(da
Pitzinnos minores -
Reminiscenze d’infanzia)
Tziu Banneddu Chirone, su cunzaresu , un uomo duro e non di facile
approccio, era schivato e tenuto lontano, quasi da tutti i confinanti.
Aveva alle spalle, una lunga serie di problemi con le forze dell’ordine,
per dei fatti criminosi di varia natura ma, legati al mondo agro-pastorale.
Era costretto, suo malgrado, a vivere agli arresti domiciliari nella
sua tenuta di campagna, questa, presumibilmente, era considerata,
altresì, la sua sola abitazione possibile.
Il suo podere, era poco distante da quello di tziu Badore, dove nonostante
il suo particolare carattere aveva instaurato un buon rapporto di
convivenza e di rispetto reciproco con il vicino.
Vista la situazione particolare, per qualsiasi commissione in città,
o magari, per il recapito di provviste alimentari, poteva contare
sull’amico o in qualcuno dei ragazzi, magari quelli più
grandicelli, considerato che, con gli altri vicini, i rapporti erano
a dir poco, pessimi e difficili.
Tziu Banneddu, oltre al pessimo carattere aveva anche una brutta considerazione
di forte bevitore. Quella, comunque, era la pura realtà.
Molto spesso, a causa delle frequenti e considerevoli sbornie, causate
dalle continue e interminabili sorsate di abardante , era indotto
a distogliersi dalle sue attività produttive, e mandare in
malora il proprio lavoro, trascorrendo delle giornate intere in profondo
letargo, che gli permettevano così di isbentiare lentamente
le sue sbornie, senza arrecare ulteriori danni.
L’uomo, aveva appena effettuato la mietitura del grano, e quindi,
per sgranare le spighe, occorreva completare il lavoro con l’aia.
Reduce, da una lunga serie d’ininterrotte ubriacature, ebbe
la bella idea, di proporre, il suo lavoro del momento a Luiseddu,
di appena nove anni di età.
“Nà – gli disse, cercando di coinvolgerlo –
Se riesci a guidare i buoi e farmi s’arjola, ti pago bene, anche
profumatamente. Che ne dici?”.
“Certo, tziu Bannè – rispose, con sicurezza Luiseddu
- Ma quanto mi date?”.
“Guarda, - replicò subito dopo l’uomo - Se riesci
a farlo tutto nel giro di qualche giorno e non sporchi il grano, ti
do mille lire, però voglio un lavoro ben fatto”.
Il ragazzo, in quel periodo era in su cunzau, pro tentare , e quindi,
aveva tutto il tempo che voleva, e questo, poteva servirgli addirittura,
come passatempo per trascorrere più velocemente le giornate.
Nello stesso momento, sarebbe stata una buona occasione di guadagno,
tanto più che, le mille lire, non le aveva mai, ne possedute,
ne viste.
Una buona occasione per potersi acquistare, quanto in quel momento
era nei suoi desideri.
“Tziu Bannè – rispose Luiseddu – Per me,
va bene, ma non riesco a capire come io possa sporcare il grano?”.
“Certo che tu non lo sporchi, - chiarì l’uomo -
Il problema, lo creano i buoi, che essendo giunti l’uno con
l’altro tramite su Jubale , e avendo, il masso di granito da
trainare, al momento che devono fare i loro bisogni, tu devi essere,
pronto, ed evitare che la cacca vada sopra il grano”.
“Non
capisco – perplesso, rispose il ragazzo - Come posso intervenire?”
“Semplicemente con questo barattolo, - riprese il vecchio -
Come ti accorgi, che uno dei buoi solleva la coda, devi immediatamente,
mettere il barattolo sotto la stessa coda, in modo che, le feci, siano
raccolte all’interno. Devi farlo con attenzione e tempestività,
senza che niente ti sfugga e vada a danneggiare il grano”.
Luiseddu scrutò attentamente il barattolo, nei lati, aveva
stampato due mani che si stringevano fra loro in segno di pace. Era
un contenitore di “casu giallu ”, un formaggio molle,
che gli alleati americani avevano portato in Italia sul finire della
guerra a sostegno delle famiglie bisognose.
“Certo tziu Bannè, accetto, – disse il fanciullo
– Ma poi, è sicuro che mi darete le mille lire?”
“Luisè, non ti fidi di me! – quasi risentito, il
contadino - So comente unu babbu pro tene ’, stai tranquillo,
e vedrai che avrai la banconota da mille tutta per te, e così,
potrai comprati tutto quello che voi, abbarra cumbintu ”.
Affare fatto.
