Era un intersecarsi infinito di strade polverose. Solitarie case rurali
si affacciavano disperse e deserte ai margini del mio passaggio. Nessun
cartello a indicarmi la direzione. Solo l’insana voglia di andare.
Diramazioni scelte a caso, e lo smarrimento di non conoscere i luoghi.
E rimuginando, sul perché avessi abbandonato la strada sicura,
asfaltata dalla modernità, decisi che non volevo più
tornare indietro, che non potevo farlo. E quando la strada prese a
salire, arrampicandosi verso il monte, l’indicatore della benzina
cominciò a sprazzi a illuminarsi, in un continuo minaccioso
ammiccare. La strada si faceva, oramai, sempre più stretta,
e senza slarghi era impossibile invertire il senso di marcia e prendere
la discesa. Mi domandai chi ero, mentre, lontano dall’umanità
che mi ignorava e ignoravo a mia volta, passavo lontano, dai legami
di sangue che fanno solo soffrire, che ti proteggono e ti incatenano.
Chi era, quell’uomo dentro la macchina, che si portava appresso
un bagaglio invisibile di esperienze, e un bagaglio visibile di cellule
che invecchiano? Era un uomo che avrebbe potuto benissimo non esistere,
per tutta la vita che parallela lo sfiorava, nasceva e moriva, e ignorando
il suo passaggio procedeva inesorabile. Era un uomo che non aveva
visto i mari del mondo, ma le piazze assolate e buie della vita, troppo
giovane per i rimpianti, troppo vecchio per i sogni.
E mentre, a pomeriggio inoltrato, la mente si affollava nitida e confusa
di ricordi e la stretta stradina si faceva improvvisamente pianeggiante
scorsi un bagliore di vita. Vidi una semplice ed essenziale casa con
tetto spiovente e rustiche arcate in pietra, contornata di fiori ed
erbe aromatiche e un grosso cane bianco che sonnolento dormicchiava
di fronte a una porta in legno. Fermai la macchina, esausta dalla
lunga salita e quasi vuota di carburante, e mi avvicinai alla casa.
Il cane emise un ringhio sommesso che pian piano diventò un
minaccioso abbaiare. Mi allontanai verso la parte laterale dell’abitazione,
e incastonata tra due possenti alberi ramificati dentro la roccia
vidi una rigogliosa fontana che confluiva il suo prezioso nettare
dentro una vasca di pietra, e subito dietro un piccolo orto che si
ritagliava un minuscolo spazio ai piedi di una roccia bagnata dal
sole.
Una voce di donna alle mie spalle mi fece sussultare. Mi girai ancora
visibilmente imbarazzato, e la vidi. Ed era, molto più della
bellezza. Era sensualità, pelle abbronzata dal sole della montagna,
velluto levigato dall’aria rarefatta, accecante fiorente femminilità
sottratta alle leggi del tempo. E quegli occhi troppo scuri, quei
capelli corvini lunghi e ricci, quel viso regolare, mi rubarono subito
l’anima.
Mi riportarono alla realtà le sue parole, la sua voce apparentemente
calma, che nascondeva il timore della mia presenza.
“Lei chi è? Cosa fa, vicino alla mia casa?”
Blaterai a malapena il mio nome. “Mi sono perso… sono
quasi a secco di benzina” aggiunsi.
“Ho in casa una tanica di benzina. La può prendere e
prima che venga la notte sarà a valle” mi rispose.
Le sue parole non erano certo ospitali. Ma i suoi modi volutamente
bruschi, il suo sguardo teneramente minaccioso, tradivano una dolcezza
non comune a tutte le donne, un amore nascosto nell’isolamento.
“Va bene…mi dia la benzina. Levo subito il disturbo”
dissi in tono risoluto, con l’orgoglio tipico di chi non si
sente accettato.
“ Aspetti fuori. Le porto subito la tanica”.
Sussurrò qualcosa nell’orecchio dell’enorme cane
bianco che accucciandosi non smise un attimo di fissarmi.
Tornò subito dopo con la tanica che a malapena riusciva a sorreggere,
barcollando ad ogni passo e con un ultimo sforzo appoggiò il
contenitore a terra.
