. Quando vedemmo, dopo poco tempo, l’insegna di un
albergo con la scritta lampeggiante “Note de Or”, fummo
tentati dal passarci la notte. Troppo rischioso, ci dicemmo. Dandoci
il turno alla guida, passammo tutta la notte a viaggiare. La provinciale
era deserta, una meravigliosa sinfonia per il nostro colpo. Arrivammo
a Caralis all’alba. Alla sella del Diablo, ci aspettava R.,
un frillo che sapeva, per fortuna, almeno tenere la bocca chiusa.
Senza dire una parola, gli passammo i due sacchi. Sapeva cosa fare.
P. tolse la tanica dal baule dell’auto. Sembrava, che questa
fosse la cosa che più gli piaceva della faccenda. Danzò
attorno all’auto, bagnando ogni angolo con una dovizia maniacale.
Ci allontanammo. G. prese la solita bottiglia incendiaria. Quando
fummo abbastanza distanti la lanciò con precisione sull’auto.
Il bagliore fu intenso, così come il boato. Intorno il silenzio.
La città sembrava ancora sonnolenta e distante. I due incendiari
sapevano, che non amavo quegli atti di distruzione. Questo, mi aveva
sempre distinto da loro. Avrei preferito un lavoro di precisione.
Sezionare tutto e raggranellare qualcosa con la vendita. Ma questo,
era il loro gioco. Questa, era la banda P. Non si poteva sfuggire.
Ci dirigemmo verso la marina. Ognuno prese la sua strada. Ci aspettavano
tre vite diverse dopo il buio della notte.
III
Herman si riprese dal brutto sogno del racconto appena letto. Mille
figure immaginarie gli ronzavano nella mente. Sentì Segugios
entrare nel capanno. Si avvicinò a lui, mordendogli l’orlo
dei pantaloni. Faceva così, quando voleva rientrare a casa
o voleva mangiare. Herman si alzò. Mise il libretto nella tasca
del giaccone e uscì dal capanno. Segugios era avanti a lui
di cento passi, come al solito. Quel cane era una saetta. Un’anarchica
saetta, indomabile e testarda. Herman accelerò il passo. Dopo
una mezz’ora era già in casa. Diede a Segugios i soliti
bocconcini di carne, che il cane divorò in pochi secondi, con
una voracità da consumato orso. Herman Calvìs, si riscaldò
una pizza nel forno a gas. Quella sera, non aveva voglia di cucinare.
Appena smise la frugale cena entrò nel piccolo studio, attiguo
alla sala, vicino alla camera di letto. Con fare lento, appoggiò
il libretto trovato nel capanno sul pesante tavolo in noce, chiedendosi
continuamente se quello che aveva letto potesse essere vero.
G. l’aveva
incontrata la sera precedente. L’incontro era apparso casuale.
Lui, del sud. Al centro dell’isola. Aveva sfoggiato il suo solito
repertorio. Parole e moine. Chissà come ci riusciva. Ottimo
attore. Giocava con una vigliaccheria disarmante coi sentimenti delle
donne. Lei, era impegnata. G. le aveva offerto un drink, iniziando
un serrato ma gentile approccio. Lei resisteva…resisteva…
Alla fine della serata avevano fatto una lunga passeggiata, lungo
il viale alberato di Aramaz. Si erano lasciati con un leggero bacio.
G. aveva fatto il romantico. L’indomani, si sarebbero dovuti
incontrare nello stesso bar. La buona riuscita, dipendeva tutta da
quella promessa. Ci incontrammo, tutti e tre, nel caravan prestatoci
da J.L., un immigrato francese che amava viaggiare, e racimolare qualche
soldo affittando la sua casa viaggiante. La notte era lunga. Dormimmo
a turno. Giocavamo anche a carte, nei turni di veglia, sempre con
un occhio all’abitazione.
L’indomani, ci svegliammo di buona lena. G. si lustrò
da cima a fondo. Si rasò con cura la barba. Forse, mi dissi,
aveva sbagliato mestiere. Spiegò l’abito di taglio sartoriale,
che gli sarebbe dovuto servire per la sera. Poi uscì dal caravan,
rimanendo a fissare i lembi della foresta, concentrato su non so cosa,
senza dire una parola sino all’ora del pranzo. P. e io rimanemmo
dentro il caravan. Sempre meglio non dare nell’occhio.
Mangiammo una deliziosa pasta alla carbonara, la mia specialità.
Innaffiammo il tutto con un vino pastoso, della vigna del nonno di
P. P diceva sempre, che finita la carriera si sarebbe ritirato a coltivare
quella vigna, vivendo con la sua compagna, la splendida messicana
che aveva incontrato qualche tempo prima, nella casa a ridosso della
terrazza sul mare. Quella vigna, infatti, sorgeva su un terrazzamento
a ridosso della costa sud orientale delle Ardegnas, su un mare spesso
battuto dal vento. Dal piccolo terrazzamento, con molta cautela, si
poteva arrivare attraverso la lancinante scogliera a un minuscolo
lembo di spiaggia. Un paradiso sottratto al progresso. Dopo aver pranzato
bevemmo un caffè. Il tempo sembrava immobile.
Verso le sedici, vedemmo rientrare la donna nell’appartamento.
Certo... era un gran bella donna. Giuste curve. Giuste proporzioni.
Dopo poco tempo, vedemmo un uomo entrare da lei. Il piano era sfumato,
ci dicemmo. Aspettammo ancora un’ora. Niente. Lui era sempre
dentro. Ancora poco e saremmo andati via. A sorpresa, l’uomo
uscì poco dopo. Sembrava amareggiato. Lei lo aveva salutato
con freddezza sulla soglia della porta, staccandosi con indifferenza
dal suo abbraccio. G. ci guardò compiaciuto. Era profondamente
detestabile in quei momenti, così sicuro di sé. L’ora
dell’appuntamento si avvicinava. Le prime ombre della sera invernale,
pure.
G. cominciò a vestirsi, con una cura maniacale spiegò
ogni lembo dell’ambito. Era quasi pronto. Dopo una mezz’ora
vedemmo la donna uscire da casa: sotto un cappotto alla moda si intravedeva
un abito succinto e calze autoreggenti. Personalmente, invidiavo G.
mortalmente. P., invece, sembrava indifferente a tutto: forse, pensava
solo alla sua messicana. Dopo un quarto d’ora dall’uscita
della donna G. si decise ad andare all'appuntamento, salutandoci con
un leggero e malizioso sorriso.
