La corriera era partita di buon mattino
quel giorno.
Oramai erano iniziate le vacanze, e così, come ogni anno,
si andava al paese per trascorrere alcuni mesi lontano dalla città
e per riprendere “il colorito”, come diceva spesso mio
padre.
Per le strade ancora l’odore della notte mentre seduti sui
marciapiedi alcuni nottambuli s’attardavano a rientrare, non
del tutto lucidi dopo essersi riempiti lo stomaco del solito alcool
traditore.
La stazione delle corriere dava su una grande piazza, dove al centro
faceva bella mostra una grande vasca che quasi veniva voglia di
tuffarsi per alleviarti dall’aria calda e appiccicosa di quel
mattino di giugno. “Dai Giuseppe facciamo un bel tuffo così
ci rinfreschiamo un pochino” consigliavo a mio fratello senza
averci pensato bene prima; ogni tanto si poteva pure sognare.
Stranamente sembrava che le stagioni avessero anticipato di un mese
e senz’altro era così, perché sentivo spesso
questi discorsi sul tempo dal venditore di frutta che ogni mattina
sostava all’angolo di casa. Mentre la corriera lasciava la
città e si lanciava per la Statale, io e mio fratello ne
combinavamo di tutti i colori e spesso i rimproveri di mia madre
seguivano poco dopo quelli di mio padre che sicuramente avevano
un effetto “miracoloso”.
Eravamo i soliti, e forse Giuseppe era quello più turbolento
mentre io, più grande di lui, riuscivo a controllarmi e disturbare
il meno possibile. Le altre due sorelle e un altro fratello erano
rimasti in città, a Cagliari, per visite mediche e per altri
impegni con la scuola e perciò sarebbe stato impossibile
partecipare a quel inizio di vacanza. Avevamo caricato sulla corriera
anche le due biciclette, ancora in buone condizioni nonostante le
corse sfrenate e le cadute quotidiane, ma il divertimento erano
le corse e le gare che spesse volte lasciavano i segni sulle ginocchia,
ed allora arrivare a casa erano rimproveri, con il risultato di
qualche giorno senza le due ruote.
Quella mattina la corriera era particolarmente veloce e l’autista,
un tipo grosso e baffuto, non faceva altro che fumare una sigaretta
dietro l’altra, senza curarsi del fastidio che poteva dare
ai passeggeri. L’inizio vacanze ci aveva particolarmente caricato,
e Giuseppe non faceva altro che chiacchierare a più non posso
non lasciando tranquillo nessun passeggero.
L’arrivo al paese aveva coinciso con l’ascolto della
Santa Messa nella chiesetta vicino a casa. Una bella doccia rinfrescante
prima di recarci in chiesa, e nuovamente saremmo stati in forma.
Infatti, anche Don Usai aveva notato questa nostra freschezza, e
subito ci aveva occupato per servire la Santa Messa con altri amici
che con grande festa ci accolsero con baci e abbracci.
Dopo la messa non ci fu neppure il tempo di stare in giro con gli
amici perché subito arrivò l’ora del pranzo.
Quindi se ne sarebbe riparlato la sera, dopo il solito riposino,
per fare qualche giro in paese, magari in bici. Ma anche Giuseppe
non era molto sicuro dell’uscita con le due ruote, anche perché
ci aspettava la punizione che i nostri genitori avevano promesso
durante il viaggio.
Sotto il grande pino che regnava sovrano in un angolo del cortile
tutto era pronto per il pranzo. Ci si era rivisti con gli zii e
i cugini.
All’arrivo i cugini non erano presenti perché avevano
trascorso la mattinata al mare.
Ma il ritrovarci all’ora di pranzo era stata una grande festa
e le grida di gioia erano tante e fragorose che i grandi non riuscivano
a calmarci.
Che gioia ritrovarsi! Raccontarci le nostre cose e assaggiare le
tante cose buone che Zia Giuseppina aveva preparato!
Anche zio Francesco era nella gioia più grande. Il ritrovarci
era il massimo. Lo zio Francesco non si era sposato. Era amante
della poesia e la scriveva pure. Esistono ancora i suoi manoscritti
redatti in bella copia su quei quaderni a copertina nera che tanto
andavano di moda molti e molti anni fa. Poi, per mandare avanti
la “famiglia” e per le necessità quotidiane dei
suoi ragazzi, faceva qualche lavoro di sartoria oppure qualche benefattore
si interessava spedendo viveri o anche qualche offerta in danaro.
Qualche volta riceveva dei viveri dal Vaticano che aveva preso molto
a cuore la sua attività di benefattore. Ricordo di una stanza
dove raccoglieva le provviste tutte in perfetto ordine e tutto sotto
controllo per poter soddisfare le esigenze quotidiane della sua
comunità. Aveva circa dieci ragazzini di età scolare
che aveva tolto dalla strada e da famiglie che non potevano assicurare
il pane e non potevano interessarsi per dare un minimo di istruzione
e poi una sistemazione futura.
Questo era il suo progetto. Lo portava avanti con sacrificio ma
la sua tenacia e la sua voglia di aiutare questi ragazzi era grande.
Aveva pure un nome la sua casa-famiglia. Si chiamava Piccolo Regno.
Un piccolo Regno veramente ed era tutto di una semplicità
serafica. Tutto era stato creato perché questi ragazzi potessero
un domani essere padroni del proprio futuro e certamente Zio Francesco
era da ammirare per la sua voglia di andare avanti nonostante le
grandi difficoltà che incontrava ogni giorno.
