La Partenza
di Vanna Flore

 

 

Sono sempre con me, anche quando non voglio e le guardo col volto e col cuore, sono ancora sulle mie spalle quelle masserizie su un camion, quelle reti, i materassi in vista e qualche suppellettile. Le guardo ogni volta come si guarda una ferita che non dà più dolore ma è li scolpita sulla mia pelle e mi riporta al passato, al presente.
Una mattina come un’altra eppure io dovevo andare via, andare via col presentimento antico di lasciare il proprio paese, la propria vita finora vissuta e non tornare mai più.
Mi attendeva la città, gli studi, una vita più bella e un giorno chissà l’onore come dicevano i vecchi mentre mi baciavano in coda di fronte al cancello della casa che lasciavo: ma a me dell’onore degli studi in quel momento non importava nulla, vedevo solo la mia casa vuota e la prevedevo tristemente non più mia, vedevo quel camion, quelle masserizie e piangevo, piangevo a dirotto aprendo ogni tanto la bocca in larghi sorrisi accompagnati da strette di mano così insignificanti come le altre cose che mi stavano attorno.
Mai come in quegli attimi presa da una strana lucidità percepii dentro di me chi fra tutta quella gente avrei dovuto amare e chi odiare: tutto era così chiaro ormai, la realtà mi penetrava con tutta la sua vergine violenza e mi indicava senza inganni quei volti senza maschera, quei volti che vedevo ogni giorno ma non scrutavo o meglio non mi accorgevo di scrutare per via dell’abitudine di quel fare consueto che ci accomunava e ci avrebbe accomunato forse per sempre se qualcosa di insolito come la mia partenza non avrebbe turbato la solita quiete.
Quei volti navigano ancora in me e li amo e li odio come quel giorno, con l’ingenuità e la violenza di quegli attimi come amo e odio la mia casa, l’orto e quel camion su cui son partita con mia madre in lacrime al mio fianco con lo sguardo perso per sempre verso i monti, i miei monti, mentre creavo nella mia mente una regia di immagini che mi vedevano ormai in un giorno lontano, chissà dove, a ripensare a quel giorno, a questi attimi lontani anch’essi, ora che il camion correva, correva come all’impazzata e rubava, nascondeva tutto nel suo vortice come il vento, come il tempo che si nutre delle cose e le nasconde ogni giorno come ogni giorno le ricrea nell’eterna girandola dell’esistenza.
I primi giorni la città mi appariva grandissima e divertente; tutto era da scoprire e ogni cosa era buona per distrarmi dalle mie malinconie, anche la casa nuova per quanto piccola e scomoda la trovavo attraente persino bella e aristocratica appollaiata all’ultimo piano di un grande palazzo a forma di nave oggi quasi un rudere.
Anche le prime lezioni ginnasiali erano un buon alibi per fare qualcosa per distogliere dalla mia testa il mio recente passato, il mio dolore che covavo nell’animo in un silenzio forzato in quanto non conoscevo nessuno e la mia diffidenza di allora non mi portava certo a parlare con il primo venuto. La classe era enorme e numerose le alunne, ancora più numerose nella mia mente che le sentiva ostili ed estranee per quel modo di fare oserei dire pettegolo nei miei confronti forse per il mio modo di vestire e per la mia diffidenza tipicamente paesana.
Erano giorni atroci di solitudine, di malinconia, di rimpianto per quel mondo che era ormai alle mie spalle e inesorabilmente.
In quei momenti ripensavo ai vecchi che mi salutavano, all’onore, quel maledetto onore che deprecavo in silenzio perché mi strappava alle mie radici, alla mia serenità, alla mia vita.
Vinse comunque lo studio e anche se con risultati spesso e volentieri volutamente magri riuscii ad andare avanti a vincere l’isolamento e la diffidenza e ad abituarmi a stare in mezzo a quella gente che cominciavo a sentire non più ostile, ma anzi stranamente cordiale soprattutto in un piccolo vicinato ove ultimamente avevamo scelto di abitare in una casetta vecchia quasi isolata a ridosso di tante altre catapecchie in un groviglio di viuzze che amai tanto per tutto il tempo in cui vissi in quella città.
In questa casa stavamo più tranquilli, senza i soliti battibecchi tra coinquilini, fra gente umile e cordiale come la mia famiglia, come i poveri, come quelle famiglie che abitavano intorno e che come noi provenivano dai paesi vicini arrivati lì per lavorare e mandare i figli alle scuole superiori affinché come me studiando si facessero onore.
Non sono passati tanti anni eppure sembra così diverso, così lontano quel tempo, l’atmosfera di quegli anni ginnasiali vissuti in quella casa, nella mia stanza enorme col pavimento di cemento scolorito e screpolato, ove mi perdevo in uno strano vuoto colmato appena da una branda, un tavolo, due sedie, una vecchia “toilette” laccata di bianco e un lenzuolo enorme inchiodato a due pareti per nascondere un angolo che fungeva da armadio ai pochi abiti che allora possedevo. I libri che ho sempre amato moltissimo, più che mai allora, come amici ideali, li tenevo uno sopra l’altro accanto a me per farmi compagnia, per pensare, ma anche per soffrire perché in essi oltre alle mie mani vi vedevo quelle incallite di mio padre, il sacrificio quotidiano di mia madre quasi una frusta sul mio cervello incapace a volte di studiare ma non di meditare. Allora amavo studiare da sola, sfuggivo volutamente gli altri perché non scoprissero il mio mondo interiore, le mie sofferenze, la mia povertà così chiara in quel lenzuolo che pendeva ormai grigio di polvere dalle pareti rosa e di cui mi vergognavo come un’onta, come i miei stessi pensieri che trovavo assurdi perché diversi in quella realtà nuova che stavo conoscendo e che ancora dovevo imparare ad amare.

 

COSTANTINO LONGU FRANCESCHINO SATTA POESIAS SARDAS CONTOS POESIE IN LINGUA ITALIANA

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