Il ragazzo senza perdere tempo, cominciò alla predisposizione
dell’aia, fantasticando su tutto quello che, con tanto danaro,
avrebbe potuto comprarsi esclusivamente per lui, ma qualcosa, anche
per i fratellini, e il rimanente per i genitori, a sostegno della
famiglia.
Iniziò così il lavoro: “Thruu sor bòes
”.
Con gioia, e sussurrando (per non spaventare gli animali) qualche
canzone in lingua sarda, motivi, abitualmente sentiti dal papà,
amante dei canti a chitarra, e ancora di più, delle gare di
poesie improvvisate, che in quegli anni, erano frequenti nelle feste
paesane dei comuni della Barbagia.
A lavoro avviato, forse era trascorsa soltanto una mezzora, ecco che,
uno dei due jubos , sollevò leggermente la coda all’insù.
Luiseddu, pronto, con una mano tenne “sas funes ” per
la guida delle bestie, e con l’altra il barattolo, che cercò
di accostare con delicatezza sotto la coda, evitando d’impaurire
l’animale, che avrebbe potuto reagire in modo violento, ma questo,
non avvenne, e tutto andò nel senso giusto. “Ploff”,
il peso del contenuto, quasi gli fece scivolare il barattolo dalle
mani, ma con energia e forza, riuscì a contenere tutto il fardello.
Svuotato il contenitore dalle feci a un lato dell’aja, ricominciò
a girare intorno al percorso premarcato, trainando l’enorme
masso. Questo senza tralasciare di scrutare ancora accuratamente la
coda dei due bovini, per essere continuamente pronto e solerte nell’eventualità
di un altro intervento di raccolta.
Nei giorni seguenti, questo evento si verificò diverse volte,
ma il fanciullo, ormai, si considerava, quasi un sicuro contadino.
Infatti, riuscì sempre, nell’intento di salvaguardare
il grano, senza mai imbrattarlo minimamente.
Certo, in quei giorni, il polso della mano destra, gli recava molto
dolore, tra l’altro se pur leggermente, si era persino gonfiato.
Non importava, occorreva stringere i denti, poiché, il lavoro
procedeva in modo ragionatamente corretto, e quindi, a breve, avrebbe
ricevuto le tanto sognate e attese mille lire.
Altro impegno, non meno importante, era quello di separare il grano
dalla paglia, con una pala da muratore, attrezzo molto vecchio e in
parte consumato dal tempo, e chissà, da quanti impasti di cemento
e malta che, nel corso degli anni aveva rimestato.
Con la sgangherata pala, occorreva lanciare per aria il grano unito
a tutto il contenuto che si era creato durante la macina.
In quel modo, con l’aiuto del vento, (che non mancava quasi
mai) il grano scendeva direttamente per terra, mentre, le polveri
e rimanenti pezzetti di paglia, essendo più leggeri, venivano
trasportati dal vento a qualche metro di distanza.
Fatto questo, un compito molto delicato, era la raccolta da terra
del grano, che doveva essere più pulito possibile, senza nessun
residuo di paglia, ma con la buona volontà, e il costante impegno,
il tutto procedeva alla perfezione.
In quei giorni, il datore di lavoro a parte le prime ore, dove verificava
l’andamento iniziale, poco e niente si faceva vedere. Sicuramente,
non erano i tanti osannati impegni a occuparlo, ma le ricorrenti sbornie.
Con pazienza, il grano doveva essere insaccato in enormi sacchi di
orbacia o materiali simili. Questo compito, se pur con tanta tenacia,
era quasi impossibile farlo da solo, e quindi, il ragazzo, chiese
la collaborazione del fratellino Piero, che se pur minuscolo e apparentemente
fragile, aveva una forza e un dinamismo straordinario.
Così, il piccolo, con apparente disinvoltura e volontà,
diede il suo valido e determinante contributo, permettendo, finalmente
di completare l’opera, nei modi e programmi prestabiliti.
Per questo, visto il premuroso impegno, Luiseddu, aveva promesso che,
appena avrebbe ricevuto le mille lire, gli avrebbe dato sicuramente
un lauto compenso
Era un caldo pomeriggio. Alle cinque del pomeriggio, Luiseddu, liberò
i buoi e li accompagnò verso l’abbeveratoio, un enorme
vascone di raccolta delle acque provenienti dalla sorgente adiacente.
Appagò così le bestie, per poi, sistemarle nel recinto,
realizzato vicino alla casetta da un muretto a secco, con sopra delle
frasche di mandorli. La recinzione, abitualmente ospitava gli animali
nei momenti di riposo.