Arrivò mezzanotte. P. e io, uscimmo dal caravan. Intorno solo
buio, e silenzio. Bene. Arrivammo difronte all’abitazione. Come
al solito, rimasi di guardia. Passo una macchina. Mi girai con fare
indifferente e presi a camminare. Tutto a posto. Era filata via. Vidi
P. armeggiare: meno di cinque minuti ed era dentro. Mezz’ora
d’attesa. P. uscì. Con una calma inaudita e il volto
impassibile. Mi raggiunse con un sacco stracolmo. Raggiungemmo il
caravan , nascondendo il sacco in un vano della cucina. Un’ora
era passata. Ci muovemmo. Arrivammo nell’albergo “ Noirnoir”,
dove G. era in buona compagnia. Quel maledetto. La parte migliore,
più importante e delicata del lavoro, spettava sempre a lui.
Nelle sue mani… Attendemmo lì. Fuori.. sino alle prime
luci dell’alba. Finalmente uscì. Rilassato e felice.
Quel maledetto. Salutò la donna con un bacio appassionato e
attese che lei entrasse in auto. Subito dopo, con passo veloce ci
raggiunse. Filammo via veloci, verso il sud. Nel pomeriggio, dovevamo
ridare il caravan a J.l, l’immigrato francese, che avrebbe riverniciato
la sua casa ambulante e intascato un po’ del bottino. Anche
quella volta, era andata.
IV
Herman cominciava
a sentirsi combattuto. Avrebbe dovuto portare quel libretto alla polizia?
Si interrogò per ore, pensando alla cosa giusta di fare. Se
fossero state storie inventate? Alla fine, si disse che prima avrebbe
dovuto leggere per intero il libretto. Poi, avrebbe deciso sul da
farsi. Cercò di fare memoria di qualche colpo letto sui giornali
locali. Qualcuno coincideva coi suoi ricordi? Proprio non ricordava.
Se avesse portato quel libretto in commissariato avrebbe avuto molti
fastidi. Molte domande. Perdite di tempo. Spedirlo anonimamente? Troppo
da vigliacco. Tutto o niente. Era questo, il suo motto.
Il borgo di Castèlo
de Ardegnas era abbarbicato su un pendio di tufo. Il salmastro sgretolava
sapientemente quel materiale estremamente friabile, donando alle abitazione
del borgo un aspetto romantico e decadente. L’abitazione di
R.P, potente uomo d’affari, capitano di una flotta di pescherecci
e valente pittore del luogo si stagliava in uno splendido palazzo
medioevale, dall’aspetto nobile e sobrio. P. , che aveva un
amico che lavorava all’ufficio catastale provinciale, era riuscito
a recuperare la mappa del palazzo gentilizio. Nella cantina dell’abitazione,
a ridosso del mare, vi era un accesso. Da quest’accesso, si
poteva, attraverso una ripida scala interna entrare nella dimora.
Facemmo tutto in grande stile. Arrivammo in una calda sera di settembre.
Direttamente dal mare. Partimmo dal porticciolo di cala Arrainas,
dopo aver trasportato il nostro cinque metri con un potente fuoristrada
(un gippone della seconda guerra mondiale con un motore d’incanto),
nella cala deserta. Non eravamo esperti marinai ma la fortuna era
dalla nostra. G. aveva studiato scrupolosamente le carte nautiche,
con dovizia da montanaro. Millantava abilità marinare, perché
circa una decina d’anni prima del colpo, aveva seguito due o
tre lezioni per conseguire la patente nautica, ritirandosi appena
aveva visto che c’erano numerosi calcoli da fare e un istruttore
invece d’un istruttrice.
Arrivammo nelle acque di Castèlo delle Ardegnas a notte inoltrata,
facendoci luce con una piccola torcia elettrica ed evitando miracolosamente
gli spuntoni di scoglio affioranti. A pochi metri dalla scogliera
gettammo l’ancora. Come al solito, rimasi a bordo. In attesa.
Avevo un richiamo per anatre, che sarebbe servito ad avvisare P. e
G. se avessi visto movimenti sospetti ( a parte i nostri, naturalmente).
Vidi P. e G scalare velocemente la scogliera. G. ebbe solo un attimo
di esitazione, in cui perse leggermente l’equilibrio. Subito
dopo, ripresosi, seguiva come una lepre P. Li avevo ormai persi dalla
mia vista. Presi il cannocchiale a raggi infrarossi, che avevo acquistato
per corrispondenza qualche mese prima e li osservai nell’ultima
parte del tragitto. Erano già difronte alla parte della cantina
quando vidi un’ombra salire verso la porta dell’abitazione,
nel versante laterale del palazzo. Presi immediatamente il richiamo
per anatre e fischiai una, due volte. P. e G. si bloccarono immediatamente.
Rimasero immobili. Le luci del palazzo accesero. Rimasi in osservazione
per alcuni minuti. Poi le luci si spensero. Vidi la stessa ombra uscire
dal palazzo e incamminarsi verso la piazza sulla scogliera. Era andato
via. Ripresi il richiamo per anatre e fischiai tre volte, come d’accordo.
Vidi P. e G. armeggiare nel portoncino della cantina. Due minuti ed
erano dentro. Attesi, scrutando col binocolo ogni movimento sospetto.
Tutto tranquillo. Dopo circa un’ora di paziente attesa, in cui
osservavo ogni piccolo dettaglio intorno al palazzo li vidi uscire
dallo stesso portoncino della cantina. G. era davanti. Scese per primo
la scogliera con un sacco a tracolla, questa volta senza tentennamenti.
P. lo seguiva, con passo sicuro, anche lui con un sacco a tracolla.
Arrivarono in breve tempo al motoscafo. Accesi il motore, che sibilava
fastidiosamente nella notte. Per fortuna, la musica di un locale poco
distante copriva il rumore del fuoribordo. Gli aiutai a caricare i
sacchi. La notte era serena. Il mare calmo e placido. Uscimmo dalla
rada di Castèlo de Ardegnas in poco tempo, e orientandoci con
la torcia e le luci dei paesi costieri ci allontanammo di qualche
miglio dalla costa. Se ci avessero visto, ci avrebbero scambiato sicuramente
per dei pescatori. Per non destare troppi sospetti, in caso di qualche
controllo della “Guardia del Mar”, ci eravamo muniti di
qualche lenza e totanara. Filammo lisci, senza scossoni, sino a Cala
Arrainas. Sbarcammo senza problemi, nella solitudine della spiaggia
settembrina. Caricammo , con non poco sforzo, lo scafo sul carrello.