Quindi nel nostro vicinato avevamo una piccola comunità,
come si dice oggi, e certamente era grande gioia per noi avere oltre
ai cugini altri compagni d’avventura per combinare ogni tanto
qualche guaio e qualche preoccupazione in più ai grandi.
Ricordo tanti momenti passati in laboratorio con questi ragazzi
dove si eseguivano piccoli lavori di traforo. Veramente mi aveva
appassionato fare lavori di quel genere anche perché poi
avevo saputo che lo Zio aveva avuto, nel periodo della Fiera Campionaria
della Sardegna, uno spazio per poter vendere i lavori che venivano
prodotti nella sua comunità. Si guadagnava bene in quel periodo
e quel tipo di lavoro andava alla grande. Anche i piccoli lavori
di sartoria facevano reddito per la comunità e Zio Francesco
certo non aveva alcun problema per quella attività anche
perché era andato giovanissimo a Torino per “imparare
l’arte” come si diceva un tempo.
Era partito giovanissimo, forse non aveva nemmeno 17 anni. Ricordo
che ci parlava spesso di quel suo periodo. Parlava pure di aver
partecipato come comparsa a qualche film: era un bel uomo in definitiva
e certamente aveva fatto presa in qualche personaggio dell’ambiente
cinematografico in cerca di “nuovi volti”. Non ricordo
i film a cui partecipò ma ricordo soltanto la sua gioia quando
raccontava degli aneddoti e i suoi occhi allora si velavano di lacrime
e la sua voce tradiva qualche emozione.
Certamente in quelle vacanze avremmo fatto grande indigestione delle
sue storie e lo stare insieme anche nelle lunghe camminate in campagna
e in montagna, motivo per cui ero particolarmente contento.
Fare le lunghe camminate era la mia passione e non vedevo l’ora
che arrivasse il momento buono per indossare gli scarponi e lo zaino
con tutto l’occorrente.
Il copione oramai più o meno si ripeteva ogni anno, ed ecco
perché l’attesa era tanta e non vedevo l’ora
di mettermi in marcia con tutti quanti gli altri ragazzi e partire
verso la montagna.
Non capivo il perché di questa voglia sfrenata di mettermi
in marcia, scoprire caratteristici angoli della montagna. Il Monte
Linas ci aspettava, e come un grande gigante avevamo la forza di
andarlo a trovare e sfidarlo. Sarebbe stata una grande festa arrampicarci,
anche se non saremo riusciti a raggiungere la cima. Era tanto arrivare
a circa 1300 metri di altezza. In paese alcuni ragazzi erano riusciti
a farlo, ma bisognava essere allenati alle lunghe camminate ed avere
una grandissima dote di coraggio. Un giorno senz’altro avremmo
fatto anche questa esperienza. Per il momento ci bastava arrivarci
vicino. Vi erano tante altre cose da scoprire: ammirare bellissimi
paesaggi e attraversare il fiume Piras, proprio nelle vicinanze
dove inizia a salire per il monte Linas.
Arrivare al mio paese era per noi una grande festa. Ci si incontrava
con gli amici e con i parenti e le giornate trascorrevano nell’assoluto
relax con le camminate in campagna e l’avventurarsi per le
montagne che ogni mattina facevano bella mostra al mio risveglio.
L’olivo faceva da padrone e i lecci erano una manna per la
frescura che ti regalavano.
All’arrivo di quella prima giornata di vacanza ci accolse
Giovannino, un amico di famiglia che s’intendeva di lavori
di campagna e il suo orto era il paradiso delle cose buone. L’anguria
era l’unica frutta che ci dava una particolare allegria.
Ricordo le grandi fette che venivano tagliate, e quasi non riuscivo
neppure a sollevarle, quelle angurie, neppure a due mani. Non ero
molto in carne all’età di quindici anni, ma piuttosto
mingherlino, e l’andare a trascorrere le vacanze al paese
era il toccasana per rimettersi in forma. Quella prima sera di vacanza
la passammo dentro casa.
Con grande dispiacere restammo dentro casa ma non certo con la voglia
di starcene fermi e buoni. Ma non era comunque il caso di farla
tragica: ci sarebbero state altre giornate e forse anche più
interessanti.
A quei tempi certo non si poteva stare tranquilli a vedere la televisione.
Sarebbero passati molti e molti anni prima che prendessimo un televisore
e potessimo goderci qualche cartone animato o qualche bel film.
Io e Giuseppe si giocava a tombola, e insieme ai cugini e ai ragazzi
della comunità si escogitava così un sistema per passare
il tempo e per non annoiarci.
Nel mentre che ci divertivamo in vari modi mio padre preparava le
valigia per l’indomani. Doveva rientrare in città perché
per lui le ferie non esistevano. Erano tempi difficili e bisognava
andare al lavoro. Anche la mamma rientrava con mio padre anche perché
la sua presenza era necessaria sia per le sorelle, che per l’altro
fratello rimasti a Cagliari.
Dentro di noi forse eravamo anche contenti, non solo per non avere
i nostri genitori sempre dietro, ma ero un modo per essere responsabili
delle nostre azioni. In realtà non è che si restava
senza controllo. Al contrario, Zia Giuseppina e Zio Giovanni erano
forse più esigenti dei nostri genitori.
Ricordo la stanchezza di quel primo giorno e di come presi subito
sonno appena misi la testa sopra il cuscino, senza contare le pecorelle,
come ci dicevano i grandi, che bisogna contarle quando non si riesce
dormire.