Cercò a Tziu Banneddu nel casolare. Fece un giro nell’orto,
ma niente. “Tziu Bannè! Dove siete?”, nessuna risposta.
Continuò a chiamarlo per diverse volte, ma tutto era vano.
“Probabilmente è andato a farsi un giro tra gli ovili
che gravitavano intorno – pensava il fanciullo – Sicuramente,
è alla ricerca di qualche bicchiere di vino o tzichette de
abardente ”.
Dopo essersi stancato senza rintracciarlo, Luiseddu, alla ricerca
di refrigerio, in compagnia di Piero, si spostò verso la sorgente
d’acqua, situata in una stupefacente conca naturale, circondata
da una fitta vegetazione che, non permetteva al sole di penetrarvi.
Ma ecco la sorpresa. Poco prima di giungervi, percepisce un rumore
assordante. Inizialmente sembrava un motore a scoppio, invece, man
mano che i ragazzi si avvicinarono, il frastuono, assumeva sempre
più, un tono decisamente più umano, era tziu Banneddu
Chirone.
Sdraiato e immerso in un sonno profondo, russava in modo quasi meccanico,
all’ombra della compatta vegetazione e con una bottiglia di
acquavite quasi vuota, tenuta strettamente con la sua mano, e in parte,
immersa nella fresca acqua della sorgente.
I ragazzi, cercarono inutilmente di svegliarlo, ma il sonno era profondo,
e la sbronza gli permetteva di dire soltanto qualche parola: “Oggi
ho lavorato troppo, torna domani”.
Per l’uomo, il suo lavoro, in quella giornata, era stato esclusivamente
quello di aver avuto la capacità di sollevare il gomito per
adagiare la bottiglia sulle sue ruvide labbra. Nient’altro.
La sera, i due, rientrarono a su cunzau, distante soltanto qualche
centinaio di metri, con una forte e amara delusione.
Luiseddu aprì la porta de sa domo, e con Piero, cercano qualcosa
da mettere sotto i denti.
Trovarono in uno scaffale accanto a sa ziminera degli spaghetti: “Piè
che ne dici – disse Luiseddu - Ci facciamo la pasta con i pomodori
che abbiamo raccolto ieri dall’orto”.
“Certo che voglio la pasta – rispose Piero - Ho una fame
che non ti dico”.
“All’ora prendi un po’ di quella legna secca pro
alluminzare , - disse il fratello maggiore - Così facciamo
il fuoco, con i rami che sono dietro la casa”.
Prepararono un bel fuoco, e per prima cosa, Luiseddu, con alcune gocce
di olio, recuperate su una bottiglia che in origine conteneva “s’ispuma
”, mise uno spicchio d’aglio a imbiondire in una vecchia
casseruola.
A seguire, vi misero dentro alcuni pomodori fatti a pezzetti, due
spolverate di sale, e lasciato il tutto a cuocere per non più
di cinque minuti.
La fame era tanta, occorreva togliere il sugo ormai pronto “dae
sa tribide ” per poter sistemare “sa padedda cun sabba
” e cuocere gli spaghetti.
Fatto! La pentola era sul fuoco ma, occorreva aspettare soltanto che,
l’acqua, arrivasse alla giusta ebollizione.
L’attesa diventava quasi snervante, “Ma quanto ci mette
l’acqua a bollire - diceva Piero – Io ho molta fame”.
“Stai tranquillo che tra qualche minuto staremo mangiando”,
anche se, lo stesso Luiseddu, era più impaziente del fratellino.
Ma ecco che, finalmente, nell’acqua videro alcune bolle, era
pronta, l’immersione immediata della pasta, una bella mescolata,
per evitare eventuali incollature, e la consueta attesa per la cottura.
“Piè, gira la pasta ogni tanto – si rivolse al
fratello minore – io vado a prendere dei rametti de ozastru
, così ci facciamo le forchette”.
Si avviò verso una delle tante piante presenti intorno alla
casa, e tagliò due rametti, che nella punta avevano una divaricazione
a Fruchidda .
Con un coltello, le diede una pulitina, asportando la corteccia, e
appuntò per bene, le due estremità, creando cosi, delle
approssimative forchette.
La pasta era quasi pronta, il tempo di prendere un lavamano per poterla
scolare, per poi, condirla con quel bel sugo, e aggiungervi una spolverata
di pecorino grattugiato, rinvenuto in uno dei pochi barattoli presenti.
“Dai Piè, assaggia la pasta e narami si er bona ”.
Le labbra di Piero non permettevano nessuna risposta, la bocca era
piena, non c’era tempo per inutili chiacchiere di affermazione,
fece un cenno positivo con la testa, e così, continuò
nell’ingozzarsi parte di quel lavamano di spaghetti.