Mettemmo in moto il fuoristrada e ci avviammo verso la casa di un
amico, che distava pochi Chilometri. Dormimmo da lui quella notte,
lasciandogli in custodia l’imbarcazione per qualche tempo. L’indomani
facemmo colazione in un bar dell’ Ile Ras. Era domenica. Con
fare da turisti, visitammo le spiagge di quella zona. Pranzammo in
un ristorante di Lus Bagnos. Nel pomeriggio, arrivammo ad Arassis.
Da lì, pagammo pedaggio di buche nell’autostrada Infelices
e ci dirigemmo verso Caralis. Dopo qualche ora e una sosta al Monastero
di Orres, finalmente arrivammo in città. Anche quella volta,
era andata.
V.
Era ormai notte fonda. Herman Calvìs accese il computer, con
la speranza di trovare utili informazioni sulla presunta banda del
libretto. Andò nei portali dei maggiori quotidiani locali,
ma sembro non trovare niente di simile, niente che potesse accostarsi
ai colpi descritti nel libretto. Stava per mettersi il cuore in pace,
quando, prima di disconnettersi, digitò sul motore di ricerca
le parole: la banda P… Parola…Passanti…Paride Belli
musicista…Passò…Passòt gli inafferrabili.
La banda Passòt gli inafferrabili: forse, era questa la chiave
di ricerca. Lesse la prima voce selezionata dal nuovo motore di ricerca
Ardos. Si narrava la vicenda di una banda del sud delle Ardegnas,
il cui unico componente individuato era il presunto capo Passòt,
di origine Orsac. Si pensava che gli altri due membri del gruppo fossero
di origine ardas e che ci fosse anche una donna nel piccolo drappello
di ladri. Forse, Herman aveva trovato il tassello giusto; anche se
una sigla su un libretto non provava ancora nulla di sicuro. Dopo
aver dormito per qualche ora, si alzò, si sbarbò, diede
da mangiare a Segugios e dato che per lui era una giornata feriale
decise di continuare a leggere il libretto. La sua fidanzata, Laisa
Dosnantos, di origine sudamericana, provò a convincerlo a uscire
ma lui gli disse che stava malissimo e non poteva. L’avrebbe
chiamata in serata. Lei insistette per andarlo a trovare ma Herman
fu irremovibile. Si doveva riprendere da solo, le disse, dal fasullo
malanno. Herman Calvìs era così. Prendere o lasciare.
Difatti, per lunghi periodi, era o lo facevano ridiventare “solo”.
Le sorelle Dovizia
viveno sole, in un piccolo paese montano del nord delle Ardegnas.
Nessuna delle tre sorelle era sposata. Si diceva, che avessero accumulato
in casa una piccola fortuna. Un gancio del paese, Juanne los Rocos,
ci aveva informato la sera prima. Tutte le sere, a metà pomeriggio,
uscivano per andare a recitare il rosario. Era quello, l’unico
momento in cui la casa era disponibile. La fidanzata di Juanne, Marchesa
dos Colpos, faceva la domestica in casa delle sorelle Dovizia, e aveva
notato che le tre donne tenevano sempre chiusa a chiave la porta di
una dispensa, senza farvi mai entrare nessuno, o entrarci in presenza
di Marchesa. Giungemmo in paese a tarda notte, a bordo di un’anonima
utilitaria prestataci dal fratello di P. Guidai io, per tutto il tragitto.
G. non stava troppo bene: aveva un forte dolore allo stomaco e conati
ripetuti di vomito. Gli proponemmo di rimandare il colpo aspettando
la sua ripresa, o facendo il tutto da soli ma non ne volle sapere:
a tutti i costi, volle venire. In nome, della testardaggine delle
Ardegnas, disse, e alla faccia delle sorelle Dovizia. Impertinente,
avrebbero sicuramente detto le donne, se solo lo avessero sentito.
Pernottammo in un agriturismo del cugino di Juanne, semideserto, a
poca distanza dal paese. Il cugino del gancio era un tipo tarchiato,
barbuto, dai modi rudi ma allo stesso tempo gentile. Dopo pochi convenevoli
ci ritirammo nelle nostre stanze. Dormii sodo, tutta la notte. Il
silenzio della campagna attorno, quello stato di dolce quiete, mi
avevano terribilmente rilassato. P. e G. , di buon mattino, bussarono
alla porta della mia stanza con molta energia. Appena mi destai rispondendo
al loro frastuono, mi dissero che scendevano a fare colazione, e che
mi avrebbero aspettato di sotto. Gli dissi che andava bene e dormii
ancora un po’. Mi alzai di malavoglia. Mi feci una doccia veloce
e mi vestii lentamente. Appena scesi al piano di sotto, nel salone
deserto dell’agriturismo vidi il cugino di Juanne, che mi salutò
divertito. La colazione arriva subito, i tuoi amici ti stanno aspettando
da un pezzo, mi disse. Chissà, poi, cosa c’era di tanto
divertente. Mi ero sbagliato sul suo conto: era un perfetto cretino.
Raggiunsi il tavolo, che dava sulla montagna Orrasci, e ammirai lo
splendore di quel mattino rupestre, in cui sfumature tenui di blu
tendevano la mano a un viola indescrivibile. Provenivo da un borgo
di montagna, e il richiamo delle origini fu forte in quell’istante.
P. aveva già (giustamente) iniziato a mangiare miele amaro
locale con pane appena sfornato del luogo: aveva una passione per
quel miele rupestre. G., pareva essersi ripreso dal malore del giorno
precedente, e beveva, assorto nei suoi dubbi, un caffè nero
bollente. Anch’io mi versai del caffè nella tazzina e
continuai a osservare la montagna. P. ruppe il silenzio, dicendo che
saremmo andati in paese a fare una perlustrazione. Dopo un quarto
d’ora eravamo in paese. Un paese ben curato, di pietra austera.
Passammo lungo le vie centrali del luogo osservando ogni volto. Dopo
un po’ arrivarono anche dei “secondini in libertà”,
ma non ci dissero niente, ed entrarono tranquilli in un bar poco più
avanti. Proseguimmo sino alla casa delle sorelle Dovizia. Il portone
era in legno. Nessuna blindatura. Non sembrava un gioco difficile.
