Sono sempre con me, anche
quando non voglio e le guardo col volto e col cuore, sono ancora sulle
mie spalle quelle masserizie su un camion, quelle reti, i materassi
in vista e qualche suppellettile. Le guardo ogni volta come si guarda
una ferita che non dà più dolore ma è li scolpita
sulla mia pelle e mi riporta al passato, al presente.
Una mattina come un’altra eppure io dovevo andare via, andare
via col presentimento antico di lasciare il proprio paese, la propria
vita finora vissuta e non tornare mai più.
Mi attendeva la città, gli studi, una vita più bella
e un giorno chissà l’onore come dicevano i vecchi mentre
mi baciavano in coda di fronte al cancello della casa che lasciavo:
ma a me dell’onore degli studi in quel momento non importava
nulla, vedevo solo la mia casa vuota e la prevedevo tristemente non
più mia, vedevo quel camion, quelle masserizie e piangevo,
piangevo a dirotto aprendo ogni tanto la bocca in larghi sorrisi accompagnati
da strette di mano così insignificanti come le altre cose che
mi stavano attorno.
Mai come in quegli attimi presa da una strana lucidità percepii
dentro di me chi fra tutta quella gente avrei dovuto amare e chi odiare:
tutto era così chiaro ormai, la realtà mi penetrava
con tutta la sua vergine violenza e mi indicava senza inganni quei
volti senza maschera, quei volti che vedevo ogni giorno ma non scrutavo
o meglio non mi accorgevo di scrutare per via dell’abitudine
di quel fare consueto che ci accomunava e ci avrebbe accomunato forse
per sempre se qualcosa di insolito come la mia partenza non avrebbe
turbato la solita quiete.
Quei volti navigano ancora in me e li amo e li odio come quel giorno,
con l’ingenuità e la violenza di quegli attimi come amo
e odio la mia casa, l’orto e quel camion su cui son partita
con mia madre in lacrime al mio fianco con lo sguardo perso per sempre
verso i monti, i miei monti, mentre creavo nella mia mente una regia
di immagini che mi vedevano ormai in un giorno lontano, chissà
dove, a ripensare a quel giorno, a questi attimi lontani anch’essi,
ora che il camion correva, correva come all’impazzata e rubava,
nascondeva tutto nel suo vortice come il vento, come il tempo che
si nutre delle cose e le nasconde ogni giorno come ogni giorno le
ricrea nell’eterna girandola dell’esistenza.
I primi giorni la città mi appariva grandissima e divertente;
tutto era da scoprire e ogni cosa era buona per distrarmi dalle mie
malinconie, anche la casa nuova per quanto piccola e scomoda la trovavo
attraente persino bella e aristocratica appollaiata all’ultimo
piano di un grande palazzo a forma di nave oggi quasi un rudere.
Anche le prime lezioni ginnasiali erano un buon alibi per fare qualcosa
per distogliere dalla mia testa il mio recente passato, il mio dolore
che covavo nell’animo in un silenzio forzato in quanto non conoscevo
nessuno e la mia diffidenza di allora non mi portava certo a parlare
con il primo venuto. La classe era enorme e numerose le alunne, ancora
più numerose nella mia mente che le sentiva ostili ed estranee
per quel modo di fare oserei dire pettegolo nei miei confronti forse
per il mio modo di vestire e per la mia diffidenza tipicamente paesana.
Erano giorni atroci di solitudine, di malinconia, di rimpianto per
quel mondo che era ormai alle mie spalle e inesorabilmente.
In quei momenti ripensavo ai vecchi che mi salutavano, all’onore,
quel maledetto onore che deprecavo in silenzio perché mi strappava
alle mie radici, alla mia serenità, alla mia vita.
Vinse comunque lo studio e anche se con risultati spesso e volentieri
volutamente magri riuscii ad andare avanti a vincere l’isolamento
e la diffidenza e ad abituarmi a stare in mezzo a quella gente che
cominciavo a sentire non più ostile, ma anzi stranamente cordiale
soprattutto in un piccolo vicinato ove ultimamente avevamo scelto
di abitare in una casetta vecchia quasi isolata a ridosso di tante
altre catapecchie in un groviglio di viuzze che amai tanto per tutto
il tempo in cui vissi in quella città.
In questa casa stavamo più tranquilli, senza i soliti battibecchi
tra coinquilini, fra gente umile e cordiale come la mia famiglia,
come i poveri, come quelle famiglie che abitavano intorno e che come
noi provenivano dai paesi vicini arrivati lì per lavorare e
mandare i figli alle scuole superiori affinché come me studiando
si facessero onore.
Non sono passati tanti anni eppure sembra così diverso, così
lontano quel tempo, l’atmosfera di quegli anni ginnasiali vissuti
in quella casa, nella mia stanza enorme col pavimento di cemento scolorito
e screpolato, ove mi perdevo in uno strano vuoto colmato appena da
una branda, un tavolo, due sedie, una vecchia “toilette”
laccata di bianco e un lenzuolo enorme inchiodato a due pareti per
nascondere un angolo che fungeva da armadio ai pochi abiti che allora
possedevo. I libri che ho sempre amato moltissimo, più che
mai allora, come amici ideali, li tenevo uno sopra l’altro accanto
a me per farmi compagnia, per pensare, ma anche per soffrire perché
in essi oltre alle mie mani vi vedevo quelle incallite di mio padre,
il sacrificio quotidiano di mia madre quasi una frusta sul mio cervello
incapace a volte di studiare ma non di meditare. Allora amavo studiare
da sola, sfuggivo volutamente gli altri perché non scoprissero
il mio mondo interiore, le mie sofferenze, la mia povertà così
chiara in quel lenzuolo che pendeva ormai grigio di polvere dalle
pareti rosa e di cui mi vergognavo come un’onta, come i miei
stessi pensieri che trovavo assurdi perché diversi in quella
realtà nuova che stavo conoscendo e che ancora dovevo imparare
ad amare.
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