“ Ora può tornare tranquillamente indietro… prima
di partire..se vuole.. si rinfreschi nella fontana….ho da fare
in casa e non posso aiutarla oltre…faccia buon viaggio”.
“Mi dica quanto le devo per la benzina. Non voglio debiti”.
“ Non si preoccupi… prenda la benzina che le serve e lasci
quella che le avanza sotto il porticato”.
Ringraziai silenziosamente con un cenno della mano e subito mi avviai
verso l’auto. Presi dal portabagagli l’imbuto e lentamente
versai il liquido nel serbatoio. Mi avviai con la tanica verso il
porticato. Di fronte alla casa, sotto un pergolato che sicuramente
regalava ombra e ristoro nelle giornate più afose c’era
un tavolo, con sopra alcuni libri e vecchie riviste d’arte e
letteratura. Mentre riponevo la tanica sotto un angolo del porticato
vidi la donna guardare furtivamente dalla finestra e subito nascondersi.
Decisi di non indugiare oltre, per non impaurirla ancora, e risoluto
andai verso la macchina. Nel cielo nitido osservai un falchetto ondeggiare
libero nell’aria, immagine forte e meravigliosa della forza
della natura. Entrai nell’abitacolo dell’auto, e misi
in moto. Dallo specchietto vidi la donna avvicinarsi all’auto.
Aspettai. Lei indugiava. Finalmente si avvicino al finestrino e parlò:
“ Mi scusi.. per i miei modi bruschi.. ma ho avuto paura. Sa…
qua di rado arriva qualcuno. Viene, solo, una volta al mese una mia
amica a portarmi le provviste”.
“ Capisco… le paure di una donna sola… sperduta…
tra i boschi. Solo… spero di ritrovare la via per tornare al
villaggio. Per fortuna.. nessuno mi aspetta e nessuno si dovrà
preoccupare per il ritardo”
“ Senta…forse.. se aspetta a domani.. potrei accompagnarla
io…sono a corto di provviste e potremmo andare insieme al villaggio.
Poi… risalirei con la mia amica” disse titubante.
“ Scenda dall’auto, che le offro qualcosa da bere”
aggiunse.
Spento il motore scesi dall’auto. La seguii. Era scalza, con
un vestito nero che metteva in risalto le sue forme. Mi fece sedere
nel tavolo sotto il pergolato. Tornò con una fumante tazza
di caffè nero appena uscita dal bricco. Lo bevvi con gusto
a piccoli sorsi.
“ Non mi ha detto neppure come si chiama” dissi.
“ Mi chiamo Elisa” rispose. E, smaniosa di parlare, continuò:
“ Sono fuggita sulla montagna perché non sopportavo più
i rumori della città. Ora, posso pensare, dipingere..leggere..
anche se ho.. dopo due anni di quasi isolamento… ho quasi nostalgia
della città, delle comodità della civiltà”
disse, in una risata che era quasi un inno alla vita.
“ Certo la sua è una scelta insolita, ma coraggiosa.
Io ho sempre progettato di rifugiarmi in un posto splendido e isolato
come questo, nella mia prima vita, quando volevo fare lo scrittore”.
“ Ma mi dica il suo nome, altrimenti comincerò a credere
che sia un fantasma della mia mente” disse.
“ Mi chiamo Andrea. Diamoci del tu. Basta con queste formalità.”
“ Va bene. Raccontami qualcosa di te, cosa ci facevi in giro
per i boschi. Dimmi cosa è accaduto nel mondo, negli ultimi
tempi. È da una vita, che non leggo un giornale” chiese,
con un incalzare di domande da consumata eremita.
Dopo averle sommariamente elencato i principali avvenimenti della
settimana, insistette per sapere qualcosa della mia vita. E mentre
mi guardava, ansiosa di sapere qualcosa su di me, sentivo il profumo
della sua pelle inebriare i miei sensi, con un caldo vento di umanità.
E sentivo anche, che le mie parole sarebbero state ascoltate, che
non si sarebbero perse, come milioni di volte, nelle orecchie di chi
voleva solo parlare, solo far rumore, nell’ennesima finzione
di sentire e capire le tue parole.