A sinistra della casa, vedemmo la strada sterrata indicataci da Juanne,
che portava fuori dal paese. Ci trattenemmo ancora un po’ difronte
alla casa. Delle sorelle Dovizia neppure l’ombra. Solo una finestra
dell’abitazione era aperta. Per il resto, niente. Ce ne andammo.
Riprendemmo l’auto che avevamo lasciato all’ingresso del
paese, risalimmo fino alla casa delle sorelle con l’idea di
percorrere lo sterrato d’uscita, quella che sarebbe dovuta essere
la via di fuga. In quel momento, proprio in quel maledetto momento,
si incanalò nello sterrato un trattore. Desistemmo. Avremmo
percorso quella polverosa strada improvvisando il percorso. L’audacia
del colpo, era la musica soffusa, della nostra passione criminale.
Dopo aver vagato per un po’ in macchina, e aver fatto rifornimento
in un distributore a qualche chilometro dal paese facemmo rientro
in agriturismo. Era quasi l’ora di pranzo. Trovammo ad aspettarci
Juanne, insieme al cugino idiota e sorridente, proprietario dell'agriturismo.
Juanne, che non vedevamo da qualche anno, non era affatto cambiato.
Ci salutò con fare cortese chiedendoci, con fare criptato,
se tutto stava filando nel verso giusto. Lo invitammo a pranzare con
noi ma disse che stava aspettando la fidanzata, Marchesa dos colpos
(di famiglia nobile decaduta), che si era ridotta a fare la domestica
dalle sorella Dovizia, e che dovevano andare a pranzo da alcuni amici
di Riastanis. P., il capo della banda P. gli disse che c’era
un regalo per lui e che lo avremmo lasciato, al momento di pagare
il conto dell’agriturismo, al cugino, che nel frattempo ci aveva
imbandito la tavola. Nel frattempo arrivò Marchesa dos colpos,
la fidanzata di Juanne, una bella ragazza mora e formosa. A G. brillarono
gli occhi. Juanne, forse memore delle numerose conquiste amorose di
G. ce la presentò con modi affrettati salutandoci subito dopo.
Ci sedemmo a tavola a gustare le pietanze di terre preparateci dal
cugino di Juanne, di cui non conoscevamo neanche il nome. Cercammo,
per quanto possibile, di mantenerci leggeri, gustando le pietanze
di carne a dosi consentite, dall’agilità che sarebbe
servita al colpo. Dopo il pranzo, G. e P. si concessero un digestivo
alcolico alle erbe della montagna e io un forte caffè bollente.
Subito dopo, uscimmo a fare due passi di fronte all’agriturismo.
La temperatura era mite. Nel terreno confinante con l’agriturismo,
una mandria di bovini bianchi e pezzati pascolavano serenamente, coi
loro campanacci alpestri appesi al collo placido e taurino. Sarebbe
stato bello, rimanere per qualche settimana lì, a riposarsi
in quell’angolo di pace della montagna passeggiando nei numerosi
sentieri che si intravedevano come tanti rigoli ai piedi della catena,
solo in cima leggermente innevata. Alcuni cartelli in legno, maldisposti
e buttati giù dalle intemperie del vento, indicavano un villaggio
antico, dal nome Iscalis. Erano ormai le sedici. Tra una mezz’ora
saremmo arrivati in paese e dovevo assolutamente smetterla con tutte
queste romantiche fantasticherie. P. rientrò in agriturismo,
con noi al seguito. Il cugino di Juanne era seduto su un piccolo divano
attiguo alla cassa, difronte al caminetto acceso e stava sonnecchiando.
Appena ci vide si alzò. P. si avvicinò alla cassa e
gli disse che voleva saldare il conto. Il cugino di Juanne gli disse
la cifra. P. pagò la cifra richiesta, dandogli da parte una
busta per il cugino, raccomandandosi di dargliela personalmente, e
con freddezza gli disse che eravamo stati bene. Il cugino di Juanne,
ci fece gli auguri per il convegno sulle lingue romanze che dovevamo
tenere a Aristanis: evidentemente, Juanne gli aveva detto che eravamo
degli intellettuali in trasferta. Lo ringraziammo, trattenendo a stento
le lacrime dal ridere. Uscimmo subito dopo. Mi misi subito alla guida
dell’utilitaria e in poco tempo fummo in paese. Erano quasi
le diciassette. Mentre risalivamo il paese vedemmo le sorelle dovizia
scendere lungo strada, con ampie gonne, dirette a recitare il rosario.
Sembrava filare tutto liscio. Arrivammo difronte alla casa. Nessuno
in giro, nei paraggi. Posizionai la macchina, quasi ai bordi dello
sterrato. G. e P. scesero subito dall’auto e con una disinvoltura
sorprendente si diressero verso l’abitazione delle sorelle.
In circa dieci minuti forzarono la porta. Entrarono con calma chiudendosi
la porta alle spalle. Vidi una vecchina, dopo dieci minuti avvicinarsi
all’abitazione e chiamare a gran voce “Amelia…Amelia…Amelia…”.
Dopo cinque minuti, senza aver ottenuto naturalmente risposta, se
ne andò con passo lento. Non si girò neppure a guardarmi
per un attimo nell’auto. Dopo pochi minuti P. e G. uscirono,
con aria delusa. Accesi il motore, pronto a correre lungo lo sterrato.
P. mi disse di fare con calma e di percorrere lentamente la strada
del paese. Non dissero nulla per mezz’ora. Non provai a chiedergli
nulla, ma vi confesso di esser stato al momento molto preoccupato.
G. sbottò all’improvvisò, dicendo che avevano
rovistato la dispensa da cima a fondo e che non c’era nessun
denaro e che nessun oggetto della casa era di valore. All’improvviso,
disse che l’unico valore erano i prosciutti e i salami della
dispensa. P. tolse dalla giacca un salame, dicendoci di averlo preso
come ricompensa per il mancato colpo. Questa volta erano state le
astute sorelle Dovizia, a gabbare noi. Succede.
VI
Il pomeriggio
incombeva calmo nell’appartamento di Herman. L’uomo, disteso
sul divano, trangugiava tramezzini comprati qualche tempo fa al supermercato
e ogni tanto beveva un sorso di una strana birra irlandese. Il televisore,
mandava in onda una delle solite trasmissioni sulle “vite altrui”
da spettacolarizzare come merce interessantissima. Sul tavolino, Herman
Calvìs scorse il solito piccolo libretto: per evitare di alzarsi
dalla comoda posizione, si sporse per prenderlo e nel tentativo cadde
goffamente a terra. Rialzatosi, ancora lievemente dolorante, rise
di sé e tra sé sino a non riuscire più a contenersi.