Certo, ripensandoci, forse gli spaghetti erano leggermente “al
dente”.
Infatti, durante la masticazione si sentiva un certo rumore, come
se, si frantumasse qualche cosa, precedentemente temprata.
Considerato che, la fame era davvero tanta, nessuno dei due ragazzi,
si era permesso fare dei reclami, e poi a chi potevano essere indirizzati?
La mattina successiva, Luiseddu di buon ora, si alzò e disse
al fratello “Tu rimani e cerca di dormire ancora un poco, io
vado da tziu Banneddu, per farmi dare le mille lire”.
“Va bene – rispose Piero – Ma cerca di non assentarti
per tutto il giorno”.
“Stai tranquillo, vado e torno, al massimo in un’ora sono
di rientro”.
Trascorsi dieci minuti, Luiseddu era nel podere del fantomatico datore
di lavoro: “Tziu Bannè, avete visto? Ho fatto come mi
avevate detto, che ve ne pare?”
“Bravo, bravo – sostenne il vecchio – hai fatto
tutto con responsabilità, le mille lire te le meriti veramente”,
“Mi fa piacere che siate soddisfatto, - disse Luiseddu - ora
con le mille lire finalmente posso comprare tante cosette che ho in
mente”.
“Certo Luisè, però, - ribattete l’uomo -
In questo momento, non le ho. Devo aspettare che i compratori del
grano mi retribuiscano, e così, anch’io, potrò
saldare il conto con te”.
Il ragazzo deluso, cercò di replicare: “Ma io, ne ho
bisogno, cercate di darmeli subito”.
“Non credere che voglia approfittare di te, - rispose il contadino,
con voce quasi dolente - Come tu sai, la legge mi proibisce di recarmi
a Nuoro, se non nei giorni predisposti, altrimenti sarei andato alle
poste e avrei prelevato le mille lire. Stai tranquillo, forse la prossima
settimana vengono a prendersi il grano e la prima cosa che farò,
è darti con tutto il cuore, quanto ti è dovuto”.
Con tristezza, Luiseddu, saluta e va via, convinto che, se pur in
ritardo, tra qualche giorno avrebbe potuto incassare.
Passano i giorni, e il ragazzo, senza farsi mai notare, si avvicinava
quasi quotidianamente nella tenuta di tziu Banneddu, andava direttamente
nei locali in cui era stato sistemato il grano per verificarne la
presenza.
Ma ecco che, a distanza di nove giorni, il frumento non c’era
più, questo, stava a significare che, era stato venduto, e
quindi si sarebbe risolto il problema della liquidità.
Cercò Tziu Banneddu, e lo trovò mentre annaffiava l’orto.
“Ciao tziu Bannè, come state?
“Luisè, beni-beni , che ti devo parlare”, si avvicinò
fiducioso, ma:
“Ieri sono venuti e hanno preso il grano, purtroppo, però,
non mi hanno pagato, hanno detto che per la fine del mese, avrebbero
liquidato un loro affare, e quindi, avrebbero immediatamente corrisposto
anche a me il grano”.
“Però questo non era nei patti – affermò
dispiaciuto il ragazzo – Queste cose dovevate dirmele prima,
e così, io mi sarei regolato di conseguenza”.
“Hai ragione – replicò il vecchio – Ma pensa,
se io ti avessi già pagato, probabilmente, oggi, non avresti
avuto più soldi, invece, in questo modo, tu hai un capitale
tutto da spendere”.
Non soddisfatto delle argomentazioni, Luiseddu, tratteneva a stento
un forte nervosismo: “Tziu Bannè, deo so andande, ca
b’apo atteras cosas de fachere, ma isetto chi mi pachezas cantu
prima, ca sos milli francos mi serbini aberu impresse ”.
Il fanciullo salutò e andò via, con l’intesa di
farsi vedere quanto prima.
Trascorse quel mese, Luiseddu senza perdersi d’animo diede un
continuo assalto all’uomo, ma con la solita scusa di non aver
potuto ancora incassare, si liberava del fanciullo.
Passarono tanti e tanti mesi ancora, ma il duro lavoro fatto, non
ebbe mai l’adeguata retribuzione, le mille lire, per Luiseddu,
sono rimaste soltanto come un immaginario sogno.
Visione inizialmente meravigliosa ma, conclusasi tristemente. Ancora
oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, rimane come segno indelebile,
di un forte sopruso, perpetrato ai danni di quel ragazzino, da parte
di una persona adulta.
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