“ Sono solo. Alcune rendite mi permettono di vivere agiatamente.
Sempre in fuga da qualcosa. Sempre fermo nel mio lembo di terra. Ho
provato a scrivere. Ma un po’ per mancanza di talento, un po’
perché non so scendere a compromessi, sono oramai anni che
non scrivo più una riga, e fuggo al pensiero della morte e
allo stesso tempo la desidero”.
Elisa mi guardò con tenerezza, come poche donne sapevano fare.
E mi vide, in tutta la debolezza che avevo sempre nascosto. Non riuscivo
a sfuggire il suo sguardo, perché poteva vedere le mie lacrime
soffocate nel buio virile della notte, coperte dalla barba ormai folta,
trasandata e inquieta della mia esistenza. E guardarla mi regalava
coraggio, e brevi sprazzi di serenità che avevo perduto.
I nostri sguardi timidamente si incrociavano e subito si rifuggivano.
Mi disse che avrebbe preparato la cena, e avremmo mangiato sotto il
pergolato, e che, se volevo, potevo guardare i suoi quadri nello studio
attiguo alla cucina; di non aver paura di Cucciolo, l’enorme
cane bianco che mi aveva ringhiato contro, e ora, improvvisamente,
ai comandi della sua padrona si accucciava ai miei piedi. Entrai in
casa. L’abitazione si componeva di quattro stanze con spesse
pareti, l’ambiente rustico e il pavimento di tavolato conferivano
un sapore di antico al rifugio. Entrai nello studio. Subito, mi colpirono
un vecchio violino appoggiato su una poltrona e una radio antica simile
a quella di mio nonno. Sul cavalletto, al centro della stanza, una
tela bianca. Appoggiati ai muri della camera dei quadri dai colori
intensi. Uomini soli che scrutano panorami splendidi e solitari. Torrenti
e maree, vecchi pescatori sulle banchine degli splendidi porticcioli
del mare nordico, boschi e laghetti montani, treni che lambiscono
in silenzio la natura.
L’uomo, marginale, rappresentato in maniera oscura sulla tela.
E, vicino alla finestra, lambita dalla luce che filtrava dalla tenda,
l’essenza della sua creazione artistica: un sentiero che dalla
montagna calava a picco sul mare, cedendo il passo alla sabbia bianchissima,
che fondendosi in un mare smeraldino si disperdeva nel blu degli abissi.
Contrasto tra la potenza della montagna e l’infinità
del mare ridotto a misera immagine. Uscii dallo studio e mi avvicinai
alla cucina. Elisa stava cucinando. Sopra il grande camino della cucina,
una vecchia foto in bianco e nero appesa al muro mi incuriosì.
Vi era ritratto un uomo con un fucile, con berretto e barba bianca,
simile ad un bandito fiero e triste della sua latitanza. Guardai Elisa
che si era voltata verso di me e mi dimenticai della foto.
“ Hai fame? –Disse-. “Tra un attimo è pronto”.
“ Comincia a sederti a tavola. Tra un istante arrivo”
aggiunse.
Uscii fuori dal rifugio. La tavola era gia imbandita, con una tovaglia
bianca sulla quale erano disposti dei piatti di coccio e dei boccali.
Elisa portò del pesce. Arrivò subito dopo con un boccale
d’acqua preso alla fonte e una bottiglia di vino bianco che
aveva conservato dentro la vasca della fonte per tenerla in fresco,
e non aveva voluto bere da sola. Le prime luci della notte ormai stavano
calando sulla montagna. Elisa accese le canne di bambù appese
al porticato, e pose a terra alcune bugie in ferro battuto. Subito
l’ambiente e la silente estasi della montagna furono schiariti
dal bagliore delle luci. Appena si sedette a tavola, mi disse orgogliosa,
di aver preso quel pesce nel torrente non molto lontano dalla casa
dopo vari tentativi andati a vuoto. Credo che fosse quel deserto umano
nel quale viveva ad avermi riservato questo trattamento, ma ne fui
lo stesso felice.