Subito dopo, ripresosi dalla parentesi acrobatica ridicola e fortunatamente
indolore, incominciò la lettura di un’altra avventura
della banda Passòt.
Ferragosto inoltrato.
Notte umida e afosa quel sabato. Città deserta. Il palazzo
era centrale, ma niente sembrava turbare quella calma inquieta. L.
Gabbon ci aveva segnalato bene, nella sua poderosa bozza artistica,
da buon “pittore” qual era, posizione e ponteggi. P. e
G. vollero fare due giri di perlustrazione intorno allo stabile. Io
li attendevo in auto: avevo messo su un paio di chili in quei mesi,
e il gioco richiedeva agilità. Spensi in fari della polo verde
e aspettai. P., quella sera era stranamente loquace, spese addirittura
una lunga frase nel viaggio verso Zierrò, tranquilla cittadina
montana della piana di Chivanì. Li vidi attraversare rapidi,
il piccolo spiazzo antistante il palazzo. P. era completamente vestito
di nero, con un cappellino calato sulla visiera, a coprire i tratti
del volto. G. invece, quel pazzo donnaiolo impenitente, era vestito
di lino bianco, manco dovesse andare a una serata mondana nella costa
delle Ardegnas. Un pazzo fantasma d’agosto, con un zainetto
nero a contorno della sua luce. Sentii un leggero rumore metallico.
Sicuramente avevano recuperato la scala. Poi, sentii un leggero peso
percorrere la notte, ad altitudini che ancora non vedevo. Attesi ancora
quindici minuti. Poi vidi le sagome. Erano già arrivati al
sesto piano. Si imbucarono nel terrazzino e sparirono. Tirai un sospiro
di sollievo. Per poco. Un paio di minuti dopo passò una macchina
della polizia dirigendosi verso di me. Il cuore mi balzò in
gola. Si fermarono e raggiunsero la mia auto. Il più giovane,
un tipo massiccio dall’aria tosta e sicura, mi invitò
a uscire dall’auto. Ero in trappola, pensai. Scesi dalla polo
verde, con la maggior calma possibile. Dietro, il poliziotto più
anziano attendeva, con aria sopita ma attenta, l’evolversi della
situazione, con il mitra spianato verso l’oscurità della
notte. Ebbi un fremito di comprensibile soffusa paura, e di inevitabile
resa alle coincidenze. Mentre il giovane mi chiedeva i documenti con
piglio sicuro ed ero già rientrato in macchina a recuperali,
il vecchio poliziotto mi venne in soccorso. Mi aveva scambiato per
il nipote di un certo Zia Libèsti, proprietario terriero della
zona, ricordandosi che passavo la vacanze estive nella piana di Chivanì,
nella greviera de or. Ebbi un attimo di smarrimento. Poi, decisi di
rischiare. Sì… risposi. Ora anch’io la riconosco.
Come sta? Pensi, che non ho ancora avuto il tempo di andare a far
visita a mio zio. È molto malato, disse il poliziotto, pensi
che è dieci anni che non lo vedo più in città.
Per fortuna, è ancora vivo, pensai tra me e me, ed esce poco
per incontrare il poliziotto. Mentre stavo per porgere i documenti
al giovane agente, questi mi disse di lasciar stare, che non vi era
bisogno di mostrarglieli. Tirai un sospiro di sollievo e ringraziai.
Il vecchio poliziotto mi disse di salutargli tanto mio zio appena
lo vedevo e di chiamarsi Lorèsto Pagnotti. Per fortuna, non
chiese il mio nome. Così, non dovetti neppure perdere tempo
a inventarne uno falso. Dopo pochi minuti se ne andarono. Subito dopo,
P. e G. si diressero verso l’auto in cui nel frattempo ero rientrato.
Prima però, posero gli zaini nel sottovuoto del cofano. Appena
seduti in auto risero di gusto ma sommessamente. Non sapevano, infatti,
che avevo parenti notabili a Zierrò. Francamente, sino a quella
sera, neanch’io sapevo di avere legami di sangue nella piana
di Chivanì. Quegli improbabili parenti, e quella probabile
somiglianza con quel nipote, mi avevano fortunatamente salvato. Sia
benedetta la famiglia allargata, pensai. Accesi il silenzioso motore
della polo e partii, mentre il sudore freddo della fronte scompariva
nella bellezza dello scampato pericolo. Finalmente, ci inoltrammo
sulla via del ritorno. La via della provvisoria salvezza. Almeno per
quella notte. Occorreva battere il ferro finché la mente era
calda: con l’afa di quell’estate, non sarebbe stato difficile
approfittarne, anche in altre occasioni.
VII.
Era notte. Notte fonda. Herman Calvìs decise di uscire a fare
una passeggiata. Segugios lo seguiva.
Stranamente, il suo infedele cane, quella notte non lo precedeva ma
gli scodinzolava tra le gambe. Herman aveva l’aria stanca e
afflitta. Teneva stretto, in pugno, il libretto trovato nel capanno,
e girovagava, nel vuoto della sua coscienza. Dopo una mezz’ora
si ritrovò di fronte al commissariato locale di polizia. Si
fermò un paio di secondi sull’ingresso. Scrutò
la luce al neon della sala d’attesa e vide un piantone di spalle
che riordinava delle carte. Poi, un brusio di voci lo riportò
sulla terra. D’istinto andò subito via. In lontananza,
vide un nugolo di poliziotti entrare di corsa in un’auto parcheggiata
poco distante. Staranno andando a sgominare la banda Passòt,
pensò tra sé e sé, ridendo. Poi, proseguì
verso il parco degli “abeti in fiore”, un tipo particolare
di albero ad alto fusto che cresceva solo nelle zone indomontane delle
Ardegnas e si sedette su una panchina, ancora calda dal solleone della
giornata appena trascorsa. Aprì il libretto sulla banda Passòt
deciso a immergersi nel buio delle gesta dell’inafferrabile
banda di ladri. Segugios, invece, si addormentò beato ai suoi
piedi.
Pomeriggio inoltrato.
L’ingresso della villa era deserto. Un grosso bulldog sonnecchiava
sotto un grande cedro. G., era stranamente, nervoso. Ci spiegò,
che quand’era bambino un grosso cane meticcio l’aveva
azzannato, e da quel giorno aveva fobia dei cani. Ci pregò,
per quella volta, di farlo rimanere in auto. P. acconsentì
alla richiesta. Stavo per seguirlo al posto di G., quando il capo
P. mi fermò, dicendomi che se la sarebbe cavata da solo. Era,
come al solito, freddo e sicuro di sé. La domestica della villa,
una messicana amica della splendida fidanzata di P., prima di finire
il turno alla villa, aveva lasciato una porta secondaria socchiusa
fornendoci uno schizzo della casa, con la descrizione dei punti importanti…
P., avrebbe comunque fatto finta di forzare la porta, per inscenare
una forzatura. Il sistema d’allarme e le telecamere erano da
un paio di giorni fuori uso, a causa di un malfunzionamento elettronico
che ancora non era stato riparato. Rientrai in macchina e mi sedetti
accanto a G. , che, chiuso in un insolito mutismo, non chiese spiegazioni.
Vedemmo P. saltare il muro. Subito dopo, costeggiò il grosso
cedro dove il cane dormiva. Improvvisamente, vedemmo il Bulldog svegliarsi
e inseguirlo. P. corse rapidissimo e svoltò nel retro della
villa. Sperammo, che fosse riuscito a sfuggire al quadrupede. Decisi
di uscire dall’auto. Seguii il muro perimetrale della villa
sino al retro dell’abitazione. Vidi una piccola porticina chiusa
e il bulldog fisso su quel minuscolo ingresso. Per P. sarebbe stato
difficile uscire da dov’era entrato, e usare altre uscite l’avrebbe
esposto ad altri rischi. Decisi, di attirare su di me l’attenzione
del cane. Cominciai a lanciargli delle piccole pietre e a battere
le mani. Niente da fare. Irremovibile, non si scosse di una zampata.
Per ben dieci minuti, provai ogni genere di rumore per attirare su
di me l’attenzione, ma non ci fu niente da fare. Dopo circa
venti minuti, vidi P. affacciarsi alla vetrata, col solito zaino nero
a tracolla. Eravamo nei guai. Niente ci avrebbe potuto salvare. Sentii,
dall’altra parte della villa, il rombo di un’auto e il
cigolio del cancello automatico aprirsi. La situazione precipitava.
Sempre più giù. Negli inferi delle patrie galere, dove
per fortuna non eravamo mai stati. Subito dopo, mentre P. era ancora
affacciato alla vetrata scrutando il cane senza essersi accorto dell’arrivo
dell’auto, un grosso gatto nero passò dietro al bulldog.
Il cane, nonostante la mole pesante, si alzò di scatto e iniziò
a seguirlo. Forse, eravamo salvi. P. Uscì di scatto. Per fortuna
mi vide. Gli feci cenno di raggiungermi e scavalcare dove mi trovavo.
In poco tempo mi raggiunse e scavalcò il muro con agilità
da acrobata. Per non dare nell’occhio, ci incamminammo d’altra
parte della strada. G., che nel frattempo aveva visto arrivare i proprietari,
ci aveva seguito a vista. Ci raccolse subito dopo nell’auto
e a forte velocità di diresse verso la statale Montanas direttissima.
Lì, salimmo su un auto di scambio lasciando la nostra auto
a un fidato collaboratore locale. Nascondemmo lo zaino in un vano
interno dell’auto, creato per l’occasione e procedemmo
nelle zone interne delle Ardegnas, nei pressi di Deluos, verso una
tenuta in cui avremmo passato qualche giorno, come buoni amici dei
proprietari. Lasciammo il bottino nell’auto e per un paio di
giorni ci concedemmo una necessaria pausa lavorativa. Il terzo giorno
partimmo alla volta di Caralis. Appena arrivammo incontrammo un amico
commerciante, a cui consegnammo i preziosi in cambio di sonanti banconote.
Dividemmo il tutto in parti uguali e tornammo ai nostri umori e malumori
cittadini. Sino al prossimo…colpo di teatro.
VIII.
Herman Calvìs
dormì profondamente, quella notte. D’un tratto, a mattino
inoltrato, sentì la porta della sua camera da letto aprirsi.
Rimase, per un interminabile attimo, sospeso e sfuocato tra la sua
miopia e una terribile paura. Subito dopo, invece, si materializzò
difronte a lui la fidanzata Laisa, di cui si era scordato per più
di una settimana, da quando aveva trovato quel libretto in quel maledetto
capanno. Laisa, era stranamente calma, e non traspariva in lei nessuna
amarezza per essere stata tanto trascurata da Herman. Si avvicinò
al letto, col suo passo latino e sensuale, e baciò il suo uomo
con tenerezza e passione. Forse, Laisa era abituata a quell’essere
stralunato che aveva scelto: sapeva anche, però, che Herman
era una persona vera, e che mai e poi mai l’avrebbe presa in
giro o tradita. Senza dire una parola, unirono i loro corpi animaleschi
quel mattino, riconciliandosi in un tripudio di sensi. Laisa, fuggì
poco dopo: lavorava, come cameriera, in un albergo sulla costa nord
delle Ardegnas e non voleva far tardi a lavoro. Disse solo a Herman,
che quella sera l’avrebbe dovuta portare fuori a cena, e che
non avrebbe accettato nessuna scusa. Herman sorrise, e confermò
con un cenno di consenso. Si alzò stranamente felice, fece
una doccia.
Subito dopo, si fece un caffè lungo. Vide, gettato sul divano
l’arcano memoriale ritrovato nel capanno, e spinto dalla solita
forza incontenibile si sedette per continuare a leggerlo, rapito,
dalla quiete di quel mattino.
Il capo P., in
quell’occasione, aveva chiamato un esperto. Serviva. Nei nostri
colpi, chiamavano raramente degli esterni, ma quella volta serviva.
Loon kaar, era d’origine asiatica, e aveva lavorato, sino a
qualche anno fa nella maggiore azienda europea di allarmi, la “Bibiblock”,
ad Amburgo. Ora, si godeva la sua pensione sulla costa di Caralis,
e arrotondava il suo mensile con lavoretti extra.
La villa del magnate russo, Putin Astanoviac, si trovava a Puerto
del Cervos, nella costa nord orientale delle Ardegnas. Per non dare
nell’occhio, decidemmo di arrivare nella rinomata località
costiera per mezzo di un taxi. Il tassita, tale Alvaro Doso, era un
tipo di poche parole, un vecchio conoscente di P. Arrivammo a Palos,
con un treno verde turistico, vestiti da perfetti viaggiatori, e scendemmo
dal treno verso le 18.00. Puntuale, meglio di un orologio svizzero,
Alvaro ci aspettava col suo taxi tirato a lucido, coi vetri oscurati.