Quando, alla fine della cena, vuotammo la bottiglia, il tono delle
nostre voci divenne più disteso e più alterato, e la
discussione si animò, e si fece più confidenziale. Dopo
avermi istruito sul modo più veloce e rapido per spaccare la
legna mi parlò del suo passato.
“ Mia madre era una violinista” disse “ si esercitava…e
aspettava per lunghi giorni…e si esercitava..”
“ Chi, o cosa aspettava?” chiesi.
“ Aspettava mio padre… l’uomo della foto in cucina…
che viveva nel suo capanno, preso dai suoi traffici”
“ Non posso negare che quella foto mi abbia colpito” dissi
“ tuo padre…ha un’aria…da…” e
m’interruppi.
Elisa mi tolse dall’imbarazzo.
“ Ha un’aria da bandito. E, in un certo senso, lo era.
Viveva ai margini della legalità. Utilizzava questo capanno
per depositare la merce che arrivava dal mare, attraverso i sentieri
che percorrono la montagna e giungono a picco sulle cale deserte”
disse.
“ Sì…Sono figlia di un contrabbandiere..latitante
senza colpa dell’eredità di mio padre. Questo era il
suo rifugio. Ho cercato di ritrovare la mia storia… nel luogo
dove lui ha lasciato l’impronta più forte del suo passaggio”
“ Elisa. La figlia del contrabbandiere. Sembra il titolo di
un romanzo” aggiunsi divertito. Ma subito mi feci serio. Perché
quella, non era finzione. Erano sentimenti mescolati ai sogni. Estasi
figurativa intrisa di luoghi del passato. Ricerca della felicità
nascosta nella consapevolezza che si è, anche quello che gli
altri sono stati.
Ed Elisa rise serena al mio vagare poetico. Perché non era
figlia di assassino. Non era, figlia di uomini che ti rubano l’anima
per poi rivenderla al miglior offerente. Era, latitante senza colpe,
del passato di un uomo che non aveva conosciuto. Figlia di un uomo,
che aveva scelto di percorrere le strade ai margini della civiltà,
che avrebbe potuto essere benissimo un buon contadino o un buon allevatore,
e che invece, percorreva a piedi le mulattiere della montagna per
eludere un divieto, che a lui, appariva assurdo. E forse, lo era.
Era ormai notte inoltrata quando ci ritirammo nelle nostre stanze.
Avrei voluto vivere li per sempre.
Non eravamo due adulti nascosti all’umanità che cercavano
il mare sottratto ai navigatori del nostro secolo; eravamo la voce
generica, offuscata alla vista, vitale e morente, dei nostri giorni.
Questo eravamo.
Purtroppo, l’indomani sarei dovuto partire. Verso i lidi della
mediocrità. Da cui si può solo fuggire, se hai alle
spalle una storia sbagliata, come aveva fatto Elisa.
Cosa avrei fatto?
Certe donne si possono appigliare all’amore, ai vestiti; ma
agli uomini cosa rimane? Un ventre gonfio di birra, un lavoro mediocre,
pochi capelli ingrigiti, una passione schifosa e ossessiva per il
sesso. E in pochi casi, la voglia sincera e disinteressata di rifarsi
una nuova vita. Un’altra possibilità.
Rimuginando su questi pensieri mi addormentai profondamente.
Era mattino inoltrato quando mi svegliai: affacciandomi alla finestra
vidi fasci di sole riscaldare lembi di terra vergine.
Chiamai Elisa ma non mi rispose. Uscii in terrazza. Costeggiai la
casa spinto da una forza invisibile. Camminai con passo svelto e sicuro
oltre una piccola foresta di sughere. La vidi. Era dentro un piccolo
laghetto ai piedi di una cascata. Volevo avvicinarmi. Chiamarla. Possedere
la sua bellezza. Mi sentivo sporco nell’osservarla a tradimento
e decisi di andarmene. Fu lei a spezzare il mio incantesimo pronunciando
il mio nome.
L’acqua era gelata. I nostri giovani corpi si scambiarono promesse
d’amore suggellate da verità ancestrali. Intrecciati
dimenticammo il nostro passato.
Scalammo le vette più alte per ammirare il mare più
intenso. Eravamo entrambi purificati da colpe mai commesse.
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