P., si sedette davanti. Loon era calmissimo: forse, praticava qualche
strana disciplina orientale, e in più sapeva che se anche ci
avessero pizzicato, la sua età avanzata sarebbe stata incompatibile
con lo stato di vacanza forzata nei penitenziari isolani. G. tirato
a lucido, sembrava a suo agio, nei panni di un ricco vacanziere vestito
di lino, con berretto e occhiali da sole d’ordinanza. Io, ero
stranamente calmo. Sapevamo, che i Russi, proprietari della villa,
sarebbero arrivati l’indomani per le vacanze estive. Un paio
di settimane prime, il custode della villa, che era sposato con una
donna di Caralis, in un bar cittadino si era sbronzato pesantemente,
raccontando ogni dettagli sulla coppia e il giorno d’arrivo
alla villa. Sarebbe stato più prudente tentare il colpo qualche
giorno primo dell’arrivo, ma l’organizzazione del piano
non l’aveva consentito. Sapevamo anche, che dalla 19 alle 20,
il custode andava nel vicino bar per il suo solito aperitivo lasciando
la villa incustodita. Sarebbe stato quello, il momento di agire, sperando
di non incappare nella vigilanza del borgo, formata da un paio di
scagnozzi sudamericani che facevano paura con la sola ombra. Alle
18.30, arrivammo al Puerto del Cervos. Il nostro tassista, con calma
serafica, salutava tutti i suoi conoscenti del borgo. Ci inoltrammo,
in una delle tante vie laterali dell’abitato, in direzione della
villa dei Russi. Alle 18.45, Alvaro parcheggiò in una piccola
piazzola, da cui si intravedeva il cancello di una villa. Loon, iniziò
a togliere dal minuscolo borsello dei micro-marchingegni e una bomboletta
spray. Alvaro, porse a me, P. e G., gli zaini che avevamo riposto
nel bagagliaio insieme a un paio di false valigie turistiche, che
ci sarebbero servite in caso di controllo. Ora dovevamo solo attendere,
che il custode uscisse per il suo solito aperitivo serale, e colpire,
con grande precisione e tempismo. Di lato al cancello, vedemmo una
telecamera mobile, che arrivava quasi a lambire il cono di visione
della nostra auto. Arrivarono le 19.00. Il custode della villa non
accennava a uscire. La tensione saliva, nel piccolo abitato della
nostra auto. Alle 19.15 vedemmo la piccola utilitaria del custode
uscire. Tirammo un sospiro di sollievo. Il custode apri elettronicamente
il cancello della villa e uscì lentamente con la sua auto,
indirizzandosi nella direzione opposta alla nostra. Il tassista Alvaro
rise sommessamente. Avrebbe seguito il tassista sino al bar, limitandosi
a farci uno squillo, nel caso il custode fosse tornato prima del previsto
alla villa. Indossammo bandane e panama turistici, e larghi occhialoni
alla moda. Era ora di entrare in azione. Loon, l’esperto informatico,
uscì per primo dell’auto. Attese che la telecamera compisse
il giro nella direzione opposta al suo cono di visuale, estrasse un
piccolo marchingegno elettronico che pose nel retro dell’apparecchio
di controllo; poi, spruzzò qualcosa nell’obbiettivo della
telecamera e ci fece segno di uscire. P. e G, uscirono di scatto dall’auto;
io, li seguii a ruota. Loon, nel frattempo si incammino verso il cancello
della villa mentre Alvaro sfilò in auto per raggiungere il
custode. Il minuscolo asiatico Loon, estrasse un altro piccolo marchingegno
che miracolosamente aprì il cancello: non chiedetemi il funzionamento
di quelle diavolerie… posso dirvi solo che funzionavano. Loon
entrò nella villa e attese il nostro ingresso. Appena fummo
entrati richiuse il cancello dall’interno. Eravamo dentro. P.,
G e io, ci incamminammo verso l’ingresso della villa. Oltre
il basso muro di cinta vedemmo una macchina della sicurezza passare
difronte all’abitato. Ci nascondemmo dietro un grosso abete.
La macchina si fermò un attimo. Un tipo grosso, in giacca e
cravatta scese dall’auto; diede uno sguardo nel giardino, e
spinse il pulsante di una trasmittente che aveva in mano. Poi risalì
in auto. Dopo un paio di interminabili minuti ripartì. Forse,
sarebbe stato meglio fuggire. P. invece, con calma serafica si incammino
lungo la vetrata della villa; estrasse la solita punta di diamante
e incise un cerchio perfetto nella vetrata, attaccò la ventosa
ed estrasse il cristallo. Certo, quei Russi così magnificenti
si fidavano troppo della tecnologia: tanta tecnologia ma nessun vetro
antisfondamento. Un piccolo asiatico e Il rum, avevano già
scardinato il loro fortino elettronico con custode avvinazzato. Entrammo.
Il sistema di sorveglianza era sapientemente interrotto, come vedemmo
nelle telecamere di sicurezza. Non c’era purtroppo tempo per
cercare la cassaforte. Salimmo ai piani alti facendo razzia di gioielli
e piccoli oggetti di grande valore. Mi colpì molto, in una
delle camera da letto, l’esposizione in una litografia religiosa
con un’incisione ai piedi di un solo comandamento: non uccidere.
Non ci badai più di tanto. Dopo un quarto d’ora uscimmo
dalla villa. Il tassista Alvaro ancora non era arrivato. Mancavano
infatti ancora dieci minuti all’ora prefissata. Raggiungemmo
con molta calma Loon. Cinque minuti prima del previsto il tassista
Alvaro passò difronte alla villa andando a posteggiare nella
stessa piazzola di sosta dell’andata. Loon riaprì il
cancello: uscimmo velocemente e ci incamminammo lungo la strada. Loon
ci seguiva a breve distanza. Una Maserati coi vetri oscurati passò
velocemente lungo la strada. Il cancello alle nostre spalle si era
quasi rinchiuso il quel momento. Cercammo di abbassare la testa o
guardare altrove. Nessun problema, almeno in apparenza. Entrammo di
fretta nel taxi ancora in moto, lasciando lo sportello aperto per
Loon. L’asiatico, estrasse il piccolo marchingegno dal vetro
della telecamera che andava nella direzione opposta al nostro cono
d’ombra e con calma olimpionica entrò nell’auto.
Il custode, per fortuna, ancora non si vedeva. Partimmo a una velocitò
discreta. Dopo un paio di km, svoltammo verso uno sterrato che ci
portò direttamente verso una piccola aeroporto per ultraleggeri.
Sulla pista, ci attendeva un aereo già caldo e pronto a partire.
Pagammo ad Alvaro il giusto compenso salutandolo con forti abbracci
e ci incamminammo sulla pista. Sedemmo sul piccolo velivolo a motore
dove un silenzioso pilota decollò dopo pochi minuti. Lo splendido
panorama e la riuscita del colpo ci inondarono di una strana felicità:
una strana felicità eccitata e convulsa.
IX
Herman, quella
sera, portò Laisa alla taverna dell’Ors, un ristorantino
mai stato alla moda in cui però cucinavano tradizionali piatti
di terra dal sapore indimenticabile. Laisa si era vestita in modo
elegante e aveva addosso uno strano buon umore, forse dovuto al fatto
che a giorni sarebbe tornata in sud America per qualche mese. Aveva
pregato Herman di accompagnarla, ma lui aveva accampato scuse…su
scuse… inventando storie impronunciabili e irriferibili a ogni
acuto osservatore. A cena, tra una pietanza e l’altra, Herman
parlò meno del solito con la testa rivolta allo stramaledetto
libretto ritrovato.
In un tavolo poco lontano da quello di Herman e Laisa tre individui
mangiavano voracemente la loro cena. Uno dei tre, quello seduto al
centro, aveva un'aria fredda e distante, e lo sguardo perso in una
lontana dimensione. Gli altri due, entrambi sulla trentina parlavano
tra loro animatamente ma sembravano detestarsi. Herman continuò
a fissarli ancora un per un po', finché i tre si alzarono bruscamente,
pagarono il conto e uscirono dalla taverna dell'Ors. Per un po' si
dimenticò di loro... Laisa riprese a parlare, o forse non aveva
mai interrotto il suo monologo quando ormai la cena si prestava alla
conclusione. Herman pagò il conto e a notte ormai inoltrata
uscirono dal locale. Da buona sudamericana Laisa propose a Herman
una delle cose che lui detestava di più nella vita: dimenarsi
al suono di ritmi animaleschi e tribali in una calca di folle inebetita.
Ma Laisa quella notte fu molto convincente, e così Herman penso
che quella corvè avrebbe avuto la giusta ricompensa. Dopo una
mezz'ora di cammino arrivarono al Ritmo-mocambo-tribal, un locale
non più alla moda, dove si riunivano attempati e stempiati
rimorchiatori, rimorchi e rimorchiati, del giovedì sera. Laisa
si dimenava sulla pista e una folla di signori panzuti le sbavavano
letteralmente dietro. Herman ballò con lei per circa un'ora
e a intervalli più o meno irregolari pensava allo stramaledetto
libretto che aveva lasciato sul suo divano. Per un attimo pensò
di piantare lì Laisa e tornare da solo a casa. Ma sarebbe stato
troppo anche per la pazienza della ragazza. Alle tre la pista da ballo
si svuotò ma a Laisa questo non sembrava interessare: continuò
a dimenarsi per un'altra mezzora mentre un corpulento e brutto individuo
le ronzava attorno come un famelico idiota da ballo. Dopo circa mezz'ora
la sudamericana decise di avvicinarsi al divanetto su cui Herman era
pesantemente seduto, mentre quel grosso idiota da ballo la seguiva.
Sarebbe stata rissa ed Herman non era il tipo... era un mago delle
parole, ma in quanto a fare a pugni...lasciamo perdere. Desiderò
di essere un feroce Boxeur -o un saggio Boxer- , per intimidire quel
tipo, il tanto che basta, da buon professionista, fuori da qualsiasi
canile o ring. Mentre ormai Laisa era quasi arrivata, l'idiota da
ballo la cinse a sé, e la sudamericana, senza pensarci troppo,
gli sferrò una violenta gomitata nello stomaco. Herman si alzò
per andarle incontro mentre un grosso buttafuori, vista la scena,
stava per intervenire: Laisa lo prese per un braccio, afferrò
i cappotti dai divanetti e sospinse Herman verso una porta secondaria
del locale, che fortunatamente risultò essere aperta. Fuggirono
nella notte carichi di forza e passione, ridendo e sudando freddo
nello stesso tempo. Senza dire una parola si trovarono nell'appartamento
che Laisa divideva con altre due inquiline, una di origine balcanica
e l'altra, invece, una messicana arrivata in città da qualche
settimana, e che proprio l'indomani, a sentire Laisa, sarebbe dovuta
rientrare per qualche giorno nel sud delle Ardegnas. Senza svegliare
le altre inquiline entrarono nella stanza di Laisa, travolti dalla
passione dei sensi. A Mattino inoltrato si svegliarono. Laisa era
già uscita per andare a lavorare. Nella stanza Herman trovò
un biglietto in cui Laisa diceva di amarlo e tante altre paroline
esageratamente sdolcinate. Si vestì in fretta e uscì.
Nelle scale, incontrò una splendida ragazza mora che gli disse
di essere la nuova coinquilina e se poteva indicarle la stazione ferroviaria.
Era in partenza per Caralis. Herman decise di allungare un po' il
percorso per rientrare a casa e accompagnarla così alla stazione.
Le offrì la colazione in un bar sulla via della stazione prima
di mostrarle dove poteva comprare il biglietto ferroviario. Herman
provò a farle qualche domanda sul suo lavoro e sul suo soggiorno
in città ma la messicana sviò gentilmente ogni risposta.
La salutò ammaliato da tanta bellezza e rientrò a casa.
Entrò nell'appartamento e come un automa si diresse verso il
divano. Voleva finire di leggere quel maledetto libretto. Non trovandolo
pensò di averlo lasciato in qualche altro angolo dell'appartamento.
Con fare concitato rovistò dappertutto. Rivoltò casa
e abiti. Nulla. Sparito nel nulla. Pensò a Segugios. Dov'era
il suo cane? Sentì abbaiare. Uscì in terrazzo. Segugios
era lì. Intirizzito. In bocca aveva un foglio di carta straccia,
con quelle strane lettere appuntate sulla pagina